Si conclude lo parte relativa al primo conflitto mondiale del saggio sul Risorgimento di Del Boca. Vengono presentate ulteriori testimonianze e documentazioni sulle condizioni terribili in cui dovevano vivere e morire i militari italiani sui i fronti che li contrapponevano all’Austria
Se un militare veniva ferito, gli prendevano l’arma che finiva nel deposito del battaglione, quindi la si spediva al magazzino della brigata e poi finiva a Firenze, che funzionava come centro di smistamento. Quindi iniziava il “viaggio di ritorno”, tra carte, bolli e timbri di ogni genere
Prosegue la descrizione delle condizioni dei militari italiani sul fronte della Grande Guerra.
Intorno a quella gobba di terreno, c’erano dozzine di cadaveri con le gambe rattrappite, le unghie che ghermivano ancora la giberna o il calcio del fucile, riversi nella fanghiglia nella stessa posizione di quando erano crollati.
Alcuni «guardavano» verso gli austriaci ma gli altri erano girati verso le trincee italiane. Per qualche giorno gli occhi sembravano fissare un punto lontano, ancora carichi di stupore e, forse, di speranza. Poi diventavano orbite vuote in una carne livida, con le mascelle denudate come se volessero sghignazzare per dispetto.
Almeno due di quei poveracci avevano delle bende sul capo. Significava che erano già stati feriti precedentemente e, con la testa rotta, li avevano rimandati in prima linea, in ossequio al principio che il dovere doveva essere fatto per intero. «Miseranda carne umana ghermita senza rimedio»
Il terreno risultava seminato di spoglie umane. Il fronte cambiava di continuo perché si avanzava o si indietreggiava anche se per pochi metri. Quelle strisce di terra, sempre contese, ora conquistate e ora perdute, diventavano un cimitero multi-etnico con amici e nemici che il caso lasciava cadere uno sull’altro, lasciando che si stratificassero, senza ordine.
In una conca di qualche metro quadrato della montagna, era finita la carcassa di un ungherese, con le gambe e il torace affondati in una melma indurita che, però, gli aveva lasciato scoperta la schiena. «Che dovevo fare? – si chiedeva il caporalmaggiore – sradicarla da là era impossibile e, allora, ci dormivo sopra». Dopo averci fatto lo stomaco per il tanfo che rendeva l’aria irrespirabile.
Qualche metro più indietro, spuntava dalla terra un ginocchio ripiegato su se stesso. Austriaco? . Italiano? In quel posto, un po’ più riparato, arrivava la corvé per distribuire il rancio che, il più delle volte, consisteva in una pagnotta già fradicia e un bicchiere di caffé ormai freddo. Chi conservava la voglia di scherzare ironizzava sull’appuntamento da darsi al «bar ginoeuc».
Ancora morti, sempre sul San Michele. Una notte, la pattuglia partì per dare il cambio a due sentinelle. Occorreva avvicinarsi all’obiettivo senza che qualche rumore mettesse in allarme i nemici e, tuttavia, non così silenziosamente da impedire ai compagni di riconoscerlo. Carponi, appoggiati ai gomiti, con gli occhi socchiusi per percepire qualunque movimento nella notte e le mani avvinghiate sul calcio del fucile per difendersi in caso di pericolo. Ma, alla fine, ecco la buca delle sentinelle ed ecco i due che stavano vigilando, appoggiati alle feritoie. «Cambio…». I due restavano impassibili a guardare verso il pendio, come se avessero avvistato qualcosa. «Cambio… sentite…?! ». Erano stati uccisi, inchiodati ai sacchi di terra ai quali stavano appoggiati e che avrebbero dovuto proteggerli.
ACCUCCIARSI TRA I MORTI
Le nuove vedette buttarono i due cadaveri fuori dalla buca. Due corpi in più, sul mucchio degli altri, a rafforzare la barriera di difesa. Occorreva accucciarsi fra morti ammazzati di fresco e le carcasse che già cominciavano a putrefarsi. In quel groviglio quasi umano, dovevano cercare un posto adatto per appoggiare il fucile, come se si trattasse di una feritoia. Insieme, soldati vivi che avevano paura di morire e uomini già morti per i quali non era consentita nemmeno la pietà della sepoltura. I soprassalti di ferocia quotidiana soffocavano anche un minuscolo rigurgito di pietà.
