La cosiddetta “Casa di Colombo”, che attualmente si trova in Piazza Dante a Genova, ben al di fuori delle antiche mura della città – visibili sullo sfondo – contrariamente a quanto riportato dallo storico Staglieno (“entro le mura di Genova, in una casa del Carrogio diritto di Ponticello, a sinistra di chi scende dalla Porta di Sant’Andrea, a poca distanza da questa”), sulla base dei cui studi questo edificio venne considerato appunto la dimora del padre del navigatore .
(Cfr. M. Staglieno – Sulla casa abitata da Domenico Colombo, 1885)
Pietro Ratto
- PLEBEO E GENOVESE OPPURE NO ?
Cominciamo dunque dalle origini del celebre navigatore. Si sostiene che il padre fosse un tessitore genovese, forse partito da Terrarossa – nei pressi di Nervi – nel 1445. In quell’anno, infatti, dai documenti in archivio comunale egli risulta residente a Genova, in Vico Diritto dell’Olivella, con la moglie Susanna Fontanarossa, discendente da una famiglia di lanaioli. La data di nascita del primogenito “Cristofaro”, però, è già avvolta nel mistero.
Un rogito del 1470, ad opera del Notaio Niccolò Raggio, afferma che il giovane aveva superato i diciannove anni ma non ancora raggiunta la maggiore età (i venticinque). Questo potrebbe indurci a fissare l’anno di nascita tra il 1446 ed il 1451.
Un atto notarile risalente al 1479, trovato negli archivi storici di Genova nel 1904 dallo studioso Nicola Assereto, riporta però una dichiarazione del navigatore, il quale afferma di avere approssimativamente ventisette anni (in virtù di cui potrebbe dunque essere nato anche nel 1552).
In un altro atto ancora, l’Estratto dal libro degli lnstrumenti del fu Giovanni Recco Notaio (1455), si parla di un trasferimento della famiglia Colombo da Vico Diritto dell’Olivella a Vico Diritto di Ponticello, – ove la tradizione vuole che Domenico abbia aperto anche la sua bottega – quando il piccolo “Cristofaro” era “non ancora quattrenne“. Naturalmente stiamo parlando di quella che ancor oggi è considerata da milioni di turisti la Casa di Colombo, e che Cristoforo avrebbe lasciato solo nel 1470, quando i suoi genitori si trasferirono a Savona, aprendo una taverna in cui vendevano anche formaggi e vino.
Ciò che conta, però, sarebbe l’ulteriore conferma della collocazione della data di nascita intorno al 1451. Atti notarili a parte (la cui quantità decisamente eccessiva potrebbe gettare un’ombra di mistificazione sull’intera faccenda), Colombo stesso, in una sua celebre lettera, afferma però di aver cominciato a navigare a quattordici anni e di aver continuato a farlo ininterrottamente per altri ventitré. Dato che egli sospese i suoi viaggi nel 1479, anno in cui si trasferì stabilmente a Lisbona, si può concludere che la data di nascita vada anticipata al 1442.
Peggio ancora se diamo retta al suo amico André Bernaldez, il quale sostenne che Colombo fosse morto, sì, nel 1506, ma a settant’ani “poco mas o menos” ( come d’altra parte si evince anche dal referto stilato dal medico che ne constatò la morte); il che sposterebbe ulteriormente indietro la nascita intorno al 1436, data riportata anche nella Storia Universale pubblicata nel 1839 dallo storico Cesare Cantù.
Determinare l’anno di nascita di Colombo non è cosa di poco conto. Non si tratta soltanto di pignoleria, poiché dietro a questa querelle si annidano le inquietanti ombre degli interessi economici degli eredi e di quelli economico-politici delle Nazioni che si contendono la “paternità” del grande Ammiraglio e delle antiche famiglie che gestivano il potere a Genova.
Una luce sinistra sulla faccenda è proiettata dalla famosa Causa per il maggiorasco di Cristoforo Colombo[1], che molti studiosi continuano ad ignorare per non rimettere in dubbio troppe cose e per non ledere troppi interessi. Vale senz’altro la pena di riprendere in mano gli atti di questa che fu, a tutti gli effetti, una gigantesca disputa legale (protrattasi dal 1578 al 1608), tra tutti quelli che pretendevano di spartirsi l’eredità di Colombo spacciandosi per suoi discendenti. Per farlo non esitiamo ad appoggiarci anche ad uno storico “non convenzionale”, Pier Costanzo Brio, autore di una Identità di Christoforo Colombo scandalosamente vera (1993), mai pubblicata se non su internet.
Dai documenti della causa legale giunti fino a noi evinciamo infatti che l’Ammiraglio apparteneva ad una famiglia patrizia, essendo nipote di Lancia Colombo, parente del Marchese del Monferrato Teodoro Paleologo. Lancia era padre di Domenico e nonno di Cristoforo.
