Feb 16 2009

I Veneti e la loro storia – tutte le fonti letterarie

Category: Libri e fonti,Veneto e dintornigiorgio @ 12:55

 

Aristotele

 

Presso i Veneti succede, a quanto si dice, un fatto stranissimo. 

Sulle loro terre infatti calano a migliaia le “cornacchie” e saccheggiano il grano da loro seminato. 

I Veneti allora offrono loro, prima che oltrepassino i confini della regione, dei doni, gettando semi di ogni genere, se le “cornacchie” li mangiano, non passano sul loro territorio e i Veneti sanno di poter stare tranquilli; se non ne mangiano, pensano che costituiranno una minaccia, tale quale un attacco nemico.

 

Teopompo di Chio

 

Teopompo narra che gli Eneti abitanti lungo l’ Adriatico, quando è il momento dell’ aratura e della semina, offrono alle “cornacchie” doni consistenti in specie di pani e focacce, impastate molto bene.


L’offerta di questi doni vuole allettare e stabilire una tregua con le “cornacchie”, in modo che esse non scavino e non raccolgano il frutto di Demetra affidato alla terra.


Lico concorda con questo racconto e vi aggiunge che (gli Eneti portano) anche cinghie purpuree e che gli offerenti poi se ne vanno. 

Gli stormi delle “cornacchie” rimangono fuori dei confini, mentre due o tre di esse sono scelte e mandate verso i messi che vengono dalle città, per rendersi conto dell’insieme dei doni. 

Queste, dopo l’esame, fanno ritorno e chiamano le altre, per l’istinto naturale per il quale le une chiamano e le altre obbediscono.


Arrivano dunque a nugoli e, se assaggiano le offerte suddette, gli Eneti sanno di essere in stato di intesa con gli uccelli in questione; se invece non le curano e, sprezzandole come modeste, non le gustano, gli indigeni restano convinti che il costo di quel disprezzo sia per loro la fame. 

Se infatti i predetti uccelli non ne mangiano e, per così dire, non si lasciano corrompere, essi calano sui campi e saccheggiano la maggior parte delle sementi, scavando e cercando con rabbia tremenda.

 

Timeo

 

Molti poeti e storici dicono infatti che Fetonte, figlio di Elio, ancora in età infantile, convinse il padre a dargli, per un giorno, la guida del suo carro. 

Ottenutolo, Fetonte, nel condurre il carro, non riusciva a reggere le briglie e i cavalli, sprezzando la guida del ragazzo, uscirono dalla solita orbita. 

Dapprima, girovagando per il cielo, lo incendiarono e formarono quella che oggi è definita Via Lattea, poi, arsa molta parte della terra abitata, devastarono con le fiamme non poche regioni. 

Perciò Zeus, indignato per l’accaduto, scagliò un fulmine su Fetonte e fece tornare Elio sulla sua solita orbita. 

Fetonte cadde alle foci del fiume ora detto Po e in passato chiamato Eridano e le sorelle, a gara, piansero la sua morte e, per l’intensità del lutto, persero il loro primitivo aspetto, trasformandosi in pioppi. 

Questi, ogni anno nello stesso periodo, stillano una lacrima che, induritasi, produce la cosiddetta ambra. 

Questa supera per splendore le pietre dello stesso tipo e, nella regione, viene usata in segno di lutto alla morte dei giovani . (…)

 

Catone

 

La maggior parte della Gallia coltiva soprattutto l’arte militare e l’eloquenza.

 

Polibio

 

Un altro popolo, già da tempo, si era insediato lungo il litorale adriatico; sono chiamati Veneti e, per costumi e abbigliamento, sono poco diversi dai Celti, ma usano un’altra lingua. (…)

I Galli della Cisalpina desiderano seguire Annibale, ma se ne restano tranquilli per timore dei Romani; alcuni sono poi costretti a militare tra le fila romane.

 

Catullo

 

Ma morranno gli Annali di Volusio proprio vicino alla sua Padua e forniranno spesso ampi cartocci per gli sgombri.

 

Cicerone

 

Gli abitanti di Vicenza mostrano grande rispetto verso di me e verso M. Bruto. 

Ti prego perciò di fare in modo che non subiscano un torto in senato per la questione dei vernae. 

