Gen 21 2013

MONTI, LA TECNICA DELLA FALSIFICAZIONE

Category: Economia e lavoro,Società e politicagiorgio @ 00:16

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Il Presidente Monti ci dice che, nel novembre 2011, nei giorni dell’insediamento del Governo “tecnico”, l’Italia era a rischio di fallimento e che si rischiava di non poter pagare i dipendenti pubblici. Ci dice anche che l’aumento del debito pubblico nel corso del 2012 è imputabile agli aiuti forniti dal nostro Paese a Grecia e Portogallo. Come è possibile tenere insieme queste due affermazioni? E’ ragionevole pensare che uno Stato a rischio di fallimento si adoperi per aumentare questo rischio (o accetti di farlo) per destinare proprie risorse al salvataggio di altri Stati?

Per quanto è possibile sapere, la prima affermazione è tutta da dimostrare, e fin qui non dimostrata da fonti ufficiali: su fonte Ragioneria Generale dello Stato, al 2011, il bilancio dello Stato italiano presentava un consistente avanzo primario, presumibilmente di importo tale da scongiurare l’eventualità di non poter sostenere le spese correnti della pubblica amministrazione. Su queste basi, si può affermare – in attesa di smentita – che lo “stato di emergenza” (premessa delle politiche di austerità messe in atto, con la massima accelerazione, dal Governo “tecnico”) non sussisteva e, dunque, che le politiche realizzate lo scorso anno rispondevano a obiettivi diversi da quello dichiarato (evitare il rischio di default).

 

In più, l’impegno assunto dal Governo italiano di destinare ingenti risorse al “salvataggio” delle banche spagnole sta semmai a dimostrare che, fra i Paesi europei e ancor più fra i PIIGS, l’Italia è un Paese con una dinamica del bilancio pubblico già relativamente virtuosa. Non a caso, nella c.d. Agenda Monti, si fa ora correttamente riferimento al fatto che l’Italia è un “contributore netto” del bilancio europeo. Ma, mentre nell’Agenda Monti, non è dato sapere se lo era già prima dell’insediamento del Governo “tecnico” o se lo è diventato nel corso del 2012, risulta evidente – su fonte MEF – che, almeno dal 2010, l’Italia ha versato all’Unione Europea più di quanto ha ricevuto.

 

Si tratta di una questione, quest’ultima, che merita di essere chiarita. Mentre negli anni ottanta e novanta, l’Italia oggettivamente costituiva un’anomalia nell’ambito dei Paesi OCSE per il suo elevato debito pubblico, negli ultimi anni l’indebitamento italiano è stato sostanzialmente in linea con quello dei principali Paesi industrializzati e, in alcuni casi (Giappone in primo luogo), notevolmente inferiore.  Se, dunque, nel 2011, l’Italia non era prossima a una condizione di fallimento, e se il suo indebitamento è stato sostanzialmente in linea con quello degli altri Paesi dell’Unione Europea,  non si capisce – se non adducendo motivazioni che hanno a che vedere con le imminenti elezioni – per quale ragione il 2012 è stato caratterizzato dalla più alta pressione fiscale della storia del nostro Paese e per quale ragione ora Monti scriva, nella sua Agenda (p.5), che “ridurre le tasse si rende possibile”.

 

Il Governo Monti si insediò dichiarando che avrebbe perseguito tre obiettivi: il rigore, lo sviluppo, l’equità. Non solo nessuno dei tre obiettivi è stato raggiunto, ma da questi ci si è allontanati. Per quanto riguarda il rigore nella gestione delle finanze pubbliche, può essere sufficiente ricordare che il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato, in un anno, di 6 punti percentuali. Il modesto calo degli interessi pagati sui titoli del debito pubblico (nell’ordine dello 0.5% in un anno) è imputabile, come rilevato da molti osservatori, non alla presunta “credibilità” del prof.  Monti, ma agli interventi della Banca Centrale Europea nei mercati finanziari. Al netto degli acquisiti di titoli pubblici da parte della BCE, la dinamica dei differenziali di rendimento fra titoli italiani e bund tedeschi è stata, nel 2012, in linea con quella determinatasi l’anno precedente. In più, come recentemente attestato dal Fondo Monetario Internazionale, l’aumento del rapporto debito pubblico/PIL  è avvenuto proprio per effetto delle politiche di austerità.  L’obiettivo dello sviluppo è stato clamorosamente mancato: la riduzione della spesa pubblica e l’aumento della pressione fiscale hanno prodotto un calo della domanda aggregata interna tale da generare un tasso di crescita negativo nell’ordine del -2,4% nel 2012 (fonte Banca d’Italia). L’Italia degli ultimi anni è diventato, fra i Paesi OCSE, uno dei Paesi (con Gran Bretagna e Stati Uniti) con la maggiore immobilità sociale e con la più diseguale distribuzione del reddito: dunque, un Paese sempre meno equo.