Tutto ciò aveva ridotto eroici soldati in un gregge sfiduciato. Non era l’ardimento che mancava. Quello che faceva difetto era, piuttosto, un comando responsabile.
Sembrava che la vita non contasse, specialmente se era quella degli altri. Non si poteva attaccare con un’artiglieria insufficiente, anni scarse e i nemici bene appostati.
I comandanti ordinavano: «Avanti!!!». Spesso non era proprio possibile. «Avanti lo stesso!!! ».
Gli ordini li mandavano dalle retrovie. Chi li imponeva restava prudentemente indietro e, quei reticolati che i soldati dovevano sfondare, con ogni mezzo, non li avevano mai visti da vicino.
«L’avanzatla è quella cosa / che si fa movendo il passo / com’è bello, dietro un sasso / veder gli altri ad avvanzar».
Episodi? Migliaia. «Dopo tre assalti consecutivi, avevo una compagnia di 50 uomini. Mi metto a gridare che sarebbe una pazzia tentare ancora. Il maggiore mi lascia tranquillamente finire poi spiana la sua rivoltella sotto il mio naso: o lei va all’attacco o ho il dovere di sparare… Avevo già una medaglia d’argento al petto. Che potevo fare? Uscimmo la quarta volta… ».
Gli attacchi avvenivano a testa bassa, senza preparazione e senza un piano logico per raggiungere qualche risultato concreto. «Per ogni uomo che si buttava fuori dalla trincea, una fucilata e un cadavere». Il capitano si è messo di piantone presso il varco con la pistola in pugno: faceva uscire i suoi uomini, uno alla volta, minacciandoli con la sua arma. Un colpo, un tonfo e un corpo che rotolava. A lui non interessava granché: ubbidiva a disposizioni rigorose che gli erano state impartite. Avanti…! Un ragazzo gli urlò in faccia: «Io esco, signor capitano, ma lei mi avrà fatto ammazzare inutilmente».
«A destra dell’Isonzo ci sta santa Maria se stanco sei di vivere t’insegnerò la via».
POCHI UFFICIALI UN PO’ SENSIBILI
Certo, con ufficiali insensibili, si trovavano anche comandanti che, l’umanità; non l’avevano dimenticata a casa.
Per raggiungere una posizione che, secondo i comandi, andava annientata, c’era da arrampicarsi per un’erta di 200 metri ripida come uno specchio. Il comandante degli alpini fece presente che la natura del terreno sconsigliava di continuare con un attacco frontale e in pieno giorno. «Ma quanti morti avete avuto fino ad ora?». Trenta… «E con soli trenta morti vuole abbandonare l’operazione?». I reparti tornarono all’attacco, movendosi penosamente, quasi al rallentatore, su una china che non consentiva di stare in piedi. Dall’altra parte la voce della mitragliatrice che inchiodava gli italiani appena allo scoperto. Il comandante tornò al telefono per essere autorizzato a sospendere l’azione ma, dall’altra parte, evidentemente, non glielo consentirono. Fu visto gettare via il microfono e fu sentito commentare: «Esco io, è il solo mezzo per farla finita e risparmiare i miei uomini». Si lanciò allo scoperto da solo e stramazzò alla prima fucilata.
I soldati perdevano fiducia non per i rischi in sé che avevano messo abbondantemente nel conto. Quello che li avviliva era morire senza che ne valesse la pena, per il puntiglio di un comandante o per la cocciutaggine dello Stato Maggiore.
Per andare all’assalto occorreva sbarazzarsi dei reticolati che proteggevano le trincee nemiche. All’inizio i soldati dovettero arrangiarsi con le cesoie che, nella vita civile, usavano nei campi. Poi arrivarono i tubi di gelatina da collocare sotto i paletti di sostegno. «Quando esplodevano, mandando tutto all’aria, tu pensavi che, per sfruttare la sorpresa, quello era il momento buono per iniziare l’attacco». Sbagliato… Bisognava attendere l’alba per rendersi conto degli effetti ottenuti e «per tenere la direzione». Così gli austriaci si trovavano il compito facilitato. Bastava che posizionassero le mitragliatrici davanti ai varchi ed erano certi di non sprecare nemmeno un colpo.