La loro causa è più che legittima, la loro lealtà verso lo stato è provata, i loro avversari invece sono tipi indegni totalmente di fiducia e turbolenti. 

Da Vercelli, 21 maggio (43 a.C.).

Non si può certo passare sotto silenzio il valore, la fermezza e la dignità della provincia della Gallia. 

Essa costituisce davvero il fiore d’Italia, il sostegno del popolo romano, l’ornamento della sua grandezza. (…)

 

Ovidio

 

Mantova è fiera di Virgilio, Verona di Catullo (…).

 

Stradone

 

Si tratta di una pianura estremamente ricca e costellata di fertili colline. 

E’ divisa circa a metà dal Po in due regioni, chiamate rispettivamente Cispadana e Transpadana; la Cispadana quella verso i monti Appennini e la Liguria, la Transpadana quella restante. 

La prima è abitata da stirpi liguri e celtiche, le une sulle montagne, le altre in pianura, la seconda è abitata da Celti e da Veneti. 

Questi Celti sono della stessa razza dei Celti transalpini, mentre per quanto riguarda i Veneti la spiegazione è duplice. 

Alcuni sostengono infatti che siano un ramo degli omonimi Celti abitanti lungo l’Oceano, altri che siano dei Veneti della Paflagonia, salvatisi qui con Antenore dopo la guerra di Troia. 

A prova di questa loro affermazione costoro citano il loro zelo per l’allevamento dei cavalli, attività oggi completamente scomparsa, ma un tempo molto in onore presso di loro e derivante da una antica predilezione per le cavalle generatrici di muli, cui allude Omero: “dal paese dei Veneti, da cui (proviene) una razza di muli selvatici”. 

E Dionigi, il tiranno di Sicilia, aveva fatto venire di qui il suo allevamento di cavalli da corsa, tanto che i Greci conobbero la fama degli allevatori veneti e questa razza divenne per lungo tempo celebre presso di loro.


L’intero territorio abbonda di fiumi e di lagune, soprattutto nella parte abitata dai Veneti (…).
(…) 

Sono un fatto accertato invece gli onori resi a Diomede presso i Veneti. 

Gli si sacrifica infatti un cavallo bianco e si mostrano due boschi sacri l’uno ad Era Argiva, l’altro ad Artemide Etolia. 

Si favoleggia poi, com’è ovvio, che in questi boschi le fiere diventino domestiche, che i cervi vivano in branco con i lupi, lasciandosi avvicinare ed accarezzare dagli uomini, che la selvaggina inseguita dai cani, non appena rifugiatasi qui, si salva dall’inseguimento.


Si racconta anche che uno dei maggiorenti del luogo, conosciuto perché amava offrirsi come garante e per questo deriso, incontrò dei cacciatori che avevano preso in trappola un lupo.


Costoro, per scherzo, gli promisero che, se dava garanzia per il lupo e pagava il prezzo dei danni che poteva fare, lo avrebbero liberato dai lacci ed egli acconsentì. 

Il lupo, liberato, si imbatté in un gruppo di cavalle non marchiate e le spinse verso la scuderia del suo garante; questi, sensibile a una tale prova di riconoscenza, marchiò le cavalle con un lupo e le chiamò licofore, bestie più rinomate per velocità e per bellezza.


I suoi discendenti conservano il marchio e il nome di questa razza di cavalli e si fecero come legge di non vendere all’estero neppure una giumenta, per mantenere solo per sé la razza autentica, dato che là questo allevamento era diventato famoso.


Ora però, come abbiamo detto, questa attività è del tutto scomparsa (…).

 

 

Fonte: Da “Le fonti letterarie per la storia della Venetia et Histria”
Clizia Voltan, 

 

“Da Omero a Strabone”, Volume I – (Venezia, 1989. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti)

 