 

E’ anche difficile comprendere la tesi di Monti secondo la quale, a fronte di “sacrifici” necessari nel breve periodo, si attiverà – più o meno spontaneamente – un percorso di crescita in un futuro più o meno prossimo. La c.d. Agenda Monti è troppo vaga per capire quali meccanismi di ripresa della crescita Monti abbia in mente. Gli unici punti fermi sono la preclusione ideologica al ricorso a politiche keynesiane e una sostanziale ambiguità riguardo alle politiche per l’istruzione e la sanità.

 

A p.9 della sua Agenda, si legge: “La scuola e l’Università sono le chiavi per far ripartire il Paese e renderlo più capace di affrontare le sfide globali”. Il prof. Monti pensa che questo risultato venga raggiunto attraverso il taglio di 300 milioni di euro alle Università statali che proprio il suo Governo ha decretato nell’ultima Legge di Stabilità?  O pensa che scuola e Università sono “le chiavi per far ripartire il Paese” a condizione che siano private? Lo stanziamento di fondi aggiuntivi alla Bocconi deciso dal Governo da lui presieduto fa propendere per questa seconda ipotesi. C’è molto da dubitare sul fatto che la privatizzazione dell’istruzione sia una strategia efficace per generare crescita, e ci sono, per contro, ottime ragioni per ritenere che, come si sta sperimentando nei Paesi anglosassoni, ciò non abbia altri effetti se non accrescere l’indebitamento degli studenti e delle loro famiglie.

 

A ciò Monti aggiunge: “Il servizio sanitario nazionale resta una conquista da difendere”. Lo scrive ora; ma non è forse vero che la sua spending review ha sottratto al servizio sanitario nazionale quasi 2mila miliardi di euro per il biennio 2012-2013?

 

 

Fonte: srs di di Guglielmo Forges Davanzati, da MicroMega del  10 gennaio 2013

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IL BARATRO FISCALE DELL’AGENDA MONTI

 

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Non ci sono solo gli Stati Uniti. Anche l’Italia ha il suo baratro fiscale, come quello Usa di natura politica prima che economica. L’agenda Monti vi dedica ampio spazio, sebbene usi altri termini. In realtà il baratro l’ha aperto il Parlamento quando ha ratificato mesi fa – su proposta del governo Monti – il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento ecc. imposto da Consiglio europeo, Commissione e Bce. L’art. 4 prescrive: “Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore.. del 60%… tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno”. Il Trattato è già in vigore, ma in base a un precedente regolamento del Consiglio, l’inizio della riduzione del debito verso la meta del 60 per cento dovrebbe aver luogo solo dal 2015.

 

L’agenda Monti riprende quasi alla lettera tale prescrizione (punto 2, comma c). Si tratta a ben guardare del tema più importante sia della campagna elettorale che dell’azione del prossimo governo, quale esso sia. Il motivo dovrebbe esser chiaro. Ridurre davvero il nostro debito pubblico nella misura e nei tempi richiesti dal Trattato in questione è un’operazione che così come si presenta oggi ha soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria per l’intero Paese; aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in serie D. Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un livello tale da essere semplicemente impagabile, per la ragione che esso deriva sin dagli anni ‘60 non da un eccesso di spesa, bensì dalla accumulazione di interessi troppo alti. Quindi si dovrebbero trovare altre strade rispetto alle politiche attuate da Monti e riproposte dalla sua agenda.

 

Al fine di ripagare un debito a lunga scadenza in rate annuali è infatti essenziale una condizione: che il debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, abbia ogni anno delle entrate, per tutta la durata prevista, che siano almeno pari in media a quella di ciascuna rata del debito. Nel caso del debito pubblico italiano tale condizione base non esiste. Il Pil supera i 1650 miliardi, per cui il 60 per cento di esso ne vale circa 1000. Mentre il debito accumulato ha superato i 2000. Al fine di farlo scendere al 60 per cento del Pil come prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi ridurre il debito di 50 miliardi l’anno per un ventennio.