Tutti gli ordini venivano mandati dalle retrovie: chi li imponeva restava indietro
Se, qualche volta e per fortuna, l’assalto riusciva, ci pensava qualche testa gallonata a rovinare il successo. «Siamo riusciti a sfondare! La brigata è stata massacrata ma alcuni reparti hanno preso le
trincee nemiche e davanti non hanno più nessuno». Quello era il momento di andare avanti per sfruttare il successo e consolidarlo. Ma gli strateghi dell’ « avanti a tutti i costi!», quella volta, si convinsero alla prudenza. «Fermi!»: fu l’ordine. I comandi richiamarono i subalterni al rispetto delle regole dell’attacco frontale. «Per continuare l’assalto, occorreva attendere che anche gli altri contingenti raggiungessero i fianchi per proteggerli». E allora tutti con le armi al piede, mentre gli austriaci lavoravano come forsennati per alzare degli ostacoli a loro difesa e prepararsi a sostenere l’urto nelle condizioni meno sfavorevoli.
Così, «quando furono ben sicuri che si erano rafforzati», giunse l’ordine di riprendere l’attacco. Risultato? Un cadavere per ogni metro.
«Colonnello mò o tenimmo generale, come ‘o facimmo? Un’azione andata male Eccote fatto ‘u generale».
UNA TATTICA SUICIDA
Certe circolari con cui venivano impartiti ordini e disposizioni sembravano descrivere situazioni totalmente fantastiche dove tutto – più che teorico – risultava arbitrario. Come se le possibilità fisiche degli uomini fossero un fattore ininfluente.
«Non cedere di un passo!».
Qualunque commentatore moderno considera suicida questa tattica del «non mollare neanche un metro». Il fatto è che, già allora, risultava del tutto inappropriata perchè costringeva rintanarsi nelle posizioni più scomode, meno facilmente difendibili e, dunque, più esposte alle aggressioni nemiche.
Gli austriaci si trinceravano in alto, sfruttando barriere naturali e piazzandosi nel punto più stretto della gola. Gli italiani gli arrivavano sotto, appena a ridosso, a tiro di fucile ma, evidentemente, più in basso, nella condizione più sfavorevole. Era come se le nostre postazioni le avesse scelte il nemico e per noi era come essere entrati nella gabbia del leone, sostenere di averla conquistata mentre la belva ci divorava vivi.
I soldati italiani si trovavano nelle condizioni di vedersi rovesciare addosso la montagna al primo accenno di maltempo. In basso, le loro trincee, si riempivano di acqua, di fango, di pietre che precipitavano a valle. Quando gli austriaci avevano voglia di schernirli facevano rotolare loro addosso gli escrementi raccolti nella toilette da campo, ma se infuriava la battaglia era impossibile resistere senza gravi danni agli assalti che venivano da sopra la testa.
I reparti si stancavano e si decimavano ma per non rettificare la frontiera, correggendola con qualche insignificante perdita di terreno, gli ufficiali lasciavano che i loro uomini venissero sottoposti a uno stillicidio di morti quotidiane. Tattica delittuosa.
La teoria degli alti comandi di «non perdere un palmo del terreno faticosamente e sanguinosamente conquistato» veniva amplificata e tradotta all’assurdo dai comandanti di reparto che obbligavano i loro uomini ad abbarbicarsi in anfratti inospitali anche per gli animali.
Tentarono di conquistare la cima del Piccolo Javorcek ma sembrava impossibile mantenerlo per il fuoco nemico. Provarono e riprovarono senza successo e, alla fine, fu ordinato di «restare vicino al culmine». «Vicino al culmine», su una parete quasi a strapiombo, significava aggrapparsi fisicamente alle rocce, appoggiandosi a una specie di trapezio di corde. Come gli scalatori professionisti quando tentano il sesto grado. Gli austriaci, da sopra, «per dileggio», tiravano pietre per spaventare gli alpini e facevano loro la pipì sulla testa. Ogni tanto organizzavano un colpo di mano, agganciando le corde e trascinandole sopra il distaccamento composto solitamente da 12 uomini. In quelle condizioni non si poteva ne scappare ne difendersi. Abbandonare la posizione? Risposero che non c’era ne il diritto ne il dovere di avanzare simili richieste. È certo che almeno altre due volte prelevarono «il posto in parola».
