DELLA RIVOLUZIONE di GENOVA
Nell’aprile del 1849
esposta
NELLE SUE VERE SORGENTI
MEMORIE e DOCUMENTI
Di un testimonio oculare
ITALIA
-1850-
AL LETTORE ITALIANO
L’autore di queste memorie fu testimonio dei fatti e intende narrarli con interezza e senza studio di parte. Niuno finora, ch’ ei sappia, cercò indagare il concetto che ingenerò la vigorosa manifestazione di Genova, e la verità soffocata pria dal cannone, venne quindi a gara stuprata dalle noti ufficiali e da prezzolati scrittori; poi lo stato d’assedio e le speciali nostre condizioni posero un bavaglio alla bocca di chi con liberi intendimenti di cittadino poteva farsene raccontatore.
Ma il regno della spada ha pure il suo fine e giunge il dì che la parola del vero trionfa le potenti menzogne. Chi scrive non appartiene a setta, a fazione di sorta, i nomi di moderato o di fanatico, gittati ad arte in mezzo a noi per dividerci, non gli si affanno in nessun modo; ei non riconosce che una patria Italiana e come tale scrive per istenebrare con l’ingenua narrazione degli avvenimenti, gli illusi ed i lontani; scrive perchè le battiture di un muto servaggio non lasciarono campo a smentire le bugiarde asserzioni di chi ingrassa nel rimpianto del popolo; scrive perchè la protesta di Genova contro l’alleanza coll’Austria verrà registrata con nobile orgoglio nelle istorie d’Italia, quando Italia sarà risorta a dignità di Nazione.
Marsiglia, novembre 1849.
DEGLI
ULTIMI MOTI DI GENOVA
Se avvi città in Italia ne’cui figli covi indomabile l’odio contro il dominio tedesco, essa è quella Genova che un secolo innanzi mandò sgarato un esercito austriaco e fu la salute non solo della Penisola, ma ben anco di Francia. Sono noti abbastanza gli avvenimenti di Genova che costrinsero re Carlo Alberto a varcare il Ticino; è noto egualmente che dopo le cinque famose giornate di Lombardia, il primo tricolore stendardo che entrasse nella riscattata Milano fu da liguri destre impugnato. Sovra tutte le città del Piemonte, Genova a buon diritto ascrivesi il vanto d’aver sostenuto i più sfolgoranti sacrifizi per la causa italiana. Dalla sua Banca di sconto essa vide uscire venti milioni e non mosse lamento; – si presero tutte le riserve e ciò volle ella stessa; – si fecero due leve anticipate e tutti corsero all’ armi, anzi in qualche borgata infransero l’urne e tutti si offersero alla partenza ; – oltre le leve di terra vi ebbero quelle di mare; – si fece un imprestito volontario e piovve il danaro; – se ne fece un altro sforzoso, e tutti a gara pagarono; – si decretò un milione del popolo alla gran Mendica dell’Adriatico e se non venne sborsato non fu certo per colpa di Genova; e mille altri sacrifici di simil tempra con lieto animo incontrati tanto che le valse dallo universale il titolo di italianissima.
Dopo l’armistizio detto prudentemente Salasco, ella non ebbe più che un sol grido e fu quello della riscossa. L’aristocrazia piemontese che abborria dalla guerra perchè vedea nella vittoria lombarda, la morte d’ogni suo privilegio, ordiva una infernale congiura per cui nel bel primo giorno della battaglia difettarono le vettovaglie sulle grasse contrade della Lomellina, fu interrotta ogni corrispondenza fra il Quartier Generale e Torino, e la santa parola di Repubblica, lanciata in mezzo a’ soldati fu il seme d’una intera disfatta.
E qual maraviglia se un esercito di oltre a centomila combattenti, venne rotto da cinquantamila Tedeschi? Il vecchio lor condottiero pugnava coll’oro che seppe largamente profondere; alla vigilia della pugna il nemico poté penetrare, e fu tradimento, nelle nostre fortezze, seder a colloquio coi guidatori della impresa, talché il Feld Maresciallo Radeszky, che d’ogni nostro movimento veniva fatto instrutto all’istante, poté chiaramente promettere alle sue soldatesche che tre soli giorni avrebbero d’ogni cosa deciso e che giunti appena sul pian di Novara avrebbero veduto le spalle dei Piemontesi. Sì, la congiura esisteva e suo intendimento era di porre un’altra volta l’Italia sotto il protettorato dell’ Austria. E ciò, dopo il secondo mercato, Genova chiaramente comprese, e memore degli antichi ardimenti, parve poco disposta a lasciarsi percuotere il tergo dall’austriaco bastone. Era universale credenza che fra i capitoli stipulati a Novara, come preliminari d’una futura pace, vi fosse pur quello di porre presidio tedesco nelle fortezze di Genova, la qual credenza venia convalidata nel sapere che sarebbe occupata la cittadella di Alessandria, mentre dovea essere un tremendo antemurale alle barbariche spade. Si vociferò che la divisione Lombarda, la quale sì pel duce che la reggeva, sì pel valore dei corpi, sì sarebbe fino alla morte battuta, doveva essere tutta sacrificata e forse fu tentato lo scellerato colpo. Chiarirà la storia se Ramorino pagò meritamente del capo l’ aver sottratto quei prodi ad una meditata sconfitta. E’ pur anco mistero come il Maresciallo Tedesco che avria di leggieri potuto far deporre le armi a cinquantamila Piemontesi nelle forzate lor linee di rititata d’Arona, oltre la presa di tutto il materiale da guerra, nol fece troncando subitamente una marcia, anziché una campagna, lasciando al nuovo re ancora forze tali da poter cangiare, volendolo, i facilissimi allori dell’arcano vincitore in perpetua tomba dello straniero. Questo e ben altro di più tremendo agitava i Genovesi, i quali pur non volendo andar a parte di infamia cotanta, fermarono secondare i genorosi propositi del Parlamento, ed impugnando il fucile vollero lacerati gl’infandi capitoli che facevano dell’Italia una provincia teutonica e mostrare all’Europa che la guerra del popolo sostituita alle principesche battaglie bastava a ricacciare il nemico al di là dell’Isonzo. Fu allora appunto deciso dalla Assemblea Nazionale in Comitato segreto, che tutte le provincie del regno dovessero balzare in piè protestando ed opponendosi con quanto avevano di forza all’inva’sione tedesca, fosse d’uopo trasportare in Genova la sede del Governo e per mandar ad effetto questo forte intendimento vari fra i deputati ricevevano mandato di recarsi nelle Provincie ad accendere i popoli e veniva Costantino Reta fra noi.
Il Governo adunque che nella parte sua più legittima eccitava i paesi ad agitarsi, si fe’ quindi a parlare di rivolture e sedizioni, e potè, sciolte le Camere e chiamati al potere uomini ligi al nemico, colle bombe e col sacco dar la debita pena ai Genovesi, dai quali uscì prima la voce che a libertà chiamava l’Italia. Correva il 27 marzo, quando il proclama del principe Eugenio annunciava ai popoli l’abdicazione di Carlo Alberto e la nostra disfatta. Ai Genovesi che con tanto animo s’erano accinti al secondo conflitto, troppo sapeva agro questa infamia impressa dalla aristocrazia subalpini sulle fronti italiane; essi non potean rassegnarsi alla solenne crocifissione d’un popolo, nè vuotar questa tazza di tremenda amarezza senza un moto di vita; le parole che Carlo Alberto aveva pronunciato nell’atto di strapparsi dal capo il diadema –tutto è perduto anche l’onore- ruggian come fulmine agli orecchi de’ Liguri. Ebbene (diceasi) se tutto è perduto, sia salvo almeno l’onore; perocchè quel popolo che può sorvivere alla sua infamia non è più popolo, ma gregge di schiavi segnato in fronte dalla maledizione di Dio. Si salvi l’onore dacchè, come i principi al regno, non possono i popoli abdicare al propriò decoro.
E sul far della sera levati i cittadini a tumulto, fan battere a raccolta , si sfondano le porte de’ campanili e i sacri bronzi tutti suonano a stormo, come agitati da un solo spirito, come tocchi da un solo martello. Questi moti non erano però incomposti e licenziosi; il popolo non chiedeva che d’essere armato per poter frontegggiare il paese dalla minacciata invasione tedesca, sottrarre il nuovo principe dalle ree suggestioni de’ vecchi e nuovi Seiani, col tenere sollevato fra i culmini de’ nostri Appennini il vessillo della indipendenza. E questi impeti generosi mal comprendeva il generale Giacomo .De Asarta , il quale pretendendo che in tanta gravezza di casi, la città non pensasse a schermirsi dal nembo che le soprastava, spediva corrieri al generale Alfonso Lamarmora chiedendo pronti soccorsi di truppe per ristabilire 1’ordine in Genova.
Ma il popolo addatosi dell’intendimento del De Asarta arrestava il messaggio e volea pubblica lettura dei dispacci dei quali era portatore. Allora cadde la benda dagli occhi e penetrossi l’ arcano; si comprese apertamente che le milizie che voleansi concentrare in città, erano per porre un argine allo slancio del popolo, anzichè per secondare il suo movimento nella difesa ch’egli s’apprestava a sostenere, rinfrescando la guerra, vadano le truppe (era il grido comune) a far fronte all’oste nemica, la città resti affidata a noi stessi. E chiedevano quasi concitati a furore l’allontanamento di ogni milizia e la consegna dei forti. Mal potendosi opporre il Governo alla giustizia di questa domanda, lasciava che si armassero seicento facchini; ma negavasi alla consegna dei forti. Perciò il popolo che ogni altra via vedeasi interdetta, ricorse il dì appresso a un nuovo partito e fù quello di prendere in statico l’Intendente generale Farcito e non rilasciarlo se non dopo ch’egli avesse sottoscritto l’ordine della consegna dello Sperone e del Begato. Così queste due importanti fortezze restarono in potestà della urbana milizia e tutto sarebbe ritornato nell’ ordine se un’ orrenda novella non fosse venuto a percuotere gli animi dei Genovesi.
Perduta 1’ indipendenza, non rimaneano a conforto delle afflitte fortune che l’interne franchigie, ma la nuova che un Delaunay ed un Pinelli, crede dei due nefandi armistizi erano assunti al potere toglieva pur troppo ogni speranza delle libertà cittadine. Il nuovo re che ben si sapeva circondato da uomini nemici della sua gloria e tinti di fellonia, non potea sciegliere per suoi ministri persone più invise dà Genovesi, i quali vedeano in questi due nomi la morte d’ogni loro diritto.
Delaunay avrebbe forse fatto del Piemonte un’appendice degli stati imperiali; Pinelli ridurebbe (come avenne pur troppo) le nuove larghezze sanzionate dallo Statuto ad una amara ironia.
E Genova non poteva ingollare l’amaro della dominazione teutonica, non potea vedere strangolate appena sul nascere le sue libertà interne, volea perdurar nella pugna coll’Austria, farsi con Alessandria antemurale alla illuvione tedesca, concentrare nel suo grembo il Governo e la Camera e salvar la nazione.
E però insorse! Insorse col nome d’Italia sul labbro, forte delle tradizionali sue glorie, potente d’un concetto unitario e fiduciosa che l’intero Piemonte avrebbe secondato il suo grido di guerra all’Austriaco. Il dì 29 sopraffatto dal nuovo disastro, costituivasi il Municipio in permanenza e mandava due messaggi a Torino per invitare il Parlamento a trasferire in Genova la sua sede. Il gen. Giuseppe Avezzana di concerto col Municipio emanava un proclama in cui come capo della guardia cittadina affermava non riconoscere nè armistizi, nè patti coll’ Austria. Cittadini, Guardia Nazionale e Municipio non aveano che un solo scopo, impedire che Genova fosse, come già si diceva d’Alessandria, fatta presidiare dalle armi straniere. Se il Governo del re avesse secondato il movimento della Liguria, l’Italia, forse era salva, Alessandria e Genova baluardi insuperabili, avrebbero decimate le falangi croate e la tremenda insurrezione lombarda alle spalle avrebbe lor tolto ogni via di salute. Ma era destino che i consiglieri del giovane re non vedessero nei moti di Genova che lo spettro della Repubblica, mentre niuno forse fra tra noi che avesse fior di senno pensava a segregare Genova dal Piemonte e costituirsi un proprio governo.
La bandiera della Liguria fu sempre 1’ unificazione, non lo smembramento delle provincie italiane, e chi oppose un diverso concetto alla sua armata protesta, ben poco mostra conoscere l’italianità di quel popolo. Intanto il generale De Asarta ad inasprire maggiormente le moltitudini portava il suo quartier generale allo Spirito Santo, proprio nel luogo ove un secolo innanzi stanziavano le truppe del rinnegato Botta Adorno ed ivi preparavasi a fulminare la città. Anche il console Inglese diè fuori un manifesto in cui minacciava di bombardare il paese, con una nave di quel paese ancorata in porto, ove si attentasse a novità. Il popolo irato da tante provocazioni, chiedeva armi e poichè l’Asarta si rifiutava di sgombrare la città e portarsi a dar mano all’esercito per ritentare la sorte della guerra, pensava costringerlo coll’opera della forza. Sotto il palazzo Tursi egli domandava d’essere armato: – che fanno, egli diceva, cotante milizie fra noi ? Vadano ove la patria li chiama. Ma i più savi fra i cittadini ne disarmano il giusto furore e promettono l’armi pel dì venturo. A mezzanotte tutto rientra nell’ordine. Ma sorto appena il mattino del 30 gli studenti, i tintori, i facchini ed il popolo balzano in piedi, si distribuiscono le armi, perfino i preti ed i frati col fucile al braccio perlustrano le vie fra gli applausi universali, si protesta di nuovo contro l’infamia dell’ armistizio e contro l’alleanza coll’Austria. Anche le provincie del levante sollevasi; gli abitanti di Lerici, italianissimi petti, offrono uomini e denaro a sostegno della santa causa; il deputato Costantino Reta tenta incitare il Municipio ad opere energiche, ma il Municipio ondeggia in mille incertezze. E qui debbo accennare che quando parlo del Municipio non intendo colpire tutto quel corpo che pure in sè adunava uomini della patria loro tenerissimi, e che tanto s’adoperarono a sopperire agli urgenti bisogni dell’intera amministrazione, solo accenno ad alcuni che nell’ora del rischio, sceveratisi dalle file del popolo, si rintanarano nelle sale del Municipio ed ivi intesero ad organizzare la reazione. Il fiore però dei civici Consiglieri erano se non alla testa del movimento, partigiani al certo caldissimi della popolare protesta ed alcuni successivi loro atti ne fanno aperta testimonianza. Dissi che pochi tristi davano segretamente opera alla reazione. Infatti il Marchese N.N. tentò di subornare i facchini; egli stesso dichiarò di non voler più riconoscere il generale Avezzana, per cui quest’ultimo si vide costretto a spiccargli contro un mandato d’arresto che egli cansò colla fuga. Si fece anche prova di tener prigione il generale Avezzana, ma una mano di civici artiglieri lo salvò.