Storia – Veneto – Veneti – Origini

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Feb 13 2009

Il primo esodo dalmata – E tutta un’ altra storia

Uno dei miti più persistenti del nazionalismo è quello dell’italianità della Dalmazia. Per molto tempo si è detto che la Dalmazia fosse abitata da una consistente minoranza italiana, che in ogni caso fosse egemone, rappresentasse la vera cultura e identità locale. L’idea insomma era che – indipendentemente dall’origine etnica – tutti si sentissero italiani o aspirassero ad esserlo. Il convincimento si basava su due assunti. Il primo aveva a che fare con la lunga appartenenza di larga parte della Dalmazia alla Serenissima e con l’identificazione semplicistica di Venezia con l’Italia. Il secondo che gli slavi appartenessero a una cultura inferiore, subordinata e che la loro evoluzione sociale e culturale non potesse che portarli alla italianizzazione. Entrambe le convinzioni si basavano su quanto era avvenuto sotto la Repubblica, quando gli indigeni effettivamente diventavano nel tempo “veneziani”, assimilando la cultura, gli usi e la lingua di Venezia. Il mito era stato creato dai patrioti dalmati italiani o italianizzati che hanno partecipato alle vicende risorgimentali, nelle quali la Dalmazia compare spesso in progetti di azioni militari.

Il dogma dell’italianità è rafforzato dall’irredentismo degli inizi del 900 e soprattutto dalla sua componente dannunziana che pretendeva la “liberazione” e l’annessione dell’intera regione fino allo spartiacque delle Dinariche. A questi principi era ispirato il Patto di Londra del 1915, con il quale l’Italia era entrata in guerra tradendo i propri alleati. La Dalmazia, ma anche l’Istria e il Tirolo meridionale sono perciò stati i 30 denari del tradimento italiano e non potevano portare niente di buono. In realtà la situazione locale era molto diversa. La Dalmazia aveva una composizione etnica molto diversificata: c’era gente che parlava italiano (in realtà veneto) , ma la maggioranza era rappresentata da croati e da serbi, con consistenti presenze tedesche, ungheresi, ebree, rumene e albanesi. Tutti erano stati per secoli felici sudditi veneziani: qui venivano reclutati i fedelissimi Schiavoni (da Schiavonia, Sciavonia, terra degli Sciavi-Slavi) . La lingua franca e colta era il veneziano e tutti lo parlavano e capivano, assieme al proprio idioma. Nell’area si parlava anche il dalmatico, una lingua neolatina, simile al friulano, che si è estinta alla fine del XIX secolo. La sola parziale eccezione era rappresentata dalla Repubblica di Ragusa che aveva conservato una sua lunga indipendenza, pur subendo la forte influenza culturale della Serenissima.

La condizione di pacifica convivenza era continuata sotto l’Austria (che si era annessa col Congresso di Vienna sia la Dalmazia veneziana che Ragusa) , che ne ha rispettato tutte le culture. Il primo censimento che tenesse conto delle etnie (in realtà delle lingue) è quello del 1910, secondo il quale in Dalmazia c’erano 610. 000 Slavi e 17. 900 Italiani (11. 600 a Zara, 2. 357 a Spalato, 444 a Curzola, 265 a Brazza, 586 a Lesina, 149 ad Arbe, 968 a Sebenico, 526 a Ragusa, 538 a Cattaro e altri piccoli gruppi sparsi) . Fiume era censita a parte e qui i risultati davano 25. 600 Italiani, 26. 600 Slavi e 6. 000 Ungheresi. Si è dibattuto sulla validità dei dati costruiti sulla “lingua d’uso” e non sulla “lingua di famiglia”: Ghiglianovich e i più accesi nazionalisti hanno sostenuto che gli Italiani fossero addirittura 100. 000, il governo italiano ha ipotizzato la cifra di 50. 000. Cambia poco. Resta il fatto che fossero comunque una piccola minoranza e che ci fosse molta commistione interetnica. Si era creata una cultura dotata di caratteri distintivi propri, originari e straordinari. Tutto è stato guastato dai nazionalismi di due Stati inventati che avevano bisogno di creare un identitarismo per giustificare la propria esistenza. Gli italiani quello italiano, capziosamente indicato come erede e continuatore di Venezia.