Per mantenere cento uomini sulla cima di Lagoscuro, a 3mila metri d’altezza, occorrevano 900 portatori per trasportare il necessario alla sussistenza. Non venne segnalato il numero dei poveracci che precipitarono per i costoni della montagna con un barile d’acqua sulle spalle. Ma è certo che gli incidenti erano quasi quotidiani.
VITTIME DELLA BUROCRAZIA
«E pochi giorni fa, per sloggiare 12 austriaci dalla punta del Torrione, abbiamo sparato 950 colpi d’artiglieria». Gli austriaci, infatti, abbandonarono il campo, lasciando due morti: quattro tonnellate d’acciaio per ciascuno. «Ma poi, noi, sul Torrione, non abbiamo potuto rimanere».
La guerra industriale aveva sviluppato una tormentosa burocrazia, come se si trattasse di combattere con i timbri, più che con le bombe.
Quando stava albeggiando gli uomini di sentinella in prima linea riuscirono a soccorrere un portaordini che era rimasto ferito alle gambe e a trascinarlo nell’accampamento. Era il solo superstite di un contingente di tre uomini: gli altri due erano rimasti uccisi per strada. Doveva portare una nota del comando che pretendeva di conoscere il numero «esatto» degli «scudi» esistenti in linea. Serviva per completare un documento statistico. Un’altra volta lo Stato Maggiore voleva sapere quali militari erano in grado di parlare il bulgaro o che conoscevano la moto-aratura.
Specchietti, elenchi, circolari, denunce, dimostrazioni prolisse e minuziosamente documentate per scarpe, divise, armi rotte, fogli d’addebito, consegna di posizioni di materiali, licenze, permessi, promozioni, ricompense, punizioni, prelevamenti di magazzino.
Se un soldato veniva ucciso, era questione di poco conto: un fregio sul ruolino e il morto non c’era più. Ma qualunque altra questione – meglio se banale – ingrossava un fiume di carta che, dai comandi più periferici, raggiungeva la frontiera e poi, progressivamente crescendo, tornava all’origine.
Solo l’ironia restava ai fantaccini per criticare le assurdità dei comandi
Per il fucile individuale, per esempio. Se un soldato veniva ferito, gli prendevano l’arma che finiva nel deposito del battaglione. Registri, inventari, catalogazione, immagazzinamento. Dopo, con il conforto di un pezzo di carta per ogni passaggio, veniva spedito nel magazzino della brigata e, dopo ancora, in quello del battaglione. Da lì – chissà perché – spedivano le casse a Firenze che funzionava come centro di raccolta e di smistamento dove il viaggio finiva per ricominciare alla rovescia: corpo d’armata, divisione, brigata fino al battaglione che ne aveva fatto richiesta.
I fucili viaggiavano sui treni, impiegando una quantità di persone per lo smistamento. Venivano a costare tre volte il loro prezzo e, soprattutto, mancavano quando servivano. I feriti, una volta guariti, si trovavano disarmati.
A cavallo fra il 1916 e il 1917, ogni contingente venne rifornito con 600 bussole luminose. Qualche tempo prima ne erano arrivate 200. Le 200 più vecchie e le 600 nuove rimasero nei magazzini perché quei gingilli che nessuno aveva chiesto non servivano a nulla.
«Ricevetti un documento che chiedeva quante bombe incendiarie servissero». Il giovane sottotenente non aveva mai sentito parlare di quegli ordigni e girò la domanda al direttore dell’artiglieria il quale propose di chiederne 20mila. «Non sapevo che cosa fossero e tentai di informarmi ma non lo sapeva nemmeno il comandante che giustificò la sua richiesta con il fatto che: tanto, le avrebbero mandate ugualmente». Destinate a essere accantonate da qualche parte senza essere utilizzate.
Come gli scudi che avrebbero dovuto proteggere gli uomini che avanzavano per tagliare i reticolati e risultavano perforabili a cento metri di distanza. Vennero scritte relazioni per dimostrarne – a suon di morti – l’inutilità. Continuarono ad arrivare al fronte. Insieme ai porta-proiettili – dei castelli di ferro da applicate sul basto dei muli – che risultavano dannosi perché, spostando il baricentro, facevano perdere l’equilibrio agli animali, facendoli precipitare per la montagna.