Intanto il popolo reso ognor più sopettoso dai minacciosi apparati del De Asarta, che continuava a barricarsi nell’arsenale di terra appuntando cannoni incontro alle moltitudini non d’altro accese che la febbre di libertà, impodestavasi ( e ciò dessi all’ardire del battaglione universitario ) del generale di piazza Ferretti, consanguineo del sultano di Roma. Tradotto in ostaggio ne1 palazzo Tursi gli si rinveniva negli abiti un brevetto da cui risultava ch’egli traeva una pensione dall’Austria. Il timore de’ Genovesi d’esser venduti al Tedesco, non era adunque senza ragione, dappoichè una carica di così alta importanza come è quella di generale di piazza, era il dì della pugna affidata alla fede di un pensionato della casa d’Absburgo! In questa condizione di cose, Genova sentivasi in pieno diritto di provvedere all’onor di se stessa, del Piemonte e d’ Italia. E però avuto sentore che la famiglia del generale De Asarta erasi ricoverata presso il T.N.N. si volle anch’essa in ostaggio. Destinavasi alla stessa una splendida abitazione nel palazzo Tursi, dove furono gli statici cortesemente trattati, ma nel tempo istesso fu intimato al De Asarta che al primo colpo di cannone gli si manderebbe la testa del figlio. L’entusiasmo cresceva in città, il solo pensiero di pace con l’Austria rabbrividiva ogni cuore. E però organizzavasi una compatta difesa, non dubitando che il governo del re, aperti finalmente gli occhi, avrebbe assecondato lo slancio de’ cittadini. Non si potea comprendere infatti come il governo volesse farsi tributario delle baionette croate, mentre il nostro popolo intendeva con ogni sua possa a riscattarlo dal giogo abbominandolo. Tutti armavansi in fretta; correano dissennati le vie come nell’ansia di una grande aspettazione. Era un chiedersi a vicenda novelle, uno istringersi di mano, un alterno incuorarsi che accendeva a magnanime imprese. Molti che da più anni duravan nemici, obbliaronò quel giorno, in un’abbracciamento di pace, le vecchie loro contese. Quegli animi generosi non s’aspettavano al certo di vedersi fatti bersaglio delle piemontesi mitraglie e d’esser costretti loro malgrado a rintuzzar la forza colla forza per non vedersi tolte ad un tempo le sostanze, la vita, l’onore! In questo universale destarsi d’un popolo, i soldati stanziali sparsi nei diversi rioni della città, veggendo le turbe armate occupare le piazze ed asserragliare le vie, parte cedendo i quartieri, s’ avviano allo Spirito Santo; parte sentendosi popolo, rientravano nel popolo. I soldati principalmente di mare chiusi nel loro arsenale doloravano per non poter essi associarsi ai loro fratelli, che fieramente in que’ fortissimi petti fremeva la santa carità della patria. Così volgeva quel giorno, se non il più de’ cittadini prevedendo quanto fosse difficile durar in quello stato di cose senza un potere supremo che temperasse il soverchio dell’ardor popolare, portavasi in grandi masse sotto il palazzo Tursi, ove Didaco Pellegrini facendosi interprete del comun desiderio proponeva un Comitato di pubblica sicurezza e difesa nelle persone del generale Avezzana, dell’avvocato Davide Morchio e del deputato Costantino Reta.
Terminava col dire che si portassero al Municipio affinchè s’instaurasse. Ma essendosi il Municipio a ciò negato, sorse voce dal popolo che dichiarava benemerito della patria quel corpo, ove subito si disciogliesse. Il Municipio allora affermando di non avere poteri politici per sanzionare quel Comitato e ottemperando ai voleri del popolo disse che si sarebbe all’istante disciolto. Dopo il qual atto si crearono Trumviri l’Avezzana, il Morchio ed il Reta. Il popolo ebbro di gioia per sapere che alfine erano al timone della pubblica cosa uomini l’italianità dei quali niun ombra di sospetto appanava, slanciavasi in un impeto suo tempestoso sull’arco che univa il palazzo ducale a sant’Ambrogio, già fucina delle nefandezie gesuitiche e in poco d’ora fra il plauso delle moltitudini accorse, il grande arco faceva a terra riverso. Ma i militi a’ quali era in quella notte affidata la custodia del Quartier Generale, avvisando che forse il De Asarta traendo partito dall’ombre poteva tentare un colpo di mano per riavere la sua famiglia ed il generale Ferretti, ostaggi del popolo, munian l’ingresso di quel palazzo di due grossi cannoni; raddoppiavano le scolte per la città; si alzavano alle porte i ponti levatoi e si respingeva dalla Pila una compagnia di soldati che tentava penetrare in città. Nè dal suo canto stava inoperoso il De Asarta. Egli faceva bivaccare le sue soldatesche, sulle colline sovrastanti alla città; le rovine del forte san Giorgio erano irte di bronzi pronti a vomitare la morte sul popolo, l’arsenale dello Spirito Santo, munito di grosse artiglierie con iscolte avanzate era converso in fortezza. Lo stato d’assedio imminente dovea soffocare tra breve i generosi entusiasmi. Non è a dire se queste minaccie ed ostili apparati pungessero l’animo dei popolani, i quali si sarebbero all’istante scagliati sopra il De Asarta, se l’idea di dover macchiarsi le mani in un sangue fraterno non gli avesse rivolti a miglior partito. La Guardia Nazionale conscia che i soldati e i marinai chiusi nell’arsenale marittimo avrebbero parteggiato con essa e diviso i propri rischi nella minacciata invasione straniera, presentavasi alle quattro pomeridiane del 1°di Aprile, secondata da infinita tratta di popolo, innanzi alla Darsena; le porte vennero issofatto dischiuse, marinai e soldati accorsero nelle file del popolo e con caldi abbracci, e con spari di gioia, che sventuratamente cagionarono alcune ferite, suggellarono quella scena d’ affetto. La folla irruppe nell’ampio arsenale a cercar armi; ma ad impedirne lo sperpero si scrisse al sommo della porta a grandi caratteri – Stabilimento Nazionale -.
Il popolo allora nell’ebbrezza di tal scena che commovea fino alle lagrime, trasse verso lo Spirito Santo non dubitando che una eguale accoglienza dovesse ivi aver luogo. E però procedevano a drappelli alzando voci d’evviva al presidio e portando i berretti sulle lor baionette. Rispondeano alle fraterne salutazioni del popolo molti degli ufficiali, uno dei quali sventando un candido lino invitava la folla a farsi più presso. Ed il popolo che di trame non sospettava, appressavasi con onesta baldanza per fraternizzare con essi; allorchè una tempesta di palle scaricossi sui cittadini e un fitto grandinar di mitraglie fe’ mordere a molti il terreno.
Ben tosto essi s’avvidero che il fuoco partia dai verroni dell’Annona occupati dai carabinieri e dalle riserve del reggimento Guardie; e però senza dar passo addietro i militi nazionali si accinsero a rispondere al barbaro assalto e vendicare i caduti; impegnavasi d’ambo le parti un vivo combattimento in cui il generale Avezzana diè prova di sfolgorato coraggio. Egli fece occupare le case vicine, le alture dirimpetto all’arsenale, l’Acqua-verde ed il campanile di San Giovanni di Prè; appuntò da strada Balbi un cannone contro il nemico e guidò da esperto condottiero la fazione. Durò il fuoco tre ore, finchè la notte diè fine alla strage. Più grandi di quelle dei regi, i quali combatteano dai verroni dell’Annona e dall’arsenale, furono forse le perdite dei cittadini che, presi a tradimento non ebbero a prima giunta modo a schermirsi e dovettero pugnare all’aperto. Arroge, che incominciata appena l’azione, i nostri ebbero a lamentare il difetto di munizioni, perchè colti all’impensata, e perchè le cartuccie di cannone, che si recarono al luogo del combattimento tolte dalle batterie della Campanetta in Darsena, non avevano palla. Il che si rinnovò più fiate nei dì successivi, giacchè il Comando di piazza nel consegnare le chiavi dei magazzeni al nuovo Governo, gittò la confusione e il disordine per ogni dove scambiando le chiavi d’un luogo per quelle di un altro. Si ebbero in quel giorno da parte nostra a piangere ventitrè vittime, diciannove feriti.
Anche dei soldati non pochi furono i morti e de’ carabinieri in ispecie sui quali più fieramente scatenossi il furor popolare. Il colonnello delle Guardie Morosso, odiatissimo dai Genovesi pe’ tracotanti suoi modi, cadeva in quel giorno trafitto da genovese palla nel cuore.
Forte doloravano i buoni questa collisione fra popolo e truppa che con tanta abnegazione i cittadini avean scongiurato. Ma il saper che i soldati furono i primi a caricare la folla, che, invitata a lor si appressava, anelando di far causa comune contro il comune pericolo, gittò tal un fremito d’ira nel cuore del popolo che a descriverlo ogni parola vien manco. In un attimo i cittadini sollevansi come i cavalloni del mare in burrasca. Uomini, donne, vecchi e fanciulli stringon l’armi. I preti ed i frati col fucile alle spalle ed il Crocifisso sul petto benedicono ai santi sdegni di un popolo che un fiero proconsole avea mitragliato. Le campane suonano a stormo, si diselciano le vie, si alzano le barricate su cui si scrive a grossi caratteri: – MORTE AI LADRI -.
Si occupano in breve dal popolo tutte le posizioni atte a fulminare il De-Asarta contro cui si rivolge l’artiglieria della Darsena: otto cannoni (incredibile a dirsi) son portati sulla collina di Pietra Minuta, che sta a cavaliere dell’arsenale. Al nuovo giorno il De-Asarta, circondato da ogni parte dalle batterie popolari, come dentro una rete, dovrà ricevere la legge del vincitore.
E fu infatti costretto il De-Asarta a piegare in quella notte istessa la fronte davanti alla onnipotenza del popolo. Verso la mezzanotte, così scrive l’Asarta, io fui ragguagliato che i rivoltosi facean maggiori apparecchi….. Quindi, senza perdita di tempo, avevo di già disposto per una sortita, onde disturbare i lavori, valendomi a tal fine del personale su cui potevo più contare, allorquando mi pervenne un secondo rapporto sullo scoraggiamento delle truppe direttomi dal Luogotenente Generale Conte Martin D’Orfengo: il quale mi asseriva essere il morale delle medesime interamente scaduto ed avvilito per tal guisa, che tranne assai pochi tutti gli altri non volevano più saperne di battersi. In vista di ciò mi vidi mio malgrado costretto a rinunciare anche a questa impresa. Dopo pochi istanti venni pure in cognizione che la maggior parte dei soldati facenti parte dei posti e guardie distaccate eransi verso sera diretti al Palazzo Ducale per unirsi agli insorti. In questo stato di cose egli si vide costretto a spedire il Generale Conti in compagnia di un’aiutante di campo portatori di un messaggio al Generale Avezzana, il quale concesse al De-Asarta la chiesta capitolazione con che tosto sgombrasse il paese con tutto il presidio, forte di cinquemilaseicento uomini oltre un grosso corpo di Carabinieri Reali.
Un tal documento è di troppo alta importanza perchè da noi se ne ometta il tenore:
Concittadini
Le truppe sarde sgombreranno la nostra Città alle condizioni qui sotto descritte. Vostro è il merito e la lode di un fatto che dimostrerà all’Europa come Genova non possa tollerare le vergognose condizioni, che il tedesco impose al Governo Sardo.
Cittadini! L’imponente attitudine, che avete presa in faccia alla truppa, il conflitto che avete valorosamente sostenuto, dimostrano che queste mura sarebbero inespugnabili all’invasore austriaco. Il popolo e la valorosa Guardia Nazionale ed il clero hanno ben meritato della Patria.
Con queste parole il Comitato di Sicurezza Pubblica, annunciava la seguente capitolazione:
Fra gl’infrascritti generale De-Asarta Comandante delle Truppe del Governo Sardo in Genova, ed il generale Avezzana, comandante in capo della Guardia Nazionale di Genova, rappresentato dal sig. Nicolò Accame, si promette l’osservanza delle condizioni che seguono:
1° Il Generale. De-Asarta sgombrerà la Città, mura e fortificazioni interne ed esterne di Genova colle truppe di tutte le armi che si trovano attualmente in questa città entro il termine del 2 aprile dell’anno corrente, trasportando seco tutti gli oggetti di loro proprietà.
2° Le truppe si ritireranno oltre gli Appennini per la via di Alessandria o per quella di Savona con che seguano direttamente il loro cammino alla volta del Piemonte.
3° Il Governo di Genova, per evitare una colli sione fra le truppe sarde che si ritirano ed i corpi lombardi che si avanzano alla volta di Genova, spedirà persone incaricate alla testa delle colonne a tale oggetto, e per reciprocità il generale De-Asarta impegnerà i suoi buoni uffici a che nessun corpo di armata, sia del generale Lamarmora, che di qualunque altro Comandante del Governo Sardo marci alla volta di Genova, ma abbia egualmente che il suo a ritirarsi oltre gli Appennini.
4° Si garantisce dal generale della Guardia Nazionale, che saranno usate alla truppa e suoi capi tutti i riguardi che sono loro dovuti durante lo sgomberamento della Città da cui usciranno con tutti gli onori della guerra. Si avverte però, che nessun pezzo d’artiglieria potrà essere trasportato oltre le mura di Genova.
5° I carabinieri usciranno immediatamente dalla Città disarmati. Si garantisce loro la vita e gli averi.
6° Genova rimarrà inalterabilmente unita al Piemonte.
7° La famiglia del generale De-Asarta non ché il Generale Ferretti saranno consegnati quando le truppe avranno oltrepassato la linea degli Appennini.
8° Le truppe che non potranno sgombrare dentro oggi dovranno ritirarsi nelle caserme per partire dimani.
9° I militari che formano le amministrazioni, cioè gli ufficiali direttori e vice direttori degli stabilimenti, non ché il Commissariato d’artiglieria coi dipendenti e officine diverse potranno fermarsi per tutto quel tempo necessario, affine di consegnare il tutto al Governo di Genova e sarà loro garantito il rispetto da parte della popolazione. L’intendente Generale Amministrativo con tutti gli impiegati addetti alle diverse amministrazioni saranno garantiti nelle persone e nelle proprietà.
10° Il Governo di Genova si obbliga di provvedere i mezzi di trasporto per gli effetti tanto dei militari quanto delle aministrazioni, e provvedere pure ai mezzi di trasporto per gli equipaggi di tutti gli ufficiali indistintamente.
11° Tutti i capi d’amministrazione si porranno tosto in relazione col Governo della Città per sistemare ogni cosa di loro ufficio.
2 aprile 1849 Il Tenente Generale De-Asarta
Per il Generale in capo della Guardia Nazionale Nicolò Accame.
Da questo documento rilevasi che malgrado la cacciata dei Regii, Genova ben lontana dal segregarsi dalle subalpine provincie volle anzi espresso in termini indubbi che – rimarrà inalterabilmente unita al Piemonte – Genova infatti non pensava a far causa da sè, a ritornare in vita l’antico S. Giorgio, a costituirsi in parzial reggimento. Essa non abdicò mai a quel concetto unitario che informò sempre i suoi movimenti, e se da penne vendereccie le fu apposto infamemente questo sublime proposito, farà le sue vendette l’istoria. La quale dirà che le cause dei moti di Genova non furono che il dolore delle volute sconfitte, le morte speranze, l’onta dell’armistizio, l’incubo del ministero Pinelli, la dissoluzione del Parlamento, il sacrifizio dei fati italiani.
