Caro direttore, ho letto lei lenzuolata di martedì scorso ed essendo cocciuto e rompiballe, cito alcuni errori.
Sul generale Chrzanowsky il nostro Del Bocca nota che aveva servito con Napoleone, per segnalarne l’età avanzata. Ma i generali dell’epoca erano tutti coetanei, Radetzky compreso. Sull’ impronunciabilità del cognome non mi pronuncio, ma sembra chiaro che neanche il capo delle truppe imperiali si chiamasse Rossi. Ulteriore difetto del Chrzanowsky era il non parlare l’italiano usando «il francese con chi era in grado di capirlo». Cioè tutto l’entourage delle alte sfere militari con cui trattava quotidianamente, visto che non solo il francese era la lingua franca Internazionale dell’epoca (utilizzata quindi da nobili e funzionari), ma soprattutto era la lingua parlata dalla corte sabauta ( o forse Del Bocca ignora che Vittorio Emanuele II parlava un ottimo francese, un superbo piemontese e un sdentato italiano?)
Quando finalmente arriva il momento di criticare il generale polacco su questioni rilevanti, cioè la strategia. Del Boca che fa? Ammette che non era sbagliata! In compenso non cita neppure di sfuggita i forti contrasti sorti proprio su questioni tattiche che si ebbero nel campo imperiale tra Radetzky e il conte Laval Nugent di Westmeath (comandante del corpo di riserva austriaco), che per poco non favoriva i sabauti.
Del Boca lamenta l’assenza di anestetici presso l’esercito sardo nel 1849. In effetti etere e cloroformio erano utilizzati negli Stati Uniti dal 1842 e la prima applicazione di etere come anestetico dalle nostre parti avvenne il 2 febbraio 1847, all’Ospedale Maggiore di Milano. Quello che però non si dice è che la maggior parte della comunità scientifica internazionale, osteggiava fortemente queste sostanze, in quanto generavano forti dipendenze ed erano utilizzate massicciamente dai tossicodipendenti del tempo.
Del resto gli stessi medici che per primi utilizzarono etere e cloroformio, gli statunitensi Horace Wells e Willam Green Morton, morirono dopo aver vissuto oscuramente gli ultimi anni da drogati.
Non è male, infine, la perla che ci regala Del Boca a proposito del passaporto con il quale Carlo Alberto raggiunse l’esilio portoghese: un passaporto falso, intestato a un fantomatico conte di Barge. Posto che all’epoca il viaggio da Torino a Oporto era un po’ più duro che non oggi, e posto che il sovrano gradisse un po’ di privacy, appare chiaro che in un’epoca che vedeva l’inizio della fotografia (e di riflesso una riconoscibilità ancora limitata ed preclusa alle masse), per assicurare l’incognito bastasse un altro nome sul passaporto.
Di falsa, tuttavia, c’è solo l’affermazione di Del Boca. Se avesse approfondito la materia su cui si accingeva a scrivere, infatti, saprebbe che il titolo di Conte di Barge è uno di quelli spettanti al capo di casa Savoia. Quindi non un nome fasullo, ma un titolo legittimo, poco utilizzato e quindi ideale per passare inosservato.
Un cordiale saluto
Alberto Attolini
(Reggio Enmilia – Padania)
Lorenzo dal Boca
Alberto Attollini ironizza sulla “lenzuolata” a proposito della battaglia di Novara, a sottolinearne la lunghezza e poi contesta che è stato trascurato questo e quel particolare, indicando che il testo avrebbe dovuto essere assai più lungo. Ovvio che non tutto si può raccontare e che, in qualunque documento (anche un saggio), si deve presupporre una scelta e una selezione di argomenti .
Non si parla di contrasti nati fra i comandanti dell’esercito austriaco perché non interessano i “nostri”. In ogni caso, le polemiche altrui, in campo militare, si sono sempre risolte con strategie che, alla fine, ci hanno messo alle corde al punto che le abbiamo prese anche da Menelik. I nostri litigi hanno provocato la paralisi dell’esercito. Le opinioni dei comandanti massimi – piemontesi prima e italiani poi – erano orientati non a far prevalere la propria opinione ma a “coglioniare” i colleghi.
Radetzky e Chrzanowsky avevano entrambi nomi complica ti al nostro linguaggio e alle nostre orecchie, ma l’uno comandava l’esercito austro-ungarico e il suo nome doveva essere pronunciato da “loro”, mentre l’altro comandava l’esercito piemontese e doveva essere pronunciato da “noi”. Radetzky era cresciuto nell’amministrazione di Vienna, ne aveva salito i gradini passo a passo ed era riconosciuto come il vero numero uno. Chrzanowsky era considerato un mercenario che, nei quadri pur sgangherati dell’esercito sabaudo, veniva trattato con indifferenza e insofferenza anche per via della lingua che parlava.