Gli jugoslavi per giustificare la creazione del regno SHS (serbo, croato e sloveno) che altro non era che il frutto dell’espansionismo imperialista serbo. Dopo la conclusione della grande guerra, l’Italia ha preteso il rispetto del Patto di Londra ma anche l’annessione di Fiume. Si trattava della solita ingordigia nazionalista giustificata dall’enorme costo umano della guerra appena conclusa e dal fatto che croati e sloveni avessero combattuto fino all’ultimo per l’Austria e che dovessero perciò considerarsi degli sconfitti. Queste pretese cozzavano con le preoccupazioni per una eccessiva espansione italiana da parte degli anglo-francesi, memori del modo poco limpido con cui l’Italia era entrata in guerra e come fosse sopravvissuta essenzialmente grazie all’aiuto economico ma anche militare alleato e che non meritasse perciò troppe concessioni territoriali. Si scontravano anche con le pretese e con l’abile politica diplomatica dei serbo-jugoslavi e con i principi di nazionalità sostenuti dal presidente americano Wilson. L’Italia si era già assicurata il Sud Tirolo e gran parte dell’Istria ed ora voleva annettersi un’area dove gli italiani erano solo il 2, 9% della popolazione, e concentrati in poche città della costa. Alla fine di un lungo tira e molla in cui si era anche inserita l’avventura dannunziana a Fiume e un tentativo di colpo di mano su Traù, si è arrivati agli accordi di Rapallo del 1920 con i quali l’Italia ha ottenuto la città di Zara e le isole di Lagosta e Pelagosa.

L’esercito italiano sgombera completamente i territori destinati alla Jugoslavia solo nel 1922, dopo quasi 4 anni di polemiche e di manifestazioni di arroganza da parte di alcuni irresponsabili esponenti locali del nazionalismo italiano, di contrapposizioni nazionalistiche, di cattiva gestione del periodo di occupazione militare, che avevano ormai devastato il clima di civile convivenza fra le comunità e messo in difficoltà gli italiani rimasti in territorio jugoslavo. Il governo italiano chiede per loro garanzie che Belgrado si dichiara disposta a concedere a condizione che siano applicate anche agli slavi in territorio italiano. Il ministro italiano De Martino rifiuta l’accordo dicendo all’intermediario francese Berthelot che “all’Italia, in quanto grande potenza, non era richiesta l’accettazione delle garanzie per le minoranze”. È lo stesso atteggiamento arrogante tenuto in Sud Tirolo, che ha portato a una lunga scia di tragedie. Il risultato immediato di tale politica è stato il primo esodo di dalmati, molti dei quali si sono trasferiti in Italia, nelle nuove provincie istriane o nell’enclave di Zara. Serve ricordare che anche molti slavi si fingono italiani o italianizzati per usufruire dei vantaggi dell’esodo e per fuggire da una condizione economica senza prospettive.

Il governo italiano ha fornito la cifra di 2. 585 esuli (3. 381 secondo i rappresentanti locali) che, sommati ai 6. 802 italiani residenti in Jugoslavia censiti nel 1927 portano a un totale di circa 10. 000 persone che – anche comprendendo gli abitanti di Zara– dà una cifra somigliante a quella del tanto criticato censimento austriaco del 1910 e comunque molto lontana dai numeri entusiastici forniti dai nazionalisti. Se gli esuli sono relativamente pochi in numero assoluto, essi rappresentano però circa un terzo della componente italiana. Gran parte dei rimasti lascerà la Dalmazia dopo la seconda guerra mondiale. Come detto, la Dalmazia costituiva uno straordinario scenario di tranquilla e operosa multiculturalità, garantito dalla grande civiltà di Venezia e di Vienna. La soluzione più intelligente sarebbe stata la costituzione di uno Stato dalmata autonomo, una sorta di Repubblica di Ragusa ricostituita e allargata. Nel 1919 un progetto del genere era stato ipotizzato sotto la forma di una Lega delle città marine, ma i tempi non erano maturi, i due nazionalismi contrapposti erano troppo aggressivi e ottusi, e Wilson decisamente non era austriaco. Oggi quel mondo è largamente scomparso: se ne sono andati quasi tutti gli “italiani”, le comunità minori sono state disperse o assimilate, i serbi sono stati cacciati alla fine del secolo scorso, e la regione è massicciamente croata. Una civiltà straordinaria è andata perduta a causa di una sommatoria di imbecillità jugoslave e italiane. Almeno la Jugoslavia è sparita.

Fonte:   Srs di  Gilberto Oneto


Feb 11 2009

Le fobie – é tutta un’altra storia – di Marco Pirina

Nel 2007 è uscito un libro   “La repubblica mai nata”  che dimostrava   che  nel referendum del 1946 non si fecero votare Istriani, Dalmati e LA MAGGIOR PARTE dei molti aventi diritto delle Venezie, rendendo legalmente nullo il referendum  e illegittima la repubblica italiana stessa , nata dalla negazione del voto di troppi, ben più dello scarto di voti vicenti .