Che se vi furono alcuni magnanimi che, precursori dei tempi, avean forse per scopo l’attuire una repubblica, tale però non era l’intendumento dell’immensa maggioranza del popolo, che straniero alle questioni di forma non avea per bandiera che l’indipendenza d’Italia.
Questo alto concetto s’appalesa in ogni atto del nuovo Governo, e più ancor chiaramente in un invito fatto da Genova ai popoli della Liguria, che noi riportiamo perchè tanta luce di vero pieghi alfine la stolta calunnia, che predicò come anarchici i nostri moti, e perché questo sia suggello, che sganni ogni illuso. Questo invito è del seguente tenore:
Genova è del popolo
Tacque lungo tempo la regina del mare ligustico, fidando nelle promesse che venivano tuttodì rinnovate per l’indipendenza d’italia, e tale fu la sua fiducia che niun sagrificio temette onde concorrere all’adempimento del voto nazionale.
Ma troppo orribile fu il disinganno! Un esercito valoroso reso inutile in tre giorni, un armistizio che alla più atroce ignominia unirebbe la rovina d’italia, un ministero esecrato, aprirono gli occhi di tutti. Genova si levò come un uomo, tutti i cittadini si armarono, i pochi sgherri che sotto l’assisa di carabiniere vollero imporre silenzio al popolo pagarono il fio della loro scelleratezza. I soldati nostri fratelli riconobbero il volere del popolo: essi si son ritirati.
Ora Genova adempia il suo voto, non armistizi, non mercati, non ignominia: ma guerra a morte allo straniero. Paghi chi piega il collo, il prezzo della tirannide, ma Genova non dimenticherà mai il 1746. Liguri! Accorrete alla gran madre. Genova superi nel Mediterraneo l’eroica sorella dell’Adriatico. Chiunque ha fiori di senno vedrà in questo linguaggio non i semi della Riepubblica, ma una volontà generosa e pertinace di rialzarsi più grande dalle sventure, e rinnovare all’austriaco una guerra mortale.
Uscite le truppe il popolo apparecchiavasi a disperata difesa, fidando nell’aiuto dei corpi lombardi, nell’energia delle commosse provincie, e d’Alessandria in ispecie, le quali (così allora credevasi) non avrebbero permesso che l’onte croata allagasse il loro paese.
Intanto molti e gravi provvedimenti si presero dal Comitato dì pubblica sicurezza, il tenore de’ quali per non inceppare la rapidità del racconto noi diamo a mo’ d’appendice .
Solo diremo in che modo e per quali imperiose necessità fossero costretti i triumviri a dar nuovo assetto alla cosa pubblica. Benché il contegno del popolo fosse oltre ogni dir temperato, ed eguale alla severa gravezza dei tempi, pur non mancavano i pessimi che tentavano concitare la più sozza brodaglia (di cui non è mai assoluto difetto in una grande Città) alla licenza, ed al sangue.
Si sapea di danaro sparsi da mani potenti nel popolo per istaccarlo dal nuovo stato di cose: si sapea che il Municipio ondeggiante in mille dubbiezze rifuggia da coraggiosi partiti, come era quello di porsi a capo del movimento e dar le debite pene ai traditori, si teneva imminente l’arrivo dei corpi lombardi, a’ quali era debito il provvedere e non si stava senza sospetto sovra il generale Lamarmora che si diceva marciare a gran giornate su Genova.
Era dunque necessario un centro d’azione, un’autorità vigorosa che desse anima e vita a tanti e si disparati provvedimenti: era necessario, che un potere riconosciuto dal popolo facesse rispettare la maestà delle leggi già lese nell’uccisione d’un poliziotto eseguita a tumulto, e in quella del Conte Ceppi Maggiore dei Carabinieri, che scorto dal popolo, malgrado le vestimenta mutate, dovette pagare il fio della non eseguita capitolazione.
Riconosciuta la necessità d’un Governo che pari alle continenze dei tempi a tutte le cose vegliasse munito di più ampli poteri che non aveva un semplice Comitato di sicurezza pubblica, e non volendo i cittadini pur rinunciare all’amplesso che ci legava ai Piemontesi con vincoli di fratellanza, fu stabilito che lasciata intatta la questione politica e rispettando l’art. 6 della capitolazione, il Triumvirato assumerebbe il nome di Governo Provvisorio.
Il giorno 2 aprile entrava in fatti al potere, e in quello e del di successivo s’adoperò con calore e con tutta giustizia a ben avviare le cose sì civili che militari, di che fanno testimonianza gli inviti allora emanati .
Si mandarono inviti e sovvenimenti (Ln. 10,000) ai lombardi perché accorressero a difendere le nostre barricate contro i traditori della patria e contro il tedesco: si spedirono quattro piroscafi a Chiavari per condurli in Città, si provvide alla quiete pubblica, suprema guarentiggia di libertà: si circondò l’Avezzana di uomini degni di quelle gravi emergenze: si propagarono i termini concernenti i protesti di cambiali e relativi atti di denuncie e citazioni: si curò la difesa della città aprendo un arruolamento di volontari per una legione di milizia regolare, e creando una commissione d’armamento per le batterie, forti e barricate ed eleggevasi l’illustre Lorenzo Pareto ad Ispettore Generale delle fortificazioni di Genova.
Non vi ebbe fra tanti un solo proclama dal cui tenore trapelasse il concetto di voler spodestare i Reali di Savoia e crearsi un nuovo Governo. Questa Città generosa fece sull’altare della patria olocausto d’ogni privato rancore.
Non rammento per qual turpe mercato fosse annodata al Piemonte, ma benedisse invece l’opera della cieca prepotenza, perché forse potea contribuire alla salute d’Italia. La giustizia e la moderazione di questi atti, mentre le ire sobbolliano più tempestose, rassicuravano i buoni e il Governo Provvisorio s’ebbe l’universale adesione.
Il Municipio medesimo rincorato da’ suoi primi terrori, prometteva per bocca del Sindaco Antonio Profumo di vegliare dal lato suo agli urgenti bisogni della interna amministrazione, mentre il Governo Provvisorio attendeva con tanto zelo di amor cittadino agli interessi della patria.
Assai cose, se si riguarda la strettezza del tempo, operava il Governo per porsi in caso di respingere un affrontamento nemico e molto di più avrebbe eseguito a tutela delle sorti italiane, se la nostra civica cavalleria spedita lungo lo stradale di Novi ad esplorare l’avvicinarsi dell’invasore, non ci avesse in quella vece arrecato, che il Generale Alfonso Lamarmora e non già gli ulani (come una voce diceva) alla testa di grosso nerbo di truppe marciava su Genova.
Parve a prima giunta non credibile il fatto non potendo supporsi da alcuno che questo popolo dovesse essere punito, sol perché ripugnando da una pace coll’Austria, avesse assecondato i voleri del parlamento, e tentasse riscattare sulle giogaie appennine l’onore italiano calpesto sulle novaresi pianure. Finalmente fatti certi pur troppo della marcia di trentamila soldati, Costantino Reta spiccava un messaggio al Generale Lamarmora, in cui nel nome santo d’Italia lo scongiurava e non portar l’armi contro i propri fratelli, mentre l’austriaco alle spalle invadeva le nostre provincie.
Quello diceva essere il solo nemico che dovevasi combattere, non i genovesi che si voleano far centro di una nazionale crociata; si ritirasse dalla Città occupando piuttosto una posizione forte all’intorno: avrebbe intanto investigato l’intendimento di Genova unanime nel voler continuare la guerra all’austriaco. Il Generale Lamarmora per tutta risposta, fatto arrestare contro ogni diritto il messaggero (era Chiappara) lo facea tradurre nella cittadella di Alessandria e quindi alle carceri di Finestrelle, non senza minaccia di fucilarlo. Quindi giunto in Val di Polcevera, e concesso un breve riposo alle truppe, s’apprestava all’attacco.
Se si dovesse da noi aggiustar fede a quanto raccogliemmo da labbro istesso di molti fra i suoi ufficiali e soldati, che aborrendo dal farsi carnefici dei propri fratelli, o spezzarono la loro spada o passarono tra le file del popolo, il Generale Alfonso Lamarmora a rialzare lo spirito delle sue soldatesche avrebbe ivi loro solennemente promesso il sacco della Città. Pur malgrado l’università di questa credenza importa non fors’altro per la dignità dell’anima umana smentirla: importa che sappiasi che se a bottini, a stupri, assassini e orribilità senza fine s’abbandonò per parte della milizia nel quartiere di S.Teodoro, e in quelle suburbane campagne, il Generale Piemontese mal potea forse in quell’impeti primi infrenar le sue truppe briache d’oro, di libidine e sangue: importa infine, ove pur avesse comandato quel sacco, cancellarne ogni traccia per non legare a’ nepoti un’eredità di vendetta che sarebbe ostacolo nuovo al compimento de’ fati Italiani.
Ma i più fieri avversarii del popolo non erano già gli assalitori: che molti come si disse, e di peggior tempra erano i nemici domestici. Le loro arti subdole, i loro inganni, non il valor piemontese, spianarono al Lamarmora l’ingresso in Città. Qual maraviglia, se il popolo, sospettando di tradigione, abbia rimesso dell’innata sua vigoria, e lasciato che solo pochi magnanimi ponessero a repentaglio la vita per salvar, non foss’altro, l’onor Genovese?
Alle due del pomeriggio (4 aprile), il battere della generale ed i rintocchi delle campane chiamavano il popolo all’armi. Correa voce che i bersaglieri si fossero per sorpresa impodestati del forte di S. Benigno.
Ma questa voce, lungi dall’abbattere l’animo dei popolani, era loro anzi di sprone a riacquistarlo.
Solo profondamente a tutti cuoceva, che i nostri fratelli del Piemonte, coi quali, pur tra gli entusiasmi della vittoria sopra il De Asarta noi giurammo di essere inalterabilmente congiunti, movessero ora coll’impeto d’un fiero nemico ad assalire una Città, non d’altro rea che d’essersi fatta interprete del voto del parlamento, e di non voler riconoscere una obbrobriosa pace coll’Austria.
Sì, noi lo ripetiamo: il pensiero di dovere rivolgere l’armi nostre contro un popolo amico, cui ci vincolavano tanti nodi dì sangue, di simpatie, d’interessi fe’ vacillar più d’un braccio, fe’ spargere lagrime di dolore. Pure altro partito non vi era che la difesa per impedire gli orrori d’una città presa d’assalto: per non veder rinnovellati in Genova que’ mostruosi e comandati abbominii che da mani fraterne furono perpetrati a Novara. Perciò i drappelli della Guardia Nazionale portavansi risoluti ai luoghi del loro convegno; ed ivi ricevevano un ordine dell’Avezzana acciò corressero a fare dei loro petti baluardo alla città sulle mura di Porta Pila, che sarebbe stata assalita da forte nerbo di regii, mentre la fazione che combattevasi a S. Benigno, non era che una finta aggressione.
In meno d’un’ora, oltre a diecimila fucili si accoglievano al luogo suddetto, pronti a rintuzzare un nemico che mai non s’appressava. Con questo inganno iniziarono i traditori l’infame lor tela. Niun comando infatti era uscito dall’Avezzana, che intimasse alla Guardia Nazionale di portarsi in quella parte, egli anzi a cavallo sulla piazza del Principe animava la gioventù a fare isloggiare i piemontesi da S. Benigno: e non tosto seppe che ordini opposti a quei ch’gli emanava si spargeano fra il popolo, chiaro comprese, che il più temuto nemico non era già l’aggressore.
E posciachè vi ebbero tali ribaldi, che un solo istante non indugiarono a tradir la lor patria, uffizio di libero scrittore vorrebbe che se n’afferrassero i nomi, e macchiati d’infamia si tramandassero all’esecrazione dei posteri. E ben lo potrei… pur di essi bello stimo ancora il tacere commettendo le nostre vendette al rimorso. Fino dai primi moti di Genova si offerse al Generale Avezzana un R. ( N.N.).
Quando scoppiò l’insurrezione costui trovavasi a Torino come gli riuscisse entrare in Genova è agli occhi dei più un mistero, questi tanto seppe infingersi agli occhi di lui con sensi di ardente amore alla Causa Italiana, da strappargli incautamente il comando delle Tanaglie.
Il giorno 3 aprile occupava costui quella importante stazione, e quando, il dì appresso venne a rilevarlo la Compagnia N.N., egli rispose che i suoi centotrentotto uomini bastavano e difendere il forte, e ch’egli non l’avrebbe ceduto a patto nessuno. Intanto il tradimento si consumava.
Presentavaisi in quel giorno istesso a Federico Campanella Colonnello dello Stato Maggiore N.N. il quale fattogli osservare essere uscita una nostra colonna a fronteggiare il nemico (e vero non era), caldamente spronavalo a trasmettere un ordine al forte delle Tanaglie, onde accogliesse questa colonna nel caso venisse respinta, ed inseguita dai Regii. Il Campanella, animo leale e severo, colto a tal laccio aderiva, ed il comando venne trasmesso .
Appena R. (N.N.) ebbe fra le mani quel foglio, postosi sul ponte levatoio del forte, invitò collo sventolare di una bianca pezzuola i bersaglieri ad appressarsi, ed appuntata una pistola al petto di uno de’ suoi militi, che volea dar fuoco ad un cannone, mostrava l’ordine dello Stato Maggiore di aprire le porte alla colonna che si presentasse. In siffatta guisa coloro, che doveano difendere quel munitissimo luogo, traditi dal loro condottiero, restavano captivi dei bersaglieri, ed il fellone a tutto bell’agio discendeva in Città.
Incontrato da alcuni presso San Benedetto, e incitato a gire con esso loro a dar dentro al nemico, gridava a voce squarciata – Noi siamo traditi – e loro mostrava quel foglio, aggiungendo aver egli ben visto avanzarsi una colonna, ma avvisando fosse dei nostri, dietro l’ordine dello Stato Maggiore, non erasi messo sulle difese, e che quando si addiede che eran nemici ogni resistenza era ormai fatta impossibile.
Troppo patente era la tradigione, perchè i nostri potessero aggiustar fede a quanto narrava. Ond’è che spianatigli contro i fucili e gridando – Tu sei il traditore – stavano per ispacciarlo, quando un de nostri – Non lordiamo, disse, del suo sangue le vie, mentre abbiam sulle mura un nemico da combattere a fronte. Si riserbi al carnefice. – E seco prigioniero lo trassero fino a pie dell’ascesa di S.Benigno, ove lo presentarono ad Avezzana, che meravigliò dell’ordine emesso dallo Stato Maggiore. Alcune ore dopo, mentre i nostri erano intesi ad alzare in quel luogo un serraglio, ed a tener lontano il nemico, egli giunse a fuggire: un’altra volta il popolo con generosità senza pari lo cacciava in prigione, e nuovamente egli ebbe modo a sottrarsi dal carcere, e forse ciò gliene agevolavano le vie quegli stessi, che erano a parte del suo tradimento…..
