Giangranco Miglio spiega i fondamenti teorici dello sciopero fiscale contro i detentori del potere.
La ripulsa degli obblighi fiscali costituisce abitualmente insieme lo scopo e la modalità della “disobbedienza civile”. E non per caso.
L’appartenenza consapevole ad una qualsiasi convivenza civile e politica genera abitual mente l’impegno ad una contribuzione finanziaria (o a prestazioni in natura) finalizzata a remunerare i servizi offerti dalla convivenza medesi ma ai suoi membri.
A rigore di logica, ogni individuo dovrebbe essere tenuto a pagare soltanto le prestazioni di cui usufruisce personalmente, secondo il modello del rapporto, di scambio in trattenuto con tutti gli altri suoi simili e che gli consente di sopravvivere.
Ma già la funzione “pubblica” fondamentale e originaria – che consiste nel garantire il rispetto dei contratti di scambio conclusi (pacta sunt servanda) e la sicurezza dei cittadini e dei loro beni comporta una spesa collettiva per la gestione degli strumenti necessari (magistrati, polizia etc.) coperta con la raccolta di tributi variamente ripartiti e riscossi.
È quasi inutile rammentare che, sulla base di questa primordiale obbligazione – con la crescita della cosiddetta “civiltà materiale”, e quindi con la moltiplicazione dei “bisogni” – si è stratificata una mole imponente di “spese” (e quindi di contribuzioni) la cui dilatazione ha coinciso con il rafforzamento incessante dell’autorità di chi governa: “avere potere” significa, prima di ogni cosa, essere in grado di togliere risorse finanziarie dalle tasche di alcuni cittadini per trasferirle a quelle di altri, o alla disponibilità privata di chi comanda.
E l’investitura politica, con il passare del tempo, è diventata soprattutto, e primariamente, “mandato a tassare”: cioè licenza che i cittadini (inconsapevoli) accordano ai governanti di manipolare i loro redditi, e dunque una ricchezza “privata”, la quale, se accumulata nel rispetto della legge, dovrebbe essere invece intangibile.
È evidente infatti che su quanto una persona guadagna – vivendo in mezzo ai suoi concittadini, scambiando le sue prestazioni con loro e osservando le regole giuridiche del “mercato” – nei concittadini stessi ne i detentori del potere possono vantare alcuna pretesa, fondata sul diritto naturale.
La norma contenuta nell’articolo 53 della Costituzione italiana: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, non si radica in una regola di diritto (il quale “diritto” è sempre e soltanto una realtà individuale: solo gli individui, infatti, sono soggetti di diritti, e non le collettività) ma discende da una scelta ideologica assolutamente opinabile).
Secondo ragione quell’articolo dovrebbe recitare:
“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche nella misura in cui essi fruiscono delle stesse”
Neanche i principi della “progressività” e della “proporzionalità” dell’imposizione fiscale nascono dalla logica del diritto, ma entrano in Costituzione perchè si fondano su una decisione di maggioranza, e dunque, in sostanza, sulla sopraffazione dei più a danno dei meno; perché nessuno riuscirà mai a dimostrare che ciò che piace a tre persone è “più vero” (o “migliore”) di quanto preferiscono due; e la regola della “maggioranza” riconduce ad una sola presunzione: quella della forza.
Analogo è il caso dei precetti che si vorrebbero derivare da un presunto impegno alla ”’solidarietà”, e cioè a giovare gratuitamente ai propri simili; rispettabile e nobile quanto si vuole, questo non è un dovere fondato sul diritto, ma un obbligo che nasce da una fede religiosa o da un codice etico secolare: valido soltanto per coloro che accettano quella fede o quel codice.
Ciò che manca è un “ponte logico” il quale consenta di passare dal coerente sistema dei diritti individuali ai presunti doveri verso il prossimo.