In Piemonte si parlava piemontese. La maggior parte aveva dimestichezza anche con il francese e l’italiano ma questo non significa tutti e non tutti allo stesso modo. Chi capiva il francese: bene! Chi non lo capiva aveva necessità che qualcuno gli ripetesse, – traducendo- ordini e disposizioni. Queste considerazioni vengono dagli stessi comandanti dei reparti interessati, le relazioni e le testimonianze dei quali sono state raccolte da Vincenzo Bortolotti (Storia dell’esercito sardo e dè suoi alleati nelle campagne della guerra 1848-1949, Torino 1889). Ma poiché un pizzico di diffidenza non guasta, è stato aggiunto che, quando gli ordini – raramente – risultavano chiari, erano gli stessi comandanti a storpiarli perché ognuno si credeva più furbo e intelligente dei pari grado. E dunque Durando piuttosto che Ramorino hanno fatto di testa loro.
Attribuire a Vittorio Emanuele la capacità di esprimersi in un ottimo francese e, addirittura, in un superbo piemontese sembra, francamente, un’esagerazione. Il re “galantuomo” era un somaro di proporzioni galattiche: parlava (e pensava) piemontese e si arrangiava con il francese e l’italiano. Orale s’intende. Perché per scrivere era in serie difficoltà nell’una nell’altra lingua.
Quando il Piemonte entrò in guerra non aveva anestetici (il cui uso era controverso) ma mancava anche tutto il resto: niente medicine, niente garze, niente infermieri e niente medici. Non c’erano le armi e non c’era nemmeno da mangiare. I soldati, a Novara, combatterono a pancia vuota perché la sussistenza e il servizio medico erano appaltati a servizi esterni con personale che stava alla larga dal fuoco – perché rischiare di prendersi una schioppettata? – e interveniva quando la battaglia era finita.
Infine, Carlo Alberto. La vicenda dell’abdicazione del re, della sua partenza da Novara e del suo arrivo a Oporto, è ricostruita sulla base delle testimonianze – univoche, per una volta – dello staffiere Francesco Valletti (che guidò la carrozza) e del “corriere di gabinetto” Lorenzo Gamalero (che accompagnò il sovrano).
Raccontano che il re volle un “passaporto contraffatto”, operazione per la quale venne incaricato Raffaele Cadorna, allora capitano, destinato ai gradi di generale e a guidare l’assalto per la conquista di Roma nel 1870.
Allontanandosi da Novara, la carrozza con il sovrano finì fra le linee austriache. Le sentinelle di servizio accompagnarono Carlo Albeto dal colonnello Gorge Thurn, comandante del IV corpo d’armata austro-ungarico. Il re, presentandosi all’ufficiale austriaco, si qualificò come “conte Barg colonnello dell’esercito sardo in missione speciale”. Anche qui testimonianze univoche di parte austriaca e di parte piemontese.
Ora, non c’è difficoltà a impancare una discussione filologica per determinare se quella carta fosse un “passaporto” come l’intendiamo oggi (posto che oggi leggiamo la storia) o se è meglio definirla genericamente “documento”, Con altrettanta cura è possibile discutere – anche lungamente – se l’atteggiamento del re fosse quello di «assicurarsi l’incognito, gradendo un po’ di privacy», Oppure se si trattò di «un espediente atto a celare la propria identità al fine di trarre in inganno eventuali e possibili interlocutori», Oppure – e più semplicemente – che si è scelto di presentarsi “falsamente”.
E. tuttavia, quando saranno state prese le decisioni sulle parole e le espressioni da utilizzare, sarà possibile definire tutte le altre opzioni “strafalcioni”? Usando questa o quella definizione, che cosa cambia nella sostanza?
Questi dettagli, comunque marginali, compromettono il resoconto storico? Possono i particolari contestati nascondere il fatto che la guerra è stata condotta in modo vergognoso e, nonostante tutto, viene raccontata come se si fosse, trattato di una mezza vittoria?
Capisco che toccare qualche tabù fa venire l’orticaria all’accademia e alla tradizione. Ovvio che i super-nazionalisti del Secolo d’Italia preferiscano la storia paludata e retorica d’antàn ma, se le cose sono andate diversamente da come si insegna a scuola, non è colpa ne della storia ne di chi (con tutti i limiti, per carità anche lessicali) cerca di raccontarla.
Certo, sarebbe auspicabile che le contestazioni (che sono sempre benvenute) tocchino l’essenza delle cose e non i loro accidenti.
Lorenzo Del Boca
Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di martedì 29 settembre 2009, pag. 14