Intanto a mezzo dell’accennata salita presentavasi all’Avezzana un ufficiale dei bersaglieri mandato dal Generale Lamarmora ad intimare la resa della Città a discrezione.
Fremè a tali parole la gioventù generosa, che circondava il prode Avezzana, e alzando il grido di viva la guerra, protestò, che non volea sottostare a così indegna proposta.
Allora il Generale rivoltosi con entusiasmo al suo popolo: – viva ripeteva – la guerra, viva l’Italia, e rinviava l’ufficiale parlamentario al Lamarmora dicendo che Genova si sarebbe prima sepolta fra le sue rovine anziché cedere così vilmente.
Questo fu il primo lampo cui tosto secondò la tempesta. Che se il General Piemontese, anzi che voler Genova senza patto alcuno, avesse aperte trattative di pace, e rassicurati i commossi animi de’ cittadini, non si sarebbe forse versato d’ambo le parti un così largo torrente di sangue, spegnendo una guerra civile accesa fra due popoli amici con tanto detrimento alla futura emancipazione d’Italia. Un urlo di evviva la guerra si alzava allora alle stelle, e tutti subitamente s’adoperarono alle difese. Formavasi di molte carra di cotone una barricata in quel luogo per impedire un’improvvisa calata: quindi avvisando che lieve intoppo essa avrebbe opposto ai bersaglieri, che per aver già occupato il forte delle Tanaglie avrebbero, calando dalle porte degli Angioli, potuto assalirci alle spalle, parve migliore partito prendere posizione davanti alla batteria di S. Teodoro.
Da questo luogo il popolo aprì un vivissimo fuoco contro le truppe, che tentavano di scendere il colle. Le batterie della Darsena, del Molo, della Cava e di Monte Galletto, da ogni parte tuonavano percuotendo le alture di S. Benigno, e menando fiera strage de’ Regii, mentre una barca cannoniera, “La Valorosa”, usciva dal Porto per tormentarli da Sampierdarena. La comandava il capitano N.N., dal quale abbandonata sottentrò in sue vece due giorni appresso a governarla l’indomito Aureliano Borzino: mentre queste batterie incrociavano sì vivamente i lor fuochi assottigliando le file della milizia, la moltitudine, che armata di solo fucile non potea per lontananza offendere i Regii, portavasi in masse compatte sulle mura di Granarolo per ivi unita alla Legione Universitaria infrenare i progressi degli assalitori .
E tanto era l’ardor della pugna in quella gioventù generosa, che se Lorenzo Pareto non avesse creduto di temperarne il bollore, si sarebbe cacciata a riprendere a colpi di baionetta la batteria del Telegrafo da dove il nemico ci percuoteva. Però il più de’ lor colpi cadevano in fallo. Così non avveniva de’ nostri, che anzi in quel furore di guerra essendo mancato lo stoppaccio si supplì dapprima coi fazzoletti, indi con brani di abiti lacerati, e da sezzo perfino con l’erba. Con due pezzi da sedici si faceva pur fuoco contro una uccelliera del Lagaccio sopra la Chiazzuola da dove veniva sloggiata una mano di bersaglieri. In queste fazioni noi vi lasciammo alcuni morti, e non più di cinque feriti, mentre gravissime furono le perdite degli agressori.
Calata la notte, Lorenzo Pareto ordinava di abbandonare quella batteria munita di cinque pezzi, d’inchiodare i cannoni e ritirarsi al Begato, di cui aveva il comando il generoso A.B. con un presidio di trecento ottanta uomini. Ciò eseguivasi non senza un vivo alterco da parte del popolo, cui non parea conveniente sloggiare da quell’importantissimo luogo. Giunti al Begato il Pareto cominciava un micidiale fuoco contro le Tanaglie e S. Benigno, che durò tutta la notte con l’intervallo di dodici minuti da un colpo all’altro secondo i segnali dei razzi che veniano lanciati dallo Sperone, come era l’intesa. A questo fuoco, che eseguivasi con un obice e un pezzo da 24 postatì a tal uopo sull’ ultimo bastione del sud il nemico non potè mai rispondere.
Se da tal parte prodemente si combatteva, così purtroppo non avveniva alle porte della Lanterna sebbene di centodieci artiglieri e un cento fra guardie Nazionali e popolani, sotto i comandi dei Capitani N.N., N.N. Un gran trambusto, una pressa di gente ivi affluia di coloro che si rifugiano in città, e di quelli che tentavano uscire, quando alle 10 del mattino un milite della Civica Cavalleria, N.N. venne portatore di un ordine del Governo Provvisorio che intimava di alzare i ponti, ed asserragliare le porte. Ma non era ancor trascorsa mezzora che un ordine affatto contrario al primo veniva recato da uno sconosciuto messaggio: onde la Guardia Nazionale mandò tosto in Città per verificare le cose e inteso che niun comandamento che derogasse al primo aveva dato il Governo, ne tenne prigioniero l’ incognito latore. Alle 4 pomeridiane i nostri visto il nemico, che dalle occupate mura di S. Benigno avvanzava verso le porte dopo aver lanciato contro lo stesso alcuni proietti, abbandonavano il posto fuggendo per mare. In quella scompigliata fuga anche il prigioniero giunse ad evadersi. Non restavano che poche guardie Nazionali decise a difendersi fino all’estremo, quando si vide appressare con bandiera bianca il Conte N.N. chiedendo li venissero aperte le porte dover egli parlare col Generale Lamarmora, essere omai necessario ripristinare le cose. Non avendo i militi aderito alle sue strane richieste, ben avvisando ch’egli avrebbe ragguagliato dell’interno movimento il nemico, il conte di concerto con un custode della Lanterna fe’ sì che giunse a calare da una feritoia e portossi al General Piemontese. Intanto a cercar di costui, che tenea forse segrete intelligenze coi Regii, venivano, sventando bianche bandiere, alcuni bersaglieri ed un officiale, ma un colpo partito dal Molo vecchio li fulminò si fattamente, che d’essi più non si vidde, che l’infrante e sparse membra sul suolo. A capo allora di un centinaio di bersaglieri discese dalle mura di San Benigno il Generale Lamarmora ( tale almeno si disse): chiese egli pure del Conte N.N. ed aggiunse meravigliarsi, che da noi non si rispettassero i diritti di guerra, giacchè avendo essi inalzata bandiera parlamentaria, ogni ostilità doveva per parte nostra cessarsi: spedissero tosto un messaggio in Città, volendo egli trattare di pace. Con quest’inganno potè il Duce Sardo appressarsi alle porte e vedere pur troppo co’ propri occhi ciò, che il Conte forse gli avea già rivelato, essere cioè i nostri posti totalmente indifesi, per il che comandò si ripigliasse issofatto la fucilata mentre un altro drappello de’ suoi disponevasi a scalare le mura. I nostri in numero solamente di otto, veggendo ogni resistenza omai vana, furono costretti ad abbandonare le porte, e passando per una scala segreta, che mette al mare, fra la grandine delle palle nemiche, i proiettili della Città giunsero a porsi in salvamento. In questa guisa le porte delIa Lanterna cadevano in potere dei Regii che vi si fortificarono volgendo a nostro danno quelle artiglierie, sì che indi non valse a cacciargli neppure un drappello di cinquanta polacchi, che sbarcati in quel giorno in numero di 160 aveano offerto il loro braccio a sostegno del popolo. Essi pure in poco d’ora sbandaronsi, e quella stazione rimase per intero occupata dal Regio esercito. lvi però avvenne tal fatto, che lo storico non può non raccogliere e tramandare agli avvenire.
Mentre i nostri cercavano nella fuga uno scampo e disertavano il luogo, non so se per propria viltà o per colpa di chi li reggeva, un solo fra tutti non volle ritrarsi ed offerse incrollabile lì petto alle piemontesi mitraglie. Questo valoroso addomandavasi Luigi Ratazzi, sarto di professione, e padre di sette figli. Dato egli di piglio ai fucili (erano oltre sessanta) che i nostri vi aveano fuggendo lasciati, con animo impavido uno dopo l’altro tutti gli scaricava sovra i nemici, e non già dalle feritoie o dietro a ripari, ma esposto della persona a bersaglio delle lor carabine. Sparato l’ultimo fucile cadde quel prode ferito di molte palle alla fronte e spirò.
Intanto l’Avezzana non isgomento dalla fuga di alcuni fra i più influenti del popolo, apprestavasi con eroica costanza alle difese del dì venturo. Fra i diversi provvedimenti ch’ei diede faceva da uno scarso drappello de’ nostri occupare la casa Bonino da cui si era fatta in quel pomeriggio una resistenza accanita e in cui rimasero feriti i generosi Ratto e Chichizzola.
Il Generale promettendo loro pronti rinforzi ordinava che al romper dell’alba mentre i Regii verrebbero attaccati dalla Lanterna e dagli Angeli, essi irrompessero simultaneamente nel centro. Se nonché sorpresi nel buio della notte da duecento bersaglieri, senza che loro fosse giunto soccorso, vedendo vano più oltre il difendersi cercavano un rifugio nei più riposti penetrali della magione.
Due soli fra tutti con più che umano ardimento dall’alto del palagio sostennero per lo spazio di un’ora una disperata difesa. Fu necessità alfine il darsi prigioni. Il Generale Alessandro Lamarmora che conducea quei bersaglieri, dicesi comandasse ai suoi di cacciare dai veroni quanti loro occorrevano. L’inumano comando però non venne eseguito, e solo ad un povero vecchio che chiedeva pietà, un officiale piantava una pugnalata nel cuore dicendo: – “Ecco la pietà che tu meriti, genovese da forca” – condotti poscia i prigioni al cospetto di Alessandro Lamarmora questi per la seconda volta volea che si fucilasse quella canaglia, e un giovinetto lombardo che primo loro occorse alle mani s’ebbe rotta da cinque palle la fronte.
Intrepidi aspettavano gli altri il comandato supplizio, ma peggiori strazii che la morte non era, furono destinati a subire. Sospesa la loro condanna si tradussero innanzi al Generale supremo. In quel fiero tragitto i soldati li percuotevano a gara con pugni, ceffate, non risparmiando loro ogni modo di contumelie. Il generale Alfonso Lamarmora dicendogli ladri ed assassini minacciava alla sua volta di sterminarli, nè fu sozzo scherno, che il suo Stato Maggiore non adoperasse per invilire que’ prodi che non sarebbero al certo fuggiti in faccia al tedesco. Spogliati finalmente d’ogni lor cosa, si gittavano in una lurida carcere, e alcuni d’essi sanguinavano per gravi ferite toccate dopo che s’erano resi prigioni.
Chiusi nel forte della Crocietta vi stettero fino al giorno di Pasqua, tormentati dalla fame e da orrori veramente barbarici. Allora entravano in quell’angusto recinto due uffiziali ordinando che si schierassero in quattro file, se ne registrassero i nomi, dovendo subire l’estrema condanna.
Questo scherno crudele terminava con una scarsa distribuzione di pane, finché al martedì furono lasciati in balia di se stessi. V’era fra questi un marinaio svedese al quale aveano incatenate le mani, lasciandolo in quella tortura per ben due giorni, ed un grave vecchiardo d’oltre ottant’anni, che strappato di notte tempo al pianto della sua famigliuola non era reo d’altra colpa che d’abitare quei luoghi suburbani.
All’albeggiare del 5 i bersaglieri, che già aveano occupate le mura e la porta di Granarolo, e che protetti dai seni dell’ampio recinto, e dagli accidenti del terreno, più e più s’inoltravano strisciando sul suolo, furono attaccati dal Begato, ove assai si distinse Nicola Ghio detto il Guerra, di professione barcaiuolo: ma l’attacco fu con poca riuscita. Finalmente verso il meriggio posto in assetto un altro pezzo da 24 sul bastione di fianco all’est, furiosamente attaccossi il baraccone sovra la porta di Granarolo, e il nemico dopo assai strage fu costretto a sloggiare, portando seco in tutta fretta i feriti. Anche esso il forte dello Sperone sprigionò vivamente i suoi fuochi, e della salda costanza, onde il comandante di quella stazione si distinse in quei dì procellosi, fanno pien testimonio gli encomii, che ei n’ebbe dal Generale Avezzana.
Non di meno, i Regii, sul far della sera giunsero ad occupare un rialto sotto il Begato, da cui invano si tentò cacciarli protetti come erano dalla gibbosità del terreno, e da un quadrato di muro che ne copre la vetta. I colpi delle lor carabine giungevano infino a noi, e taluno ne toccò qualche ferita. Erano circa le 8 ore (5 aprile) quando genovesi e polacchi furono costretti a spulezzare dal palazzo e dalla piazza del Principe per il folto ingrossare de’ battaglioni nemici, e ripararsi allo schermo della barricata di S. Tomaso. Ultimo a dare addietro fu N.N. che ferito in volto, e madido del proprio sangue, incuorava ancor colla voce i cittadini a difendersi. Tuonava da ogni parte il cannone ed un drappello di cavalleria, che incautamente tentò prendere quella barricata d’assalto, mitragliato dai tre pezzi d’artiglieria che la difendevano, pagò a caro prezzo il suo temerario ardimento. Il sangue dei Regii ivi si sparse in gran copia. Dalle circostanti case o dalla barricata si attendeva il nemico, che non avendo coraggio di presentarsi all’aperto, ci molestava da’ veroni e protetto dalla cantonata del palazzo del Principe. Ma il Generale Avezzana primo sempre al pericolo col grido di Viva Italia comandò si riprendesse a baionetta quel posto e in men che si dice fu nostro. Ivi, sotto le palle nemiche si costrusse un’altra barricata e il palazzo Doria già occupato dai Regii venne in nostro potere. E qui l’istoria rammenterà con orgoglio, benché di Cortigiana, il nome di I.B. bella e giovane donna, le cui mollezze riscattava ampiamente generoso sentire e forte amor cittadino. Fremente d’ardor bellicoso lanciavasi prima in quel vasto palagio a rintracciare il nemico e del suo più che maschio ardire meravigliò lo stesso Avezzana. Nè fu la sola donna costei che sotto panni virili difendesse in quel giorno la libertà della Patria. Intanto da ogni parte indietreggiavano le truppe, quando ad affrenare quell’impeto di virtù cittadina presentavasi il corpo consolare.
Cessato per breve tempo il fuoco, ricominciò con più di vivezza da ambo le parti, ma dopo circa tre ore d’eroica difesa, fu giuocoforza abbandonare il palazzo Doria, non perchè fosse preso d’assalto, come forse per errore scrisse il Generale Lamarmora, ma perchè essendo i nostri in numero scarso, mal si sarebbe potuto impedire l’ingresso ai compatti battaglioni di linea, che dalle mura dì S. Teodoro passavano in una corte dello stesso palazzo, di cui niuno aveva contezza.
Si occupò in quella vece il bastione di S. Tomaso che dominava il palazzo e le abitazioni che fanno capo a via Carlo Alberto. Dalla sottoposta barricata, dalla ricreazione dei Filippini, da Monte Galletto e dalla Specula, si aprì un vivo cannoneggiamento contro il palazzo Doria, ove stanziavano le truppe, e i danni che ne toccò fanno ancora testimonianza del valor genovese.