Ma studiando come mai Istriani e Dalmati non furono fatti votare nel 1946 ,  si è  rivisto una storia, e non solo  delle Foibe. ben diversa da quelle ufficiali. Il fatto è che si stanno aprendo gli archivi internazionali finora chiusi, e da loro emerge prepotente una storia ben diversa da quella normalmente raccontata; ma che le Foibe sono state un GENOCIDIO voluto da Italiani e Jugoslavi a danno del popolo veneto, che ancora oggi continua nella forma di oblio culturale e negazione delle libertà politiche che portano alla servitù economica.

Ora anche un altro autore, Marco Pirina, dice sostanzialmente le stesse cose, ma egli ne ha maggiormente  approfonditamente  la questione e pubblicato nel 2008 un libro ricco di documenti che la raccontano.

La storia della Repubblica Italiana ne esce massacrata e infranta.

I  fondatori della Repubblica pagarono Tito per estendere il dominio anche fino al Garda, e pagarono FINO AGLI ANNI ’60  per tenere PRIGIONIERI  I VENETI NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO JUGOSLAVI !!

Colpevoli di questo genocidio furono i maggiori PADRI DELLA “PATRIA” Italiana, da De Gasperi a Togliatti, da Pertini a Rossi  da  Parri a Valiani .

In pochi minuti nella intervista che allego Pirina dice una quantità di cose dense di riferimenti che sono TERRIFICANTI per chi ha studiato la vicenda.

Illudersi di censurare per sempre queste cose come ancora  fa Napolitano è veramente da stupidi.

http://www.youtube.com/watch?v=lpWhDMLDYt8&eurl=http://www.palmerini.net/blog/?p=318

Fonte: liberamente  tratto da  srs di Loris Palmerini


Feb 09 2009

Vicenza Valsugana: Mario Pontarollo una vita di contrabbando

Category: Persone e personaggi,Veneto e dintornigiorgio @ 18:33

Vicenza Valsugana: Mario Pontarollo  una vita di contrabbando

 

di Gianni Sartori 

 

Il  14 maggio del 1995 Ë scomparso uno degli ultimi contrabbandieri della Valsugana, Mario Pontarollo. 

Dopo solo  un paio di mesi moriva anche la moglie, Florinda Moro. 

Penso non sia retorico affermare che,  insieme a Mario e a Florinda, se n’ E’ andato un  pezzo di Storia. 

Abitavano a Sasso Stefani, in  Valsugana, presso Valstagna. 

Ero capitato per  caso in questa contrada qualche anno fa, quando il sentiero dei contrabbandieri, detto anche  dei carpenedi, non era ancora stato segnalato dal CAI. 

Il percorso mi venne indicato da Mario  che, con un certo orgoglio, racconto’ di averlo  percorso infinite volte (di notte, anche con la  neve) con in spalla il sacco pieno di tabacco. 

Di contrabbando naturalmente. 

Dall’incontro con  Mario e la moglie non ricavai soltanto le indicazioni per una nuova escursione, ma anche la  consapevolezza che coltivazione e commercio  del tabacco, oltre che nell’economia, sono stati  alquanto rilevanti nella storia e nella cultura  della vallata. 

Al punto che si potrebbe quasi parlare di rapporti simbiotici tra i ì Canalotiî doc e  l’Erba Regina (secondo altri: della Regina). 

Rapporti che con il tempo si rivestirono di significati e valenze simboliche, inestricabilmente intrecciati con il senso di appartenenza e di identita’. 

Gli eventi che portarono all’introduzione della pianta (presumibilmente avvenuta tra il XVI e il XVII sec.) sono in gran parte avvolti nel mistero. 

Circola ancora la leggenda di un anonimo benefattore (alcuni parlano di un monaco, di un eremita…) che avrebbe fatto dono di alcuni preziosi semi ai poveri diseredati della valle, a quel tempo alquanto depressa e sottosviluppata. 

Dato che all’epoca vigeva una sorta di interdizione e un severo controllo, i semi sarebbero stati introdotti abusivamente, pare dalla Francia, nascosti in un bastone da pellegrino cavo all’interno. 