Durante l’inverno rigidissimo del 1917, la richiesta di fornitura dei farsetti di lana non venne subito “evasa” perché mancava una motivazione ufficiale che la giustificasse
Tanto solleciti per le idiozie e così noncuranti per le necessità indispensabili.
Nell’inverno del 1917, il più freddo di tutta la guerra, i soldati avevano bisogno dei farsetti di lana per proteggersi la testa e la faccia. La richiesta del colonnello non fu immediatamente evasa. Il «buono di prelevamento» venne trattenuto dal comando della divisione il quale lo mandò alla brigata con un allegato per ordinare una piccola inchiesta. Come mai il colonnello richiedeva quel materiale? E la brigata, con un allegato all’allegato, si incaricò di chiedere spiegazioni all’ufficiale.
DOCUMENTI SENZA SENSO
In qualunque altro posto, senza divisa, il responsabile di un settore – ove mai una simile pretesa non fosse risultata di per se comprensibile – si saebbe giustificato ricordando che faceva freddo e che la lana serve appunto per non congelarsi. Invece, il poveretto, utilizzando tutte le cautele lessicali per non offendere l’amor proprio dei superiori, si impelagò in una relazione di parecchi fogli per dimostrare che i farsetti con l’uso si erano rotti e, nonostante qualche rammendo, dopo un po’, risultavano inutilizzabili. In estate non servivano ma, d’inverno, erano diventati assolutamente indispensabili. Risultato? Il comando di brigata si preoccupò di trasmettere la giustificazione alla divisione che la tenne qualche giorno sul tavolo e poi, poco convinta delle spiegazioni, pretese chiarimenti più circostanziati. E soltanto dopo averli ottenuti, si risolse di evadere la pratica.
I soldati patirono più freddo per quarantacinque giorni. Lo stesso contingente dovette fare a meno anche dei proiettili per una batteria di cannoni. Il comandante mandò una staffetta per ottenere i rifornimenti ma il soldato venne fermato da una pattuglia di carabinieri.
«Destinazione?»
«Arsenale…».
«Permesso di viaggio?»,
«Eccolo…» Ma, secondo i militari, non era regolare. La staffetta venne trattenuta agli arresti, in attesa di scrupolosi accertamenti, senza aver esaurito i quali non fu possibile provvedere al rifornimento dei colpi per i mortai.
La burocrazia non si chetava, anche a costo di apparire caricaturale.
«Il mio comandante mi ordinò di ispezionare le trincee e io partii sotto il bombardamento. Mi arrampicai, scivolai, rotolai più volte giù dal pendio, ma ripresi il cammino con i muscoli rotti e il cuore in gola. Alla fine cercai il comandante per riferire». Stava in una caverna, davanti a un tavolo che si era fatto trascinare fino a mille metri d’altezza. Era l’ora della firma – momento sacro – e il generale siglava i fogli assicurandosi che i timbri fossero in numero giusto e nell’esatta collocazione della pagina. «Io aspettavo sull’attenti, sotto gli occhi degli scritturali che mi guardavano con indifferenza e, quasi, senza rispetto». Loro, sì, che stavano combattendo la guerra importante, non quel signorino di complemento, tutto sudato, e con la divisa in disordine. «Ero mortificato per trovarmi in quella posizione ridicola di messaggero trascurato e di ufficiale guardato in quel modo da soldati. Scontento di aver corso qualche pericolo per andare incontro a quella bella accoglienza e di destare più commiserazione che interesse, fra gente pacifica che aveva il privilegio di combattere con la penna» Che risultati poteva ottenere un ufficiale superiore che si comportava come un impiegato d’ordine? Più spaventato dalle bombe di carta che arrivavano dal comando che dalle granate austriache che venivano dalla frontiera?
I soldati, per vendicarsi avevano da azionare l’arma dell’ironia:
« ‘Nu fesso è partito / ‘nu fesso è arrivato / sarà silurato / senza pietà».
(16 ter – Continua)
Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di martedì 17 novembre 2009, pag. 12- 13