Intanto pochi magnanimi erano rimasti fermi al serraglio innalzatosi sotto il palazzo Doria, a’ quali era pericolosa la ritirata, come era del pari pericoloso il portare loro soccorsi, stante lo spesseggiare della mitraglia nemica.
Ivi largo sangue versavasi e i pochi superstiti furono costretti da sezzo a ritirarsi per non subire una morte imminente e perchè i nostri che teneano le rovine della chiesa di S. Michele, bastavano a porre un argine alle schiere reali.
Guidava questa fazione N. N., maggiore lombardo che diè prove d’alto valore, come tutti quei prodi che egli capitanava. Nè deve anzi passare obliato l’eroismo d’un popolano di cui duolmi non poter registrare in queste pagine il nome, il quale avvisando esser segno di codardia attaccare dallo schermo di una barricata i nemici, saltò in mezzo la via, ed ai reclami del suo Maggiore rispondeva a gran voce – lo voglio vedere in faccia il mio nemico. – Ferito in un occhio raddoppiò di furore: svincolavasi dalla stretta de’ suoi, che volevano trarlo a salvamento, e visto da lunge il Generale Avezzana, lo scongiurava a liberarlo da’ suoi compagni, poiché egli voleva a fronte dell’avversario morire. – Curatevi, gli rispondea l’Avezzana, stringendo la mano all’intrepido garzone: quindi ritornerete a combattere. – Tornava infatto dopo mezz’ora cor la testa avvolta di bende, e furioso, slanciatosi sulla barricata, tornato al primo suo posto fra la grandine delle piemontesi palle, gridando – Se non si può salvar Genova si salvi almeno l’onore. – Da quel luogo lo ritrassero a forza un’altra volta i compagni, e fu somma ventura ch’egli salvasse la vita. L’Avezzana, ammirato di tanto valore ne prese il nome, che andò poscia miseramente perduto.
La mattina del giorno medesimo il Pareto volle tentar dal Begato una ricognizione.
Presentavasi primo a quell’impresa Alessandro De Stefanis nato in Savona, studente, che militò volontario nell’infausta campagna del ’48 ed ottenne pel la sua intrepidezza nel fatto d’armi a Custoza la medaglia d’onore.
Uscito con gli altri dal forte s’imbattè nel nemico, e dopo avere con esso scambiati alcuni colpi ferito in una gamba cadde boccone.
Strascinavasi a stento in una vicina capanna, ove entrati i piemontesi l’ebbero concio si fattamente di ferite, che l’infelice lor chiese supplicando la morte. Ivi stétte due giorni senza un misero frusto, finché mosso a pietà un ufficiale col quale già avea militato, fu tradotto nell’ospitale e quindi in sua casa ove spirava il 4 maggio, dopo un mese di atroci dolori, compianto da chi ne conobbe il valore e le cittadine virtù.
Erano centocinquanta gli usciti dal forte e, divisi in due squadre, attaccarono da due lati i bersaglieri sull’anzidetto rialzo, e li costrinsero a venire all’aperto. Giunsero rinforzi al nemico, e i nostri indietreggiando senza però rallentare il fuoco, li trassero sino a mezzo tiro dal forte. Viddero essi la falsa lor posizione e pensarono a volger le spalle ma era già tardi. Tre cannoni a doppia carica li fulminarono con assai strage. Trassero sovr’essi contemporaneamente lo Sperone e la Specula, per cui furono costretti i superstiti a guadagnare di corsa la gibbosità di quel monte ed ivi celarsi.
In questa sortita i genovesi non contarono che due morti e cinque feriti. Coll’aiuto del buio vennero le truppe a raccogliere i cadaveri dei loro compagni per arderli.
E qui non taceremo il memorando atto di Gio. Batta Chiappara, detto per soprannome il Moscettiero, console dei facchini del Ponte delle Legna. Malgrado la sua vecchiezza egli trovavasi con molti de’ suoi a guardia del magazzeno delle polveri sovra il Lagaccio, quando venne sorpreso dai bersaglieri. I quali non appena se ne impodestarono, che il noto segnal d’una tromba loro intima di retrocedere. Temendo allor essi di esser presi alle spalle nella lor ritirata, vollero condur seco loro un ostaggio, ma i nostri a gara si rifiutavano, perchè conscii delle militari barbarie non voleano gire incontro ad una inutile morte. Ma con animo imperturbabile fattosi innanzi lì Chiappara – io, disse, andrò solo con essi: mi uccideranno i nemici, che importa? Io sono già vecchio assai, e morro’ almeno felice d’aver salvata la vita ad un giovane che la potrà spendere più degnamente in difesa della libertà e della patria. Questo è l’unico e supremo servigio, che nei cadenti miei giorni io posso rendere a Genova. Pugnate da forti: Addio. – E partia senza lagrime, lasciando i compagni stupefatti da tanta virtù. Prendeva il monte con fermo passo e sotto la pioggia micidiale che diluviava dai forti su quel drappello e ne facea strage giungeva a salvazione. Fu posto a cura del loro feriti.
Così passava il di cinque senza che i piemontesi avessero progredito d’un passo e più energico quindi ricominciava l’affronto il dì appresso.
I bersaglieri dal palazzo del Principe ed il popolo dalle barricate dell’ Acqua-Verde, dalle case soprastanti nonché dalle alture dei Filippini, dove il di innanzi aveano postati vari cannoni, faceano un terribile fuoco.
La barricata di S. Tomaso rispondea debolmente, poiché essendo costrutta di cotone, e perciò facile ad incendiarsi, si stimò conveniente rallentare il fuoco delle artiglierie che la muniano. Ma ciò mal comportando un Mongiardini a cui l’età molta non iscemava la gagliardia delle membra, unitamente all’Aureliano Borzino rinnovaron l’attacco, finchè la palla nemica non ebbe disteso il Mongiardini a pie’ del cannone fra un lago di sangue. La barricata andò in fiamme.
Grande era il pericolo per le molte casse di polveri sparse sul suolo, e perchè le vampe divoratrici minacciavano appiccarsi alle case. E il popolo a tutto zelare, la difesa con più di calore avvivava. L’Avezzana sempre infaticabile e grande, compiè tutte le parti di buon generale e di strenuo soldato. Cessava più tardi il fuoco nemico, non però l’incendio della barricata intorno a cui sudarono invano i cittadini nel mentre che dietro a quella altra più salda barricata innalzavano.
Stipulavasi intanto il primo armistizio durante il quale le truppe, postergata ogni fede, attaccavano con vive cariche i nostri. Il popolo rispose con tal vigoria che tosto si videro costretti i Regii a levare bandiera di pace. Furono questi gli ultimi colpi fra un pugno di prodi cittadini e trentamila soldati del Generale Lamarmora, che illuso da false novelle non vedea nel moto di Genova che ribellione ed anarchia, mentre l’intendimento di questo popolo era quello di far del soldato piemontese un soldato italiano, e spingere innanzi a tutta oltranza la guerra coll’ Austria.
La Batteria del Molo Vecchio che menò tanta strage de’ Regii, era già stata il dì innanzi costretta a silenzio. Noi ne accenneremo il fatto a eterna ignominia dell’Inghilterra.
Il Capitano N.N. che seco aveva una squadra di marinai, e due bravi artiglieri di linea, che primi puntarono i loro cannoni contro S. Benigno governava quella stazione, e faceva con sacramento giurare a’ suoi militi che indi non si sarebbero mossi, ma che tutti sarebbero periti sui loro cannoni. Alcuni d’essi pero, essendo venuti manco al loro giuro per trovarsi oltremodo spossati dalle non interrotte fatiche, l’ardito vecchio s’allontanava per reclutare uomini freschi, quando approdò al molo un palischermo del vascello inglese, il VENGEANCE che sotto il comando di Lord Ardwich stanziava nel porto. V’era nel palischermo il Comodoro che, pregato, come in appresso sì dirà, dal Lamarmora, veniva ad intimar nel suo gergo, che si cessasse dal fuoco perchè troppo ne restavano assottigliate le schiere regali.
I nostri per tutta risposta minacciarono d’affogarlo nel mare e continuarono a travagliare il nemico. Una seconda imbarcagione ottenne l’istesso risultato. Si fu allora che il vascello inglese portavasi a mezzo il porto tentando così schermire lo stradale di S. Teodoro, da dove s’avanzavano le truppe. Ma non per questo il fuoco degli insorti avea tregua.
Riuscite vane del pari le minacce ed i prieghi, il Comodoro spediva la terza imbarcazione con gente armata, la quale potè sbandare i pochi che ancora erano al molo, smontare 4 pezzi di cannone, gettare ne’ flutti un’immensa quantità di palle e portar seco 26 cassoni di polvere che furono dati al Lamarmora, il quale già ne difettava.
Lo stesso Comodoro, che sempre era ai fianchi del Generale Lamarmora, gli somministro quindi bombe e racchette, spronandolo di continuo a sfolgorar la città. Inghilterra ci consegnava un’altra volta al Piemonte. Ecco come si maneggiò cotal pratica.
Fin dal giorno 4 il signor L. Favre Console Generale di Francia avea fatto invito ai Consoli delle altre potenze per deliberare in quelle gravezze e protestare contro il generale Lamarmora, che violando il diritto internazionale europeo, aveva attaccato la città senza preventivo annuncio al Capo Consolare acciò provvedesse allo scampo de’ rispettivi suoi connazionali. Il Console inglese non intervenne; il Russo voleva invece che si protestasse contro il Governo Provvisorio perchè si era fatto ribelle al suo legittimo re. Ma non trovando fautori alla sua strana proposta, volse le spalle, e più non comparve. Il giorno appresso verso le 10 presentavansi i consoli in compagnia d’Avezzana, fra il fuoco delle due parti, in S. Teodoro al General piemontese, che bruscamente li accolse, e preso in disparte l’inglese – avrei a caro – gli disse – di mettermi in relazione con il vostro Comodoro. – Alle quali parole annuiva quel console, e in seguito gliene apriva la via. Fu chiesto allora dai Consoli un armistizio, e non concedendo Lamarmora che 4 ore di tregua: – Neppure un solo istante – sdegnosamente rispondea l’Avezzana. E fu allora che l’inglese, pieno di mal talento soggiunse: – Se non cederete Genova ai piemontesi, la cederete agli austriaci.
Accettarono i Consoli tre ore di tregua, se non che, veggendo che malgrado avesse il Duce sardo dato ordine ai suoi di sospendere le ostilità, ciò nondimeno i bersaglieri avanzavano e prendevano nuove posizioni, forte di ciò si dolsero collo stesso il quale rispose rotte ed ambigue parole. Ciò che indi avvenne fu in parte da noi già narrato.
Il Sardo ebbe modo di appressare il Comodoro Britannico, che si pose col suo legno a difesa del regio esercito.
Ma l’Avezzana non sopportando questa ostile attitudine, trasmise a Lord Ardwich una nota dei seguente tenore:
– Signore, voi siete entrato nel nostro porto colla nave sotto i vostri ordini, portando bandiera d’una nazione onorevole ed amica. Siete stato ricevuto come amico: l’ospitalità del porto e della città non vi fu negata. Nella lotta per la libertà, voi avete preso parte contro il popolo, voi avete preso parte attiva senza che foste chiesto, voi avete gettato in mare le munizioni della batteria che era in mano del popolo, voi avete minacciato di fare fuoco sopra la suddetta batteria: voi facevate prendere alla vostra nave una posizione nemica contro il molo, ed infatti la nave sotto il vostro comando è pronta ad agire colle brande sovra il ponte, e avendo tutta l’apparenza nemica, contraria al desiderio della nazione inglese. Ora, signore, con tale condotta, avete esposto voi e ill. vostro bastimento a fatali conseguenze, e le circostanze permettereibbero di far fuoco sovr’esso senza indugio; ma siccome mi piace di non ottenere un vantaggio non onorato della vostra imprudenza, io vi do ancora tempo fino alle 6 pomeridiane di prendere le vostre misure, e se il vostro bastimento non si trova in posizione pacifica, le batterie del popolo saranno volte contro voi per mettere a fondo il vostro bastimento; circostanza che insegnerà al vostro governo, che quando si da il comando delle navi nazionali ad uomini di rango, essi dovrebbero anche essere uomini di senno.
Questa minaccia ottenne l’intento, ed il legno britannico ritornò al primitivo suo posto. Però il Comodoro continuò le prave sue arti, e la capitolazione, che poscia ebbe luogo, fu opera sua e del console inglese di concerto col Municipio, il quale per torsi dalle spalle un così vituperevole accordo, ne gittava la responsabilità sul corpo dei consoli. Questi però furono in tutto estranei ai patti di dedizione, malgrado che il Sindaco l’scrivesse al loro intervento, il che suscitò contro loro il furore dei popolo. Infatti a quello di Spagna venne scaricato contro un fucile, Questa si fu la cagione per cui essi protestarono e scrissero lettera al Municipio riversando sovr’esso e sora pochi altri che non costituivano la maggioranza del Corpo Consolare l’odiosità del trattato.
Gli orrori d’una guerra sleale, e veramente fraterna, non bastavano ad estinguere nei nostri aggressori la sete del sangue. Verso il meriggio del dì 5 aprile un fiero bombardamento intronava l’intiera Città. Durava per ben trentasei ore con breve intervallo di tregua lìinumanità di quel giuoco che segna una pagina infame negli annali……
Le racchette, le bombe, le palle ardeano a diluvio, sfondavano i tetti e profondavano morti, incendi e rovine. Il quartier di Portoria ne fu sopra tutti malconcio, e mentre una sola bomba non cadde sovra i signorili palagi, le povere case ed i tuguri de’popolani ebbero forate le mura da quei micidiali tormenti. Anche le navi ancorate nel porto assai danni soffersero, e più d’una andò affogata nei flutti, e paventando i Regii la venuta dei Lombardi da Chiavari, fecero pur segno ai lor colpi il “Paquebot-poste” vapore francese, ed il “Liamone” per cui fu costretto il Lamarmora a far le sue scuse al comandante della stazione francese ed al console generale, ed a salutare la bandiera di quella nazione.
Ben so che il gen. Lamarmora scrisse d’aver dato ordine a’suoi di non concentrare i fuochi, ma di abbracciare con essi l’intiera Città, onde incutere con lieve danno grande spavento. Però il suo pio desiderio venne per intero frustrato: chè i fuochi tutti furon diretti in un solo rione e con poco spavento de’ combattenti la città s’ebbe un gran danno.
In fatto quel popoloso sestiere, dove posa, il più illustre d’ogni regio splendore, la pietra del Santo Balilla, fu principalee bersaglio ai colpi di chi partecipava all’infamia di cui favella quel secolare monumento.
Sedici bombe caddero sovra l’ospitale di Pammatone, che pur come ogni altro stabilimento di carità aveva inalberato il negro stendale, il che presso civili nazioni è tal segno, che rende inviolate le mura su, cui s’innalza.