»’  evidente come questa storia ricalchi l’analogo racconto in merito all’introduzione nel Veneto del baco da seta. 

Anche in quel caso, peraltro documentato, fu un monaco a portarsi appresso dall’Oriente il prezioso lepdottero, nascondendo i bruchi (i famosi cavalieri ghiotti delle foglie del moraro) o forse le crisalidi, nel cavo di un bastone. 

All’inizio l’esotica solanacea veniva coltivata non per essere fumata ma per le sue qualita’ terapeutiche e medicamentose. Solo successivamente l’Erba (della) Regina venne ìsqualificataî e le sue foglie ridotte a prosaico trinciato (forte per lo piu’). 

Pare  che i primi tentativi di coltivazione si registrassero proprio a Valstagna e Oliero e forse anche a Sasso Stefani dove risiedeva il nostro contrabbandiere superstite. 

I primi contratti notarili tra Venezia e Valstagna risalgono al 1763. 

I diritti cosi’ acquisiti dai Canaloti vennero riconosciuti e convalidati persino durante la breve parentesi napoleonica. 

Lo stesso avvenne poi con Francesco I d’Austria. 

Ma i prezzi ufficiali restavano irrisori e i locali trovavano conveniente continuare ad ìesportarloî e rivenderlo per proprio conto. 

Cosi’ andarono le cose fino al 1866, quando con l’unita’ d’Italia la situazione divenne alquanto difficile. 

Infatti la Regia Amministrazione Italiana riusciì in breve tempo a provocare il deprezzamento del prodotto e anche il conseguente abbandono di molte masiere coltivate a tabacco. 

L’introduzione della nuova prassi di misurare il quantitativo in base non piu’ al peso ma al numero delle foglie fu alquanto deleteria per i valligiani.

Contemporaneamente la repressione del contrabbando divenne ancora piu’ dura, toccando livelli mai visti in precedenza. 

In proposito e’ interessante osservare come sia sempre esistita una notevole sfasatura tra l’opinione istituzionale del contrabbandiere  (considerato alla stregua di un volgare delinquente) e il prestigio di cui ancora gode tra i valligiani. 

E piu’ lo Stato criminalizzava i contrabbandieri,  piu’ cresceva l’identificazione e la solidarieta’ della popolazione. 

Ovviamente tributi e balzelli non erano graditi e questo favoriva la percezione del contrabbando come un “non crimine” e una forma di ribellione.  

Anche perche’ tutti, chi piu’, chi meno, vi erano partecipi e ne traevano sostentamento, integrandolo nell’economia locale. 

La scarsa collaborazione fornita  alle forze dell’ordine determino’ un inasprimento della repressione che si spinse a veri e propri eccessi, anche a livello legislativo, sproporzionati rispetto all’entita’ del reato.

Questo soprattutto con l’avvento dello stato unitario. 

 

Leggi speciali contro i contrabbandieri

 

Dopo il 1866 si comincio’ ad arrestare sistematicamente anche coloro che solo “si accingevano a compiere il crimine”. 

 

In questi casi non ci si limitava piu’ alla confisca della merce (come avveniva precedentemente) ma il tentativo veniva equiparato alla consumazione del delitto stesso. 

In pratica chiunque venisse scoperto con carichi sospetti nella zona veniva quasi sempre arrestato preventivamente. 

Questo naturalmente non accadeva solo in Valsugana e dintorni, ma capitava un po’ dovunque sulle Prealpi venete. 

Si contrabbandassero foglie di tabacco, fiammiferi, pietre focaie, sale, carte da gioco o altri generi di monopolio e non. 

Ce lo ricorda il gran numero di sentieri denominati non a caso ìdei contrabbandieriî. 

Quello del Fumante attraverso cui si poteva accedere al Carega, quello del Pasubio ora denominato “Baglioni”, quelli che  collegano la Val d’Adige con la Lessinia… 

Proprio in questi ultimi paraggi si conserva memoria nientemeno che di un “Inno dei Contrabbandieri”, il cui testo la dice lunga sulla sostanziale divergenza di opinioni in materia di legalita’ tra istituzioni e masse popolari. 

La pratica del contrabbando non si esauriì con  l’annessione del Veneto e nemmeno con la fine della prima guerra mondiale. 