 

La cifra è di per sé paurosa, tale da immiserire tre quarti della popolazione. Ma il problema non è solo questo. È che l’interesse sul debito, al tasso medio del 4 per cento, comporta una spesa di 80 miliardi l’anno, la quale si somma ogni anno al debito pregresso. Ne segue che quest’ultimo non smette di crescere. Ora, se riduco il debito di 50 miliardi, avrò sì risparmiato 2 miliardi di interessi; però sui restanti 1950 miliardi dovrò pur sempre pagarne 78. Risultato: il debito è salito a 2028 miliardi (2000-50+78).

 

L’anno dopo taglio il debito di altri 50 miliardi e gli interessi di 2. Però devo pagarne 76, per cui il debito risulterà salito a 2054. Chi vuole può continuare. Magari inserendo nel calcoletto un dettaglio: l’art. 4 del Trattato prescinde del fatto che il debito di un paese potrebbe col tempo aumentare di molto, per cui l’entità del ventesimo di rientro andrebbe alle stelle. L’Italia, per dire, potrebbe ritrovarsi a fine 2015 con un Pil di poco superiore all’attuale, ma con un debito che a causa dell’accumulo degli interessi ha raggiunto i 2200 miliardi. Così i miliardi annui da tagliare passerebbero da 50 a 60.

 

Le obiezioni da opporre a quanto rilevato sopra le sappiamo. Il raggiungimento di un discreto avanzo primario ha già permesso di ridurre la spesa degli interessi di 5 miliardi: lo ricorda anche l’agenda Monti. La riduzione del differenziale di rendimento a confronto dei titoli tedeschi permetterà altri risparmi. Dalla dismissione di grosse quote del patrimonio pubblico arriveranno fior di miliardi. Le spese dello Stato possono venire ridotte di parecchi altri punti; qualcuno parla addirittura di 5 punti per più anni, alla luce di una profonda teoria politica che si compendia col dire “bisogna affamare la bestia” (cioè lo Stato, cioè quasi tutti noi). Per finire con l’immancabile “a fine 2013 arriverà la crescita e il Pil riprenderà a salire”.

 

Ciascuna delle suddette obiezioni o è fondata sull’acqua, come la previsione di ricavare alla svelta decine di miliardi dalla dismissione di beni pubblici – vedi la sorte delle cartolarizzazioni di Tremonti – oppure sull’accettazione per i prossimi venti o trent’anni di politiche lacrime e sangue, ancora peggiori di quelle che hanno afflitto gli ultimi anni all’insegna dell’austerità.

 

Naturalmente il problema non riguarda soltanto l’eventuale ritorno al governo di Monti con la sua agenda. Riguarda più ancora i partiti come Pd e Sel, che le elezioni potrebbero pure vincerle, ma che hanno dichiarato di voler rispettare nell’insieme l’agenda in parola. Sono essi per primi a dover scegliere la strada per uscire dalle strettoie attuali. Da un lato si profila una grave regressione sociale e politica, oltre che economica, indotta dalla ricerca coattiva del mezzo per ripagare un debito ormai impagabile. Dall’altro bisogna riconoscere questa sgradevole realtà, e aprire con decisione una trattativa su scala europea per trovare modi meno iniqui socialmente per uscire dall’impasse del debito pubblico, il che non riguarda ovviamente solo l’Italia.

 

Un riconoscimento al quale potrebbe seguire la ricerca dei modi per superare una contraddizione in verità non più tollerabile: una Bce che presta migliaia di miliardi alle banche (lo ha fatto, per citare un solo caso, tra novembre 2011 e febbraio 2012) all’1 per cento, ma non può fare altrettanto con gli stati. Per cui questi vendono obbligazioni alle banche, sulle quali esse percepiscono interessi tripli o quadrupli. È vero, l’art. 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di prestare denaro direttamente agli Stati. Ma a parte il fatto che prima o poi tale articolo dovrà essere modificato, posto che esso fa della Bce l’unica banca centrale al mondo che non può svolgere le funzioni proprie di una banca centrale, si dovrebbe d’urgenza porre rimedio a tale inaudita contraddizione.

 

Con il baratro fiscale di mezzo, la riduzione del debito pubblico a meno della metà è inconcepibile. Ma se l’Italia, per dire, potesse prendere in prestito dalla Bce, in forma obbligazionaria o altra, 1000 miliardi al tasso dell’1 per cento, come han fatto le banche europee nel caso precitato, allora potrebbe diventarlo. Pensiamoci. E magari proviamo a spiegare ai cittadini come si pone realmente per il prossimo futuro la questione del debito pubblico.

Fonte: srs di Luciano Gallino, da Repubblica, 8 Gennaio 2013

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Fonte: da Micromedia del  8 gennaio 2013

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