Undici di esse scoppiarono per le vaste corsie degli infermi, e vi successe tal scena, che mette al raccontarla il raccapriccio nel cuore. Allo scoppio degli omicidi proietti assorgeano gli ammalati dal letto dei loro dolori; e brancolando tentavan fuggire; taluni rimanevano uccisi, taluni feriti, altri fatti alcuni passi cadeano tramortiti a terra. Più di tutti soffersero nella tentata fuga i feriti, che aveano dovuto nelle antecedenti giornate soffrire amputazioni, poiché si sfasciarono le loro piaghe e dovettero soccombere. Quelli poi che sopravissero presi da orrendo delirio urlavano di continuo: – Le bombe, le bombe! -. E n’ebbero per lunga pezza scombuiata la luce dell’intelletto.
Eran questi i riguardi che Pinelli, smentendo con fronte di bronzo il bombardamento, diceva non ignorare esser dovuti alla generosa città!
Noi lasciamo ad altra penna il raccontamento degli orribili guai prodotti non solo da questo, ma più ancora dal furor militare, il quale non chè pareggiare avanzò di gran lunga le ferocie croate.
Se tutti infatti noi ci facessimo a dire le nefandigie, i soprusi, le stragi, le devastazioni, gli stupri, i sacrilegi, perpetrati dal piemontese soldato, forse i lontani ci negherebbero fede.
In ben oltre trecentocinquanta famiglie di S. Rocco degli Angioli, di S. Teodoro e di S. Lazzaro, come risulta dai documenti raccolti al Municipio, infuriò la bestialità delle forsennate milizie, che sfondavano gli usci delle pacifiche case, e tutto mandavano a ruba. Oltre agli averi dei cittadini si diè di piglio ai vasi sacri, ed agli arredi dei templi, si stuprarono vergini, le madri insultavansi; nel palazzo del Principe Doria si fecero ingollare ad alcuni de’ nostri prigioni gallette inzuppate di sangue.
Diversi ufficiali, quelli in ispecie de’ bersaglieri furono i primi a bottinare (alcuni di essi già scontano nel carcere le loro scelleratezze) animando coll’esempio i soldati. Ma ciò basti per ora. La storia infamerà cogli scritti chi si infamava coll’opere!
Fra tante soldatesche turpezze splende immacolato (e con gioia lo registriamo) il nome di Alessio Pasini bersagliere mantovano, che intiere famiglie sottrasse alla brutalità de suoi commilitoni, e ricusava quindi ogni ricompensa da queste dicendosi pago abbastanza di quanto di bene aveva potuto operare. Per il qual fatto veniva dal Municipio di Genova rimunerato del dono di una daga d’onore.
E tanto più bella splende questa virtù di soldato italiano, quanto più volle offuscare lo splendore il suo capitano Longoni, quelli stesso Longoni che deputato della Liguria (Rapallo), brandì l’armi contro Liguria, ove toccando non so quali ferite, smentiva co’ fatti quelle solenni parole da lui fatte nel Parlamento. – Il soldato piemontese non scenderà mai alla viltà d’un giannizzero, non sarà mai lo strumento della tirannide. – Nè minor lode è dovuta.
Intanto non meno sinistre a noi volgeano le sorti in Val-Bisagno. Il giorno 6 le compagnie nazionali delle borgate di Marassi, Quezzi e S. Fruttuoso abbandonavano il Forte dei Ratti, che venne nuovamente occupatò da pochi individui spediti per una ricognizione da L.I. Capitano del forte di S. Martino d’Albaro. Questi prodi per atterrire le truppe regali accampate all’Olmo, scaricarono contro essi alcuni colpi e s’impegnò un vivo affrontamento coi piemontesi. Il grido generale che chiamava all’armi gli scarsi difensori, fu ripetutamente echeggiato da quei valorosi per ingannare il nemico, e saliti i bastioni cominciarono un’eroica difesa. Reso inutile il cannone, giacchè la truppa sottostava alle mura, e tentava scalarle, lo tempestarono col rovesciare sovr’essa le palle di grosso calibro, il quale espediente sortì un ottimo fine. V’era fra pochi difensori N.N.; milite della civica artiglieria, il quale addatosi che si poteva di fianco fulminare il nemico, giunse a trascinare da per sè solo un cannone, e postarlo nel luogo più acconcio a ricacciare gli assalitori.
E posciachè miccie non v’erano nè altro arnese da suscitar fuoco, giovavasi a tal uopo d’un zigaro acceso, e con aggiustati colpi ributtò addietro il nemico. Il dì dopo quegl’intrepidi difensori, non veggendo giungere il chiesto soccorso ed essendo inutile temerità tentare una nuova difesa, abbandonavano il posto. Esso venne occupato dalle truppe, che bivaccavano nella soggetta valle di Bavari. Anche S. Tecla venne, perchè deserta, in loro mano. Più fermo contegno ebbero a dimostrare i sedici cittadini, che nell’abbandono de’ loro commilitoni, vollero soli presidiare la fortezza di Richelieu. Veggendosi questi assaliti, durarono fermi all’attacco, finchè fatto vano il loro valore, chiesero una onorevolissima capitolazione, e poterono uscire a tamburo battente con ogni onor militare. A riscontro di questo coraggio giovi rammemorare la viltà del M.N.N. comandante il forte di S. Giuliano. Egli portavasi l’ 8 aprile in compagnia del suo tenente N.N. a parlamentare con Alessandro Lamarmora in Sturla e quindi tornava a‘ suoi non con onorevoli accordi, ma alla testa di 200 piemontesi, ai quali consegnò la fortezza, obbligando i suoi militi ad uscirne disonorati e senz’armi.
Ciò fu cagione di giusto disdegno fra i suoi, che dopo aver tentato di fucilarlo, prefersero, anzi che cedere così vilmente, di dar fuoco alle polveri e saltare in aria, ma le chiavi dei magazzeni e delle munizioni erano già consegnati al nemico.
Concluso il primo armistizio e fuggiti i promotori dell’insorgimento, tranne Costantino Reta, che dopo essersi energicamente adoperato a difesa della città, portavasi a bordo del “Tonnerre” a parlamentare col corpo consolaree dal cui bordo gli venne quindi conteso lo sbarco, il Municipio cominciava a tirare a sè la somma delle cose. Il dì 7 aprile chiamava il generale Avezzana, ed encomiando il suo sfolgorato valore, mostrava essere il Governo Provvisorio fuggito invano, attendersi i Corpi Lombardi, ovunque regnare lo scoramento e il disordine, e però non essere più possibile l’ulteriore resistenza di una città, alla quale il suo petto e quello di pochi magnanimi fu sino allora baluardo. Altri, altre cose aggiungevano, spronandolo ad abbandonare l’idea d’una novella difesa. A queste parole rispondeva l’Avezzana: – Io non segno infami armistizi; avrete la mia risposta tra breve, ma sappia Genova, e con essa l’Italia, che chi consegna questa città ai piemontesi, è il suo Municipio -.
Ciò dicendo ritraevasi alle sue stanze. Fidando ancor sull’aiuto lombardo, e non veggendo pur anco tornare i quattro battelli a vapore, che si erano a tal uopo spediti a Chiavari, mandava l’Aureliano Borzino a veder che ne fosse. Il mare, il vento e la pioggia non trattennero l’ardito giovane, che su picciol legno il “Rimorchiatore”, pose a manifesto repentaglio i suoi giorni per tentare un ultimo colpo di comun salute. Una furiosa burrasca sbalestravalo a Portofino. E qui cade in acconcio dir de’ Lombardi, e del modo con cui vennero impediti a dar mano alla protesta di Genova.
Verso la fin del Marzo ( 26-27 ), la divisione lombarda capitanata dal general Fanti, si facea partir da Alessandria per poter più agevolmente consegnare quel baluardo ai tedeschi; e quei prodi soldati si concentravano fra Tortona e Voghera per indi muover su Genova e portarsi in Toscana od in Romagna ad onta che il Governo degli armistizii, avesse lor destinato altre piazze nel cuore del Piemonte. In que’ giorni stessi il generale Avezzana, secondando il moto del popolo, spedia loro inviti e messaggi, onde accorressero a difendere sovra i nostri Appennini il vessillo della Indipendenza Italiana.
La divisione lombarda forte di quei giorni di 4 reggimenti di fanteria, due battaglioni di bersaglierì, 28 pezzi di famosa artiglieria, 700 cavalli, corpo del Genio e quanto d’altro si addice a ben ordinata milizia, sommava a meglio di novemila combattenti, che caldi di carità nazionale anelavano l’stante di misurarsi col comune oppressore. Non è dunque a dire se accogliessero con manifesti segni di gioia l’invito dei Genovesi, ed attendessero impazienti il consenso del generale, cui non credevano ancora capace di attraversare i loro disegni, e perdere tanta gioventù bellicosa. Solo alcuni capi dei corpi antiveggendo la triste sorte che sarebbe toccata a quei prodi, decisero di partire per Genova postergando gli ordini del generale che con sottili accorgimenti negavasi di assecondare l’ardor dei soldati. Perciò nella notte del 29, lasciata Tortona, ad onta delle dirotte pioggie, alcune compagnie giunsero al mattino in Serravalle, non dubitando che il grosso dei corpi le avrebbero quanto prima raggiunte. Fu l’sempio seguito da quei molti lombardi, che chiamati dalla leva in massa, avevano formato deposito in Alessandria, e che ardeano di dividere i nostri pericoli, e salvare l’onore nazionale.
In quel giorno medesimo il Fanti portandosi da Alessandria a Tortona imbattevasi in numerosi drappelli de’suoi, che movevano a raggiungere i loro commilitoni, e prevedendo che sarebbero ormai vani i comandi a stornare que’ valorosi dal loro proposito, tentò le vie della frode.
Perciò spedì a Tortona ordini espressi a quei già partiti per Serravalle, che lo raggiunsero e tanto seppe adescarli con infinite parole, e suader loro, che non dovevano mettersi in aperte ostilità col Governo, che essi promisero non muover piede, finchà non tornasse da Torino una loro deputazione. Così volsero alcuni giorni, nel corso de’ quali potè il generale Lamarmora lasciarsi i Lombardi alle spalle, e calare su Genova, i di cui cittadini, certi della venuta de’ corpi lombardi, (parte dei quali era stata veduta in Serravalle), davano cominciamento alla loro protesta, che bastò perchè Genova più non partecipi alla viltà del secondo armistizio.
Giunta a Torino la deputazione lombarda, di cui facea parte il prode Manara, comandante i Bersaglieri, che perì vittima in Roma dalle palle francesi, presentavasi al Ministro di Guerra e al generale Sczarnoscki, che ancora tanta nube di mistero circonda, e non senza gravi difficoltà otteneano di recarsi in Toscana per la via di Bobbio, via, a dir del Ministro, carreggiabile, ed atta al transito delle artiglierie, non che dei cavalli. Partiano dunque i corpi lombardi nella certezza di giungere in Genova per quella medesima via: ma appena addentraronsi in quelle giogaie videro non già una camminata di palagio, come fu loro dal Ministro dipinta, ma insuperabili roccie non segnate da alcun sentiero, e monti coperti di neve, per cui furono costretti ad abbandonare i loro cannoni, le lor munizioni, proviande ed ogni arnese di guerra. E non fu senza gravissimi stenti, che giunsero a superare fra il difetto dei viveri quelle inospiti ertezze, dalle cui cime spesso ruinavano cavalli e cavalieri in profondissimi abissi.
Finalmente, dal 7 al 10 di aprile, laceri, scalzi e molli dalle pioggie continue, giunsero al litorale di Chiavari, e una vana speranza ancora li lusingava di poter penetrare nella bloccata Città.
Era allora in quella rada di Chiavari il “Giglio”, e non lungi su quelle acque, altri battelli a vapore spediti dal Governo Provvisorio a loro disposizione, tal che quelle milizie, che prime giunsero al lido, voleano ancor traballanti partire per Genova. E l’avrebbero osato, se Fanti agremente non avesse combattuto questo loro magnanimo intendimento dicendo: – che egli, generale piemontese, non avrebbe mai portato l’armi contro il Piemonte -.
Così Genova vedovata del loro valido aiuto cadeva, ed il Governo Sardo attestava la sua riconoscenza sì al generale che ai soldati lombardi, cacciando indi a non molto in carcere il primo, e sciogliendo i secondi malgrado la ferma di tre anni loro giurata.
Essendomi imposto l’ufficio dl narratore, non commenterò questi fatti. – Saprà valutarli il senno dei leggitori……
Ciò che indi in Genova avvenne lo dicono abbastanza i documenti che abbiamo qui raccolti.
Dopo l’armistizio del giorno 6, durante il quale i civici Consiglieri Orso Serra, Avv. Caveri, Avv. Cataldi, partiano alla volta di Torino per ottenere una generale amnistia, ne avea luogo un secondo per altre 48 ore, onde dar agio alla deputazione di eseguire il mandato. L’amnistia fu concessa, ma da tal beneficio vennero esclusi i Triumviri e nove altri individui, i militari ed i rei di delitti comuni.
Pria che Genova ricadesse fra le strette del suo primo governo, volle l’Avezzana porre in salvamento coloro che si credeva compromessi, particolarmente molti soldati e quelli delle Real Navi in ispecie, che seguitandolo in Roma suggellarono col proprio sangue il loro ardentissimo amore alla causa italiana.
Una vil taccia si volle per opera dei nostri nemici apporre al prode Avezzana, e fu quella d’aver dato ordine di sforzare le ciurme del bagno. Non v’ha calunnia più infame di questa. Il dì 6 riferivasi al Municipio, che i forzati tumultuavano, e il Municipio faceva accorrere alla Darsena M. Amandola, aiutante dello Stato Maggiore con un picchetto di Nazionali, ma questi essendo assai scarsi di numero, armava il Colonnello Del Santo alquanti forzati promettendo loro la grazia sovrana. Ridotti i tumultuanti a dovere, mandava il Del Santo al Municipio lo stesso Amandola assicurandolo che non v’era luogo a temenza, poiché in caso di qualche pericolo erano stati messi anche a sua disposizione 300 marinai del legno inglese, il “Vengeance”. Noi conosciamo il Colonnello Del Santo: non ci è ignota la parte che ei prese negli avvenimenti del 1821 e potremmo, volendo, narrare tal cose, che bello è il tacere. Siamo perciò in diritto di aspettarci (e di ciò ci è sicura guarentigia il suo onore) che egli sperda colla luce del vero ogni nebbia che la mano della calunnia addensava sul nome dell’Avezzana. Il quale, dopo aver zelato la fuga dei compromessi, ultimo di tutti partiva, e l’intera Città nel mentre che egli incamminavasi negli amari passi dell’esiglio, gli faceva onorevol corteggio levando a cielo la sua probità, il suo valor sventurato. Povero egli partiva, tanto che il Municipio dovette soccorrerlo di picciola somma, che egli non volle accettare che a titolo di solo imprestito talchè anche i dissenzienti da lui nelle cose politiche furono costretti ad ammirarlo.