Le magre condizioni di vita e la quasi monocoltura del tabacco (una sorta di condanna al prezzo governativo) imposero ai canaloti una continua deroga agli ordinamenti in vigore. 

Unica alternativa al contrabbando era, ovviamente, l’emigrazione. 

Esperienza questa che il nostro Mario ebbe ampiamente modo di sperimentare. 

Da questo punto di vista le vicende dei coniugi Pontarollo sono state emblematiche. 

Mi raccontava la signora  Florinda che da giovane era andata regolarmente in bici fino a San Pietro in Gu’ (ma talvolta si spingeva fino a Treviso) con il tabacco sotto i  vestiti e nella cesta, ben nascosto sotto il figlio piu’ piccolo del momento (ne ha avuti sette). 

Per avviarsi doveva aspettare mezzogiorno, quando i finanzieri smettevano per un po’ di controllare le strade. 

Era costretta a darsi al contrabbando soprattutto nei periodi in cui Mario lavorava all’estero (in Germania, in Africa…). 

Del resto era questa una esperienza comune a gran parte delle donne della Valsugana. 

I mariti emigranti per periodi piu’ o meno lunghi e le femene casa a  spetare i schei; che qualche volta arrivavano,  qualche altra no. 

Intanto dovevano tirar vanti e tirar su i fioi. 

Mario Pontarollo ricordava che le sue vicessitudini cominciarono molto presto, a quattro anni. 

All’epoca la sua casa venne a trovarsi praticamente in prima linea. Completamente distrutta dai bombardamenti, pote’ essere ricostruita solo nel dopoguerra. 

Nel frattempo ando’ sfollato (ma lui preferiva definirsi profugo) con il resto della famiglia. 

L’ultima volta che ci eravamo visti,  Mario mi aveva chiesto notizie sullo stato del “suo” sentiero, probabilmente con un po’ di nostalgia. 

Non ricordava di essersi mai spinto oltre il  bordo soprastante dell’Altopiano, dove il sentiero sbuca in un pascolo. 

Arrivato lassu’ consegnava il carico a chi lo stava aspettando, tirava i schei e tornava in valle. 

Praticamente per tutta la vita aveva alternato contrabbando ed emigrazione. Tranne quando la patria si ricordo’ di lui  per la “parentesi di guerra” in Grecia e Albania. 

 

Ma questa era un’altra storia… 

 

Anno II, N. 5 – Maggio-Giugno 1996

Fonte: – Quaderni Padani  38

 

 

 

INNO DEI CONTRABBANDIERI  DELLA LESSINIA 

 

Noàntri contrabandèri 

vegnemo su da Ala 

e co la carga in spala 

pasemo el confin 

 

Noàntri contrabandàri 

semo sensa creansa 

bastonemo la finansa 

sensa farse ciapar 

 

Noantri contrabandèri 

ghe disemo al brigadiere 

che una de ste sere 

la pele ghe faren 

 

No ghe sarà Vitorio 

e gnanca Garibaldi 

che co i so stronsi caldi 

el ne sapia fermar 

 

 

L’itinerario 

 

(Sentiero dei Carpenedi o dei Contrabbandieri) 

 

Come ho detto la casa di Florinda e Mario fa  angolo con l’attacco del sentiero; in quel di Sasso Stefani (metri 170), nei pressi di Valstagna. 

Nel primo tratto l’itinerario ricalca una vecchia mulattiera. 

Piuttosto ripida, sembra piu’ un impluvio lastricato che un normale sentiero. Ottimo, oltre che per far scorrere l’acqua, per “segare” subito le gambe dei domenicali. 

E anche per smorzare gli entusiasmi di qualche ultraquarantenne irriducibile. 

Non sottovalutatelo e adottate un passo regolare, cercando poi di mantenerlo per tutto il percorso. 

Ci si inoltra tra le masiere, protetti da alti muri a secco da dove sporgono file austere di gradini in pietra, senza sbocco dato che costituiscono l’accesso ai magri campicelli. 

A circa 300 metri di quota la mulattiera se ne  va per conto suo sulla sinistra, mentre ai viandanti conviene proseguire lungo il solco vallivo. 