Non si può infatti pensare di vedere colmato questo vuoto dalla constatazione brutale che, se chi è in grado di guadagnare non rende partecipi della sua fortuna coloro i quali guadagnare non sanno, questi ultimi gli impediranno poi, presto o tardi, di sopravvivere. Qui stiamo ragionando di diritti, e tutt’al più di diritti violati: non stiamo cercando di legalizzare la violenza.
Certo i detentori del potere, di ogni tempo e di ogni luogo, hanno sempre considerato gli averi dei sudditi (e poi dei cittadini) come pienamente disponibili, collocando i prelievi di ricchezza di gran lunga in prima fila tra gli atti di governo.
La situazione si è recentemente molto aggravata perché la natura, là struttura e la dimensione delle operazioni finanziarie rendono difficilmente percepibili tali “estorsioni”.
È notorio che, per accorgersi di un furto, bisogna avvertire materialmente l’atto dell’asportazione: se di una esportazione i danneggiati non si percepiscono l’effetto entro un certo arco di tempo, è come il se il furto non fosse mai avvenuto.
Esemplare a tale riguardo è l’esperienza che hanno fatto gli italiani .
Le colossali ruberie di denaro pubblico (e in parte più modesta anche privato) ad opera di personaggi e di affaristi politici, costituiscono una gigantesca sottrazione di risorse, perpetrata ai danni dei cittadini di questo paese.
Il fenomeno lo si sospettava (certo non nelle sue reali dimensioni macroscopiche): ma l’opinione pubblica non avvertiva, e non avverte nemmeno ora, l’impoverimento di cui è stata fatta segno. Di modo che le reazioni sono tutt’al più desolate o ironiche: difficilmente riflettono l’indignazione e l’ira del derubato.
Senza dubbio, quando il prelievo, e soprattutto la sperequazione fiscale (vale a dire la cattiva amministrazione) incidono pesantemente e improvvisamente sul tenore di vita dei cittadini, questi ultimi si ribellano.
Non è un caso se le maggiori rivoluzioni politiche d’Occidente (quella puritana nell’Inghilterra del Seicento, e quella francese del 1789) sono state innescate da gravi controversie in materia di tassazione.
Del resto tutti sanno che le istituzioni parlamentari – spina dorsale dei moderni regimi politici- sono nate proprio per garantire i cittadini dalla rapacità impositiva dei governanti: “No taxation without representation!”..
E infatti i primi coaguli di “rappresentanza” si ebbero quando i principi cercarono di sostituire il non eccelso auxilium militare dei non-nobili con una contribuzione finanziaria (per comprarsi più efficienti mercenari).
La legittimazione della classe parlamentare si deformò nel tempo: ma, nella sua accezione originaria, il “mandato di rappresentanza” – che lega i cittadini elettori ai loro “procuratori” (deputati) – fu lo strumento adeguato attraverso il quale i soggetti “tassabili” negoziavano con i detentori del potere la natura e l’estensione delle imposte. Sulla base dunque di una relazione schiettamente contrattuale.
Soltanto la progressiva trasformazione in senso assolutistico della sovranità (e la crescente arroganza di chi la detiene) hanno condotto a pensare invece l’autorità politica come depositaria della sapienza economica, e arbitra esclusiva della fortuna dei cittadini, ridotti, con le loro risorse e i loro beni, alla totale merce di chi quell’autorità impersona.
Le maggioranze parlamentari di oggi hanno raggiunto, in tema di asservimento fiscale dei cittadini, risultati che i principi assoluti di un tempo non si erano mai sognati.
Chi non appartiene alle, categorie dei privilegiati e dei protetti, è ormai un suddito “taillable et corvéable à merci”.
Il problema, naturalmente, non è di negare a chi comanda il potere di tassare: ma di discutere la struttura e l’incidenza del sistema impositivo e, soprattutto, la legittimità di talune imposte.
Fonte: srs di Rinfranco Miglio /Lo scritto è tratto da Disobbedienza Civile, Oscar Mondadori, 1993