Fra l’universale compianto egli prendeva commiato da Genova, e mentre avviavasi in Roma a circondare di nuovi allori il suo crine, le rivolgeva le seguenti parole:
– Genovesi, la Città è riconsegnata all’antico governo; voi sapete che ciò non dipese da me. Genova insorse un momento, e quel momento resta documento di ciò che possa il popolo quando vuole davvero; l’insurrezione ridusse un numeroso presidio, forte di or ganizzazione e di posizioni a capitolare; respinse e tenne un’intiera armata alle porte e anche oggi questa non entra che per trattato col vostro Municipio. Forse Genova poteva più, forse la sua perseveranza avrebbe potuto pesare decisivamente sulla bilancia dei destini d’Italia. Ad ogni modo la Nazione vi è riconoscente della solenne protesta contro le vergogne governative dell’infausta guerra; di un’ora di eroismo fra le viltà di cui pur troppo il vostro governo sparse la fronte dell’Italia in faccia all’Europa.
Genovesi! La storia ricorderà lungamente le vostre barricate. Dio renda efficace e fecondo l’esempio! In quanto a me ringrazio quelli che si sono battuti al mio fianco, e spero verrà tempo in cui tutti possano mostrarsi tali. Intanto mi è sufficiente ricompensa la memoria, che io porto meco delle ore di gloria, la coscienza pura del resto, e la speranza che molti fra voi mi ricorderanno con amore, certi di trovar sempre in me un uomo parato a morire sotto alla bandiera della libertà d’ Italia.
I suoi fatti di Roma non smentirono le sue solenni promesse. Il giorno 9 le truppe entravano in città, le precedeano i bersaglieri a passo di carica, seguivano i squadroni di cavalleria, venivano in ultimo i fanti. Le milizie occuparono i posti guardati in prima dai nazionali, che memori della loro dignità, li abbandonavano per non rendere gli onori dell’armi a chi aveva con troppe enormezze brutate le proprie assise. Trenta mila uomini che più non esistevano contro il Tedesco, posero l’ordine in Genova. Or come avvenne, che una città che nel secolo scorso cacciava dalle sue mura un esercito austriaco, e rompea la potenza di Maria Teresa che veniva alla riscossa ebbra delle vittorie riportate contro le corone di Prussia, di Francia e di Spagna; come avvenne, io dico, che una piazza, che si tiene per baluardo inespugnabile, sia stata ridotta in brevi giorni a dedizione?
Genova nel 1849 avrebbe come l’esercito di Maria Teresa rotto quello di De-Lunaj se nelle sue mura non allignavano i semi del tradimento.
S’aggiunga che, dotato il nostro popolo d’un ammirabile buon senso si accorse che nel declino delle sorti Italiane non sarebbe da per se solo probabilmente riuscito a rialzarle, si accorse che esso forniva al Ministero un pretesto onde dispiegare contro tutto lo Stato un’aperta reazione, che avrebbe attirato intorno alle sue mura una lunga guerra civile, che avrebbe condotto a nuove infelici divisioni nella Penisola e perciò, credendo che il seguitare nella via intrapresa dal Governo Provvisorio avrebbe forse potuto più nuocere, che giovare alla causa Nazionale, s’ntiepidì la guardia civica per la prima, l’istesso minuto popolo dopo, cominciarono a più non prestare il loro concorso col trasporto, coll’attività, e colla diligenza di prima.
Le fortezze, le mura, le barricate non furono più difese che da pochi ardenti cittadini, per cui ritiratisi i Triumviri, all’eccezione dell’Avezzana, potè il Municipio intraprendere col governo le pratiche dell’accordo. Noi però più fortemente insistiamo nel dire che la caduta di Genova non fu che un filo della gran trama ordita a danno dell’Italia da chi trae suo prò nel comune servaggio……..
Il generale Lamarmora perdeva in questa impresa tra morti e feriti oltre a cinquecento soldati. Non più di duecento furono le vittime dei Genovesi. Entrate le truppe, Genova fu la Città del martirio. Una selva di baionette copri le sue vie già liete di canti e di popolari entusiasmi.
Lo strangolo dello stato d’assedio – lo scioglimento della Guardia Nazionale – il disarmo immediato dei cittadini – la libertà della stampa per indirette vie soffocata – il diritto d’associazione impedito – le violazioni del santuario domestico e tutte quelle gravezze, cui va d’ordinario soggetta una nemica città, furono la corona di spine che circondò il venerando suo capo.
Noi vedemmo un altra volta dagli antri delle polizie tenebrose sguinzagliati i segugi, che ingrassano di delazione e d’nfamia, incarcerarsi persone che ree di delitti politici avvisavano (incaute!) che la data amnistia fosse loro un usbergo; e ben l’onorando dottore Gillardi, l’amico di Byron nell’età sua più decrepita dovette scontare nel carcere l’italianità dei suoi sensi.
Recco sua patria s’ebbe pure il conforto dello stato d’assedio. Vedemmo destituiti senza ombra alcuna d’accusa fra i magistrati Celesia, Montesoro, Balestreri e Grondona. Un Sauli colonnello del Genio, un Mameli contro-ammiraglio messi in riposo, ed altri prodi ufficiali che lungo sarebbe il rammentare.
Vedemmo oltre a cinquanta marinari, che non senza un fremito d’ira avean dovuto salutare l’austriaca bandiera, tradursi alle secrete, e parte di essi subir gravi condanne dopo che Albini ammiraglio avea loro solennemente promesso perdonanza ed obblio.
Che più? Garibaldi, l’eroe di S. Antonio, di Luino, e di Roma non potè libero respirar l’aure della sua Genova e tolto di carcere venne duramente respinto dalla sacra terra d’Italia.
Cacciati i buoni, la città venne ammorbata dalla gesuitica lue d’un Frassinetti, d’un Gualco, e simili accozzaglie d’apostoli di menzogne e di tenebre.
La sciabola, insomma, era arbitra sola de’ nostri destini, e le leggi furono postergate a tal segno da potersi impunemente involare (non direm per quali mani) il processo Callò dal sacrario della giustizia. Oh, povera Genova; assai fieramente scontasti i tuoi sacrifizi, l’immenso tuo amore per la causa Italiana!
Noi qui darem fine alla mesta narrazione, troppo ripugnando al cuor nostro il dilungarla col raccontamento delle bieche provocazionì e stretture, onde in mille modi si compressero i cittadini. Solo quel tanto noi ne accennammo quanto ce ne imponeva il dovere di storico esatto ed imparziale. Anzi, ben lontani dal rinfrescare i non ancora assopiti odii e rancori, sempre con gioia cogliemmo in queste pagine il destro per interporre fra le due parti parole di conciliazione e di pace.
Ed ora, nell’atto di deporre la penna, noi grideremo più forte: Oh, fratelli italiani, finchè la fiaccola della discordia illuminerà di tetro bagliore le fumanti rovine delle nostre città, noi non avremo, per Dio! nè libertà, nè grandezza. Se il Governo d’allora o illuso o sleale sol vidde nel moto di Genova lo spettro della Repubblica quasi in atto di levarsi gigante dal mare, e stendere la scarna sua mano a strappare dal capo dei reali di Savoia il diadema della Liguria, forse ora fatto più saggio e instrutto delle vere cagioni che ci chiamarono all’armi, vorrà con maggiori larghezze e benefizii compensarci dei sofferti martiri.
Pur quand’anche fosse destino, che per noi si vivesse ognor compressi dal pondo di ventimila soldati, non malediamo alla man che ci aggrava: ma fissi nei fati d’Italia duriamo da forti le presenti amarezze, chè da furie partigiane e da disamori, mai non venne salute agli stati.
Concordia, concordia, o fratelli! Chi vi sussurra agli orecchi che le ceneri dei vostri morti chieggono conforto di vendetta e di sangue, oh, quello è un vostro nemico! Concordia, concordia o fratelli!
Caldo d’italiane speranze io vi chiamo innanzi all’altar della Patria, oppressori ed oppressi: – ivi congiungete le palme -, e il balsamo del perdono, scorra sulle comuni ferite.
Fonte: N.R; dig da int: http://www.genovalibri.it/genova_1849/anonimo.htm
http://www.fortidigenova.com/moti1849.html
Raro volume edito nel 1850, privo del nome dell’autore, del luogo di stampa e del suo editore. Nell’ultima pagina appare : Tip.dagnino, mentre nella prefazione è indicato: Marsiglia novembre 1849, per questa ragione, il volume è conosciuto come l’opera dell’anonimo di Marsiglia.
L’opera, in epoche diverse, è stata attribuita al Celesia, a Costantino Reta e a Nicolò Accame, quest’ultima sembrerebbe essere la più attendibile in quanto alla data della prefazione del libro egli si trovava effettivamente a Marsiglia – in luogo sicuro – ed anche perché nella sua veste di segretario del Governo Provvisorio a Genova forse più di ogni altro era a conoscenza dei particolari sui fatti accaduti
RELAZIONE DELLA COMMISSIONE PER L’ACCERTAMENTO DEI DANNI
Signori,
In esecuzione della capitolazione, che il Municipio trattò e conchiuse col Generale La Marmora, le R. Truppe il giorno 11 aprile occuparono militarmente tutta la Città di Genova.
I soldati nei giorni precedenti eransi abbandonati ad eccessi veramente deplorevoli nelle colline di Promontorio, di Belvedere, degli Angeli, di S. Benigno, di S. Rocco e nella parrocchia di S. Teodoro: si temeva che nell’ebbrezza della vittoria non volessero affatto desistere nell’interno della città.
Nè vano era siffatto timore: imperocchè in questo stesso Palazzo Civico appena vi prese alloggio il generale La Marmora ed il suo Stato Maggiore, i Bersaglieri, occupato ad uso di caserma l’Ufficio della giudicatura di S. Vincenzo, dispersero, confusero ed in parte lacerarono le carte ed i registri giudiziari, e mediante rottura di un tavolino derubarono oltre a lire 500 fra denari depositati, effetti preziosi sequestrati e corpi di reato.
Per la città poi taluno armata mano avea anche minacciato l’innocuo cittadino.
Inoltre le lagnanze ed i reclami d’ogni ceto di persone per le rapine e gli oltraggi patiti a S. Teodoro e nelle circonvicine colline erano continui.
La Commissione avendo compiuto il mandato conferito, rende ora ragione del suo risultato.
Le relazioni dei danneggiati presentate o fatte alla Commissione sommano a 467, ma non tutti i danneggiati si presentarono.
La Commissione le ha divise in due categorie, e le fece registrare in due stati distinti.
Nella prima comprese le relazioni relative ai danni diversi causati in città dal popolo armato, dalle bombe e dalle palle di cannone ed il danno denunciato in questa relazione ascende a lire 75.717,97.
Nella seconda categoria furono incluse le relazioni relative al danni causati nei giorni 4, 5, 6 e 7 aprile dalle RR. Truppe nel quartiere di S. Teodoro e nelle colline di S. Benigno, degli Angeli, di Belvedere e di Promontorio.
Stando alle relazioni dei danneggiati, che determinarono il montare del patito danno materiale, questo ascenderebbe a lire 645.555,90; vi sono poi sette relazioni nelle quali il danno non è valutato.
Ma, signori, la cifra dei danni materiali è un nulla se noi badiamo al modo col quale furono inferti, e pensiamo al danno morale gravissimo che ne emerse; onde gli odii municipali risuscitati, le antipatie fra cittadini e militari, la discordia a vece dell’unione, che sola può trarci dalla misera condizione in cui precipitammo dopo tante speranze.
Egli è quindi che con vero dolore la Commissione si accinge a darvi un sunto di queste relazioni, ove miserandi casi sono narrati, imperocchè ben vede che, nel rimescolare le passate cose, non sta il farmaco dei nostri mali intestini.
Nel giorno 4 aprile, appena scalate le mura della Lanterna ed occupata da quel lato la parte della città, i soldati d’ogni arma, carabinieri e bassi uffiziali compresi, a drappelli si disseminarono in tutto il quartiere di S. Teodoro e nelle suddette colline.
Alcuni si stettero battendo contro i pochi armati che difendevano le barricate ed altre posizioni, e gli altri, quasi orde di barbari o di briganti, si presentarono armata mano alle abitazioni dei pacifici cittadini.
Se le porte di casa trovavano chiuse, perché gli abitanti ne fossero fuori, ovvero celati si stessero nel recesso più recondito, bussando e ribussando le facevano tosto aprire o meglio a viva forza le atterravano, talvolta scaricati prima i fucili contro le finestre ed ove ciò non bastasse queste scalarono aprendosi per le stesse un facile varco non ostante fossero murate.
Qualunque ritardo od ostacolo anche morale frapposto dagli abitanti al loro libero accesso nelle case, punivano con fucilate.
A una donna che sentendo bussare, s’era affacciata alla finestra, le fu sparato contro il fucile, solo perché li avvertiva che i padroni di casa si trovavano in città, fortunatamente non fu colpita, altrettanto fecero contro un ragazzo d’anni undici affacciatosi alla finestra per chiamare il padre; il giovinetto vi lasciò la vita.
A un galantuomo, che al sentire bussare alla porta e gridare fortemente «aprite», frettoloso accorreva al comando, furono tirate due fucilate, una la scansò, l’altra colpì la serratura della porta mentre era in procinto di aprirla, si staccò un chiodo e portò via al poveretto un occhio.
Entrati nelle case con aria minacciosa, alcuni allegavano il pretesto di voler perquisire armi; altri che volevano mangiare, la maggior parte poi calata ogni maschera furibondi gridavano “Denari, denari o la vita” ed appuntate carabine, pistole, baionette, sciabole e pugnali al petto od alle gole dei tremanti ed inermi cittadini, se non ferivano od uccidevano, minacciavano morte immediata forzando anche i pazienti ad inginocchiarsi e recitare l’atto di contrizione.
Con tale apparato, spaventate le famiglie, si cacciarono addosso alle persone, ne lacerarono le vesti, ne stracciavano o portavano via le saccoccie e le tasche, strappavano dal collo le cravatte, le catenelle d’oro e gli orologi, dalle camicie i bottoni di qualche valore, dagli orecchi i pendenti, dalle dita gli anelli; e se per l’ingrossato dito l’’anello non poteva trarsi, si poneva il dito e l’anello tra i denti e rompendo caninamente questo, quello ferivasi.
A taluno tolsero persino le scarpe che calzava e vi fu chi dovette cavarsi di dosso la stessa camicia.
Spogliate le persone di quanto avevano indosso, se non aprivano i ripostigli del denaro e delle cose preziose, ripetevano le minaccie alla vita o la tragica scena delle carabine appuntate e degli atti di contrizione: ovvero invadevano, percorrevano la casa mettendo tutto a soqquadro, frugando in ogni angolo, in ogni ripostiglio, sconquassando i mobili, rubando ogni cosa di facile esportazione, rompendo, lacerando, sperdendo quanto non potevano portar via.
E fatto il bottino, i ladroni furono visti in pubblica strada battersi fra loro per la divisione della preda ed a queste scene di orrore i medesimi cittadini, dovettero assistere non una sola volta, ma ripetutamente.
Ogni nuovo manipolo di soldati che si avanzava, era una nuova perquisizione, erano nuove minacce, violenze, percosse; crescenti sempre in ragione diretta della deficienza del bottino che, come ognuno vede, doveva mancare agli ultimi venuti.
E questi aggressori non si ristettero dall’inveire contro le persone e le cose alla vista di famiglie intere chiedenti carità, compassione; non si ristettero all’amichevole accoglienza, all’ospitalità che loro veniva prestata.