In questo tratto il pendio si fa meno ripido e il sentiero non e’ piu’ acciotolato ma ghiaioso ed erboso, alternativamente. 

Punta decisamente verso un accenno di selletta, una sorta di tacca, di  incisione sulla vostra destra. 

L’intaglio rompe la continuita’ del crinale brullo, spoglio di vegetazione ma costellato di caratteristiche guglie,  eteree nell’eventuale foschia o circonfuse di luce contro il cielo terso (salendo, al mattino il sole e’ alle vostre spalle). Alla vostra sinistra troneggiano imponenti e impervie le pareti del Sasso Rosso. 

Il valico, come vedrete, Ë costituito da una galleria della prima guerra mondiale che permette di accedere comodamente alla Val Calieroni. 

Il  termine veneto di ‘caliero’ qui sta ad indicare le caratteristiche marmitte di roccia prodotte dall’erosione. 

Nel periodo invernale fate attenzione ai festoni di stalattiti di ghiaccio che pendono dalla volta. 

Per un tratto si prosegue quasi in piano, lungo un leggiadro sentierino, non esente comunque da rischi oggettivi per distratti. 

Il sentiero quindi si infila nel bosco e risale con decisione. 

Qui il percorso torna ripido, quasi scosceso. 

Ricalca in parte un vecchio sentiero di guerra, come testimoniano le numerose ferite mai rimarginate delle trincee. 

Ancor piu’ numerose e deturpanti le tracce lasciate sui tronchi dai zelanti segnapista di professione. 

Le indicazioni biancorosse si sprecano. Nel senso letterale. 

Il percorso utilizza un sistema di cengie naturali e l’escursione si mantiene stimolante grazie ad alcuni tratti relativamente esposti: fare attenzione con neve ghiacciata. 

E’ in situazioni del genere che l’abitudine indotta a orientarsi  cercando non le tracce naturali del sentiero (ovvero dove posare i piedi) ma i segni di vernice sui tronchi dei faggi, puo’ rivelarsi alquanto controproducente. 

Ancora un ultimo sforzo e al vostro sguardo,  presumibilmente ormai appannato dal sudore della fronte, appariranno le pareti precipiti sulla Val Gadena. 

Intanto il sentiero vi ha condotto nella parte sommitale della Val delle More, a due passi dalla cima del Sasso Rosso (1196 metri). 

Da qui ci si puÚ spingere verso Col Carpanedi (a nord), in cerca del raccordo con Val Gadena da utilizzare per il rientro. 

 

 

Anno II, N. 5 – Maggio-Giugno 1996 

 

 

Fonte: Quaderni Padani – 39


Dic 09 2008

Gatto alla Vicentina o Gato ala Visentina

Category: Alimentazione e gastronomia,Veneto e dintornigiorgio @ 20:11

 

Antichissima ricetta , in uso soprattutto per la  cronica miseria e fame delle classi più povere.  È un piatto che si mangiava non solo nel vicentino, ma anche nel veronese e in buona parte del Veneto. Negli anni settanta ebbi modo di sentire personalmente, da un ex sindaco di San Giovanni Lupatoto: “da giovane gh’era una fame da lupi, che ho magna tanti di quei gati da guersere una macchina”.

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Dic 09 2008

Venezia-Cronaca delle acque alte

Piccola cronologia delle acque alte a Venezia

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Dic 09 2008

MAMME VENETE: “GO UN FIO SOLO E ANCHE ÉBATE”. FRASI E AFFERMAZIONI TIPICHE RIVOLTE DAI GENITORI VENETI AI LORO FIGLI DURANTE LA FASE ADOLESCENZIALE…

 

“A go un fio solo e anche ébate”: Affermazioni e tipiche frasi “educative” dei genitori veneti del fine millennio. 

Non si tratta di luoghi comuni, più di una decina mi sono state rivolte personalmente e tutte le altre le ho sentite proferite dai “veci” di miei amici

 

sculacciata

La ” santa” sculacciata

 

 

Bocia, gambe in spàea e caminare!

Vara che te scavesso e gambe sora i danoci…

Vara che te cambio i conotati!

Vara che quea xè ea porta…

Mi a to età saltavo i fossi par longo!

Mi a to età jero xà stufo de lavorare

Desso ti te ve farte el libreto de laoro!

Tajate i caveji che te fe afàno!

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