Anzi allora alcuni ostentarono maggiore ferocia, e gli insulti accoppiavano alle minaccie, altri in realtà vie più inferocendo commisero atti nefandi.
Dicevano: I Genovesi essere tutti “Balilla”, non meritare compassione, aver determinato di ucciderli tutti. Questi insulti e minaccie ripetevano a chi si affaccendava di preparar loro il pranzo, ovvero li aveva già saziati.
Un macellaio che prestava nel modo il più caritatevole la sua assistenza a quattro soldati feriti, fu replicatamente minacciato, e si volea a qualunque costo ammazzare; ora, perché non svelava l’abitazione dei ricchi, ora perché temevano fosse lombardo.
Un povero facchino a cui avevano ucciso un figlio d’anni undici, nell’angoscia di tanto dolore fu obbligato giorno e notte a preparare minestre alle diverse squadre di soldati che si succedevano. Per tutta ricompensa lo derubarono e scaricarono contro la porta di casa sette colpi di fucile.
Tre colpi di fucile furono sparati contro chi con la fuga metteva in salvo la vita, fu sparato contro un cittadino dopo che gli fu impedito di penetrare nella propria casa; fu sparato contro un povero padre di famiglia, perché essendo già stato derubato da altra banda di soldati, i nuovi venuti trovarono campo raso, e non avendolo colpito l’obbligarono a guidarli ove potessero rubare; fu sparato contro una serva, che trovarono rinchiusa in una casa che invasero rompendone le porte, l’infelice ferita fu in seguito trasportata all’ospitale militare dal suo padrone; fu sparato contro un contadino e fu mortalmente ferito perché osò raccomandarsi non rovinassero la poca verdura che non potevano consumare; fu sparato contro chi ricusò prestarsi a condurli in una casa ove far potessero pingue bottino; il misero vi lasciò la vita; fu sparato contro un giovine che, attirato dal rumore si era affacciato alla finestra, morì sul colpo.
Né qui han fine le commesse atrocità. Il figlio di un povero facchino, già soldato nella brigata Guardie, giacevasi a letto per ferita riportata alla battaglia di S. Lucia. Sperò d’essere rispettato coprendosi colla sua divisa, ma invano, fu minacciato a morte e poco mancò non compiessero l’atto eroico di uccidere nel letto un loro compagno d’’armi.
Alle minacce di questi ladroni, allo spavento della madre, una bambina di due anni piangeva, gridava serrata al collo materno, fu strappata dalle braccia della madre e cacciata a terra.
In mezzo a tante crudeltà, a tante infamie, è facile presentire che la sola fuga poté preservare la vergine e la pudica moglie dalla brutalità di gente oscena.
Ma non tutte le donne ebbero il coraggio d’una madre e di due figlie che, con una fune si calarono dalla finestra lacerandosi le mani; non tutte ebbero la sorte della fanciulla a tredici anni, che alla sfrenata libidine di quei manigoldi fu sottratta per le cure di un prete e di ufficiale; non tutte infine poterono salvarsi fingendo accettare l’incarico di procurare donna più giovane.
Ma ciò che più rifugge, signori, è vedere tentata una madre già depredata e gettata sul letto alla presenza degli innocenti figli e di tutta la famiglia; ed un marito legato ad una tavola, dover assistere all’onta che gli si faceva .
Nulla di santo, nulla vi fu di inviolato.
Gli arredi sacri del Santuario di N.S. di Belvedere vennero derubati. Erano due calici, una pisside e vani ornamenti preziosi di cui i devoti si erano spogliati ad onore del tempio.
Un ufficiale fu complice del sacrilegio, ora ne sconta la pena.
Per ben tre volte entrarono armata mano nella casa dei RR. Missionari di Fassolo. La prima volta scalando i muri e rompendo due porte, taglieggiarono quei religiosi di L. 300 che il R. Daneri pagò a chi da una mano ritirava il denaro e con l’altra teneva la pistola montata ed appuntata: la seconda volta sparavano colpi di fucile contro la porta, mentre i Missionari stavano per aprirla; perlustrarono il convento, rubarono e ferirono con un colpo di baionetta nel petto un fratello che erasi per lo spavento chiuso in una stanza; la terza volta nuovamente rubarono, saccheggiarono.
Nè meno fortunati furono i Canonici Lateranensi di S. Teodoro, ed il R. Parroco Caprile. Questi religiosi non poterono salvarsi dal saccheggio e dalle minacce, nè in casa privata ove i più eransi rifugiati, nè nella Canonica o Convento, ove alcuni erano rimasti. Ivi l’abate Sauli e il chierico Pitto furono aggrediti armata mano.
Il primo ebbe salva la vita perché il chierico asseverò e persuase ch’era quasi demente; il chierico scampò dal pericolo giurando che non era prete. Però vennero entrambi posti in arresto, durante il qual tempo fu dato il sacco a tutte le stanze del Convento; fu rubato un calice, la croce d’oro e l’anello abaziale, una stola, insomma fu rubato tanto per L. 30,186. E più si sarebbe rubato, se non fosse sopraggiunto il cappellano di Reggimento Giorgio Narizzano che, fatto porre in libertà gli arrestati, procurò si salvassero gli altri vasi sacri.
La catastrofe non ha qui fine; ebbero a correre altri pericoli e patire pubblica ingiuria dalla stessa ufficialità e dallo stesso generale La Marmora.
Il R. Parroco Caprile avendo cercato durante l’armistizio entrare in chiesa, ne fu impedito ed aggredito dagli ufficiali, venne accusato d’aver predicata la crociata e coi termini più indecenti insultato. Il povero prete tentò svignarsela, ma inseguito a tutta furia dai soldati gli fu sparato contro con una fucilata, della cui ferita a stento si ridusse a guarigione.
Il generale La Marmora in occasione del funerale del maggiore Celesia; saliti i primi gradini dell’altare maggiore della chiesa, volgendosi ai soldati ed accennando ai Canonici Lateranensi ed al R. Parroco in piviale che avevano accompagnato il convoglio, disse: « Vergogna! Forse questi sono i capi della rivoluzione ».
Passiamo a parlare dei prigionieri fatti nell’aggressione della città. Sulla sorte di questi disgraziati la Commissione deve pure narrare scene di orrore.
Prigionieri vennero fatti tanto i cittadini armati, che deposero le armi od erano nei forti, quanto i cittadini pacifici che trovarono chiusi nelle loro case, e che avevano derubati.
Un attruppamento di persone con divisa della Guardia Nazionale, rompendo le porte di una casa, erasi ivi ricoverato, e salito sul tetto inalberava bandiera bianca, deponendo le armi.
Sopraggiunsero in casa i bersaglieri, tosto ne stilettarono uno, e fecero prigionieri gli altri unitamente al conduttore della casa, che a quei sciagurati aveva dato forzato ricovero. Tratti tutti in istrada, il generale La Marmora ordinò l’immediata fucilazione di un altro. Il conduttore della casa, dopo liberato di carcere tornò al suo domicilio e si convinse che altro delitto vi era stato commesso perché trovò tutti insanguinati due materassi di un letto.
Un cittadino fu imprigionato mentre inerme e solo se ne andava a casa, fu legato con le mani dietro al dorso; era strettamente legato e quando pregò gli allentassero i lacci, li strinsero ancora più.
Tutti i prigionieri furono condotti al forte della Crocetta. Mentre li traevano alla prigione, i soldati in mezzo de’ quali transitavano, o li prendevano a calci e pugni o li schiaffeggiavano, o li battevano con il calcio del fucile, o gridavano morte ai “Balilla”, od appuntavano al loro petto il fucile ovvero la baionetta alle spalle, causando scalfitture.
Nè miglior fortuna toccò a questi infelici durante la prigionia. Ogni specie d’insulto e di mali trattamenti ebbero a patire. Derubati del denaro, se ancor ne avevano, rinchiusi in numero eccessivo in piccole stanze.
Per due lunghi giorni ad alcuni non fu somministrato cibo di sorta e quando ne avevano era scarsissinio. Nei primi tre giorni una sola galletta per giorno e due nei successivi.
Anche l’acqua fu loro talvolta negata, a chi chiedeva acqua rispondevano: bevete l’orina.
E questo lauto trattamento era rallegrato dalle percosse, dalle ferite, dalle continue minacce di fucilazione.
Del resto il generale La Marmora, in occasione della resa del forte di Belvedere aveva dato la sua parola d’onore ai fatti prigionieri che che sarebbero stati umanamente trattati, e minacciò di fucilazione chi li avesse molestati.
Signori, nel delinearvi il quadro del saccheggio, delle devastazioni e delle crudeltà commesse dalle R.R. Truppe nei giorni 4, 5, 6 e 7 aprile, finora la Commissione attenendosi alle fatte dichiarazioni, accennò ai fatti infami, turpissimi non confacienti alla civiltà e mitezza di costumi del nostro suolo. Ma dunque direte voi: i soldati che in quei giorni si sbandarono e si introdussero in Città furono tutti ladri, assassini, inumani ? No, signori, fra i tanti tristi furonvi i buoni, che non contaminarono l’onore delle armi Italiane.
Stando alle relazioni, delle quali si dà il sunto, fra tutti primeggia Alessio Pasini, già dal Municipio pubblicamente lodato e distinto con Daga d’onore.
La soldatesca introdottasi per la porta e per le finestre nella casa Curotto, ove eransi rifuggiate 18 donne e cinque uomini, questo caporale dei bersaglieri, più volte, esponendo la propria vita, frenò il furore de’ suoi commilitoni, e la loro rapacità e così salvò quattro famiglie.
Per ben due volte, gridando che in nome del generale La Marmora non si doveva far male ad alcuno, oppose il suo petto a carabine e pistole puntate a minaccia di fucilazione contro un distinto Magistrato genovese (Senatore Daneri) ed un servo, già fatti inginocchiare.
Riuscito a far sgombrare da quella casa il primo drappello di soldati, vi si pose a guardia e vantando l’ordine di non lasciare entrare alcuno, la liberò dalle scorrerie di altre bande armate, che successivamente si presentarono.
Fatto avvertito che alla prima invasione un signore era riescito a salvarsi e nascondersi in cantina, si portò nel nascondiglio, l’abbracciò, lo rincorò, lo aiutò a meglio celarsi, e vistogli pendere la catena dell’orologio, lo consigliò a nasconderla.
Nella stessa guisa difese e protesse in altra casa la famiglia di certo Pieri.
In riconoscenza dei servigi prestati, una giovane volle regalarlo di una sua catena d’oro, la rifiutò; il Magistrato che aveva salvato dalla minaccia di fucilazione volle donargli una discreta somma, la ricusò; fatto interpellare dal Municipio, se in attestato delle generose sue azioni desiderava denaro, ricusò denaro.
Un marito alla vista della moglie in procinto di essere trafitta al ventre da un colpo di baionetta, si frappose, fece resistenza e salvolla.
I soldati si rivolsero allora contro il marito, e volevano fucilano ad ogni costo.
Presenziavano questa scena due carabinieri ed un sergente.
I carabinieri lasciarono fare, ed in luogo d’impedire il minacciato assassinio, con due tende di damasco rosso sulle spalle si pavoneggiavano, dicendo di essere ornai cardinali.
Il sergente solo s’interpose fra la vittima e gli aggressori ed ottenne una tregua. Nel frattempo alle strida della disperata famiglia accorse un Maggiore, che mosso a compassione pose in salvo quell’infelice.
Si ignorano i nomi del Maggiore e del sergente.
La famiglia di un povero falegname era già stata derubata dai soldati del poco denaro che possedeva. Sopraggiunse un drappello di bersaglieri comandato da un caporale, ed istantemente chiese denaro, risposto che più non ne aveva, fu battuto dal caporale con la canna del fucile, e gli altri soldati appuntarono i loro contro la famiglia.
Accorsero altri bersaglieri, che erano poco lungi a custodia di un ferito, e sgombrarono la casa dagli assalitori. Un bersagliere salvò e scortò in salvo un cittadino assalito e minacciato da una turba di soldati.
Si distinsero pure per atti umanitari il Maggiore Carena Giuseppe, Strucchi ufficiale del XXV Reggim. ed il capitano Marchese, direttore dell’ospitale militare.
Signori, il Municipio ha già deliberato di assumere informazioni sopra i danni arrecati nello scopo di rassegnare una rappresentanza all’autorità competente.
Impertanto la commissione propone che il Generale Consiglio appoggiato alla fatta inchiesta, ricorra al R. Governo perché accordi la dovuta indennità a chi patì danni nei giorni 4, 5, 6 e 7 aprile pel fatto del saccheggio dato dai soldati.
La Commissione è convinta che non si contesterà questa domanda giustissima.
Il R. Governo ha sempre protestato che il saccheggio non fu da lui ordinato, che fu il puro fatto di soldati sordi alla voce dell’onore e dell’ubbidienza.
Noi accettiamo questa dichiarazione.
A termini di legge chiunque, e perciò anche il Governo, è tenuto non solo per il danno che cagiona col proprio fatto, ma ancora per quello che viene arrecato col fatto alle persone, delle quali deve essere garante.
Ora il Governo deve essere garante del saccheggio dato dai soldati, ove non sia stato ordinato, perché il saccheggio in questo caso è l’effetto del rilasciamento della militare disciplina, e l’osservanza della più rigorosa disciplina militare è preciso dovere di qualunque governo.
Nè si tema che si dica essere la causa prima del saccheggio la rivoluzione di Genova, in quanto senza di questa non avrebbero avuto luogo nè l’aggressione della Città da parte delle RR. Truppe, nè il conseguente saccheggio. Imperocchè se si avesse a rimontare alle cause degli avvenimenti, domanderemo quale sia stata quella della rivoluzione di Genova.
Noi che subimmo e non facemmo la rivoluzione, dobbiamo essere convinti che l’ordine delle cose non sarebbe stato mutato, se nei propositi del Governo fosse stata quella fermezza, senza cui vi ha il disordine e l’anarchia, se gli alti suoi funzionari in Genova, privi di civile coraggio, non avessero disertato il loro pacifico posto per assumerne uno ostile, che solo spianò ad essi la via alla sconfitta seguita da vile capitolazione, se infine a capo della Guardia Nazionale il Governo non avesse conservato chi non divideva le convinzioni del Governo.
Ecco le vere cause della generosa rivoluzione dell’aprile scorso, le cui tristi conseguenze vuole giustizia non ricadano sopra i pacifici cittadini che non vi presero parte.
Faremo senz’altro qui punto poiché il Governo avendo nella lettera del Ministero dell’Interno, 27 maggio scorso, esternato il pensiero di erogare il prezzo che si ricaverà dalla vendita dell’area di Castelletto alla parziale indennizzazione dei saccheggiati, mostrò di volere rifare i danni cagionati.
Genova, 14 giugno 1849.
EMANUELE AGENO, ReI. della Comm
STEFANO GRILLO
GIUSEPPE ANSALDO
ETTORE COSTA
C.A. BOSELLI
Avv. G. A. PAPA
NICOLÒ MAGGIONCALDA
CRISTOFARO TOMATI
GIOVANNI ANSALDO.
28 Novembre, 2009 01:26
savoja assassini!