La famiglia Colombo vantava origini nobilissime: istituita da Ottone I nel 960, a metà del XIV secolo disponeva dei seguenti possedimenti territoriali tra Alessandria e Casale Monferrato: Altavilla, Calamandrana, Bistagno, Cuccaro, Conzano, Lù, Ricaldone e Rocca Platea. Non ha quindi senso, tanto per cominciare, continuare a spacciare Colombo per un plebeo, e la stessa “genovesità” dell’Ammiraglio vacilla, quanto meno da escludersi in termini di origini famigliari, evidentemente monferrine.
Secondo il Brio la teoria di un Cristoforo Colombo di umili origini sarebbe stata elaborata dagli storici vicini al Doge, il cui ritorno aveva causato la fine del dominio dei Paleologi e la caduta in disgrazia dei loro parenti Colombo.[2] Per non parlare della leggenda che vorrebbe Colombo morto in povertà. Il navigatore morì ricchissimo, ed i molti pretendenti alla sua eredità coinvolti in un processo risalente a più di settant’anni dalla sua scomparsa ne sono una lampante dimostrazione.
La ricchezza lasciata agli eredi di Colombo, però, non deriva dal patrimonio dei suoi predecessori, come si spiegherà di seguito, ma dai proventi della sua grande impresa in America.
La ricostruzione del Tribunale delle Indie (organo istituito da Carlo V e presieduto dallo stesso sovrano e dai suoi successori per dirimere le questioni legali relative al Nuovo Mondi), ci fa sapere infatti che Domenico, figlio di Lancia, ottenne in eredità il diciotto per cento dei possedimenti della sola Cuccaro, ma di tali possedimenti, alla sua morte (1456), il primogenito Cristoforo venne privato con la scusa che da ben cinque anni si era ormai reso irreperibile (viaggiando in mare) e che nessuno sapeva più nemmeno se fosse ancora vivo.
A parte l’evidente ingiustizia perpetrata in piena fase dogale (sotto il potere del Doge Pietro di Campofregoso), ai danni dei membri di un’antica famiglia, colpevole di essere imparentata con gli ormai decaduti Paleologi, va assolutamente messa in rilievo, a questo punto, anche l’inconsistenza della teoria che fisserebbe l’anno di nascita di Cristoforo Colombo al 1451. Se da quell’anno, infatti, il navigatore era ormai irreperibile e se, come Colombo stesso afferma, iniziò a navigare a 14 anni, ecco rispuntare la conferma della nascita intorno al 1437.
Molte sono però le informazioni particolarmente intriganti che emergono dalla Causa. Si evince che durante l’infanzia il nostro futuro Ammiraglio studiò a Pavia, non a Genova. Spunta inoltre l’identità di un cugino di secondo grado dell’Ammiraglio, tal Cristoforo Colombo, figlio del fratello di Lancia, Nicolino, di professione corsaro.
A complicare questo curioso – ma al tempo dei fatti piuttosto frequente – caso di omonimia, il Tribunale delle Indie accerta che Nicolino, alla morte del padre, aveva cambiato nome in Domenico (!) trasferendosi nei possedimenti di Cogoleto e aveva avuto due figli: Cristoforo, appunto, e Bartolomeo. Abbiamo dunque da fare i conti con il ramo dei Colombo di Cuccaro, da cui discende lo scopritore dell’America, e con quello dei Colombo corsari di Cogoleto, da cui discende un Cristoforo Colombo che non è il nostro, ma che, manco a dirlo, è navigatore ed ammiraglio. Ma non basta. Veniamo a sapere che il quattordicenne futuro scopritore del Nuovo Mondo cominciò la sua esperienza di mozzo (seppur cadetto), proprio sulla nave del cugino in seconda! D’altra parte, all’epoca, sia il cognome Colombo sia il nome Cristoforo erano molto comuni in quelle zone, come diversi storici confermano.
Il Tribunale, effettuata la ricostruzione, con sentenza del 1608 riconobbe Bernardo Colombo di Cogoleto – discendente di Nicolino – e Baldassarre Colombo di Cuccaro – discendente di un fratello del Domenico padre del nostro navigatore – gli unici veri eredi, rigettando le richieste dei molti altri pretendenti, alcuni dei quali finirono anche in galera per falso volontario e calunnia. Il Brio ricorda che Baldassarre Colombo di Cuccaro, pur essendo nato a Genova, fu riconosciuto erede proprio a causa della sua discendenza monferrina. Bernardo venne invece accusato di falso volontario e calunnia ed estromesso dall’eredità
Ricapitolando:
- COLOMBO ERA ITALIANO, DI ORIGINE MONFERRINA O PIACENTINA.
Niente di ben chiaro si sa sull’esatto luogo di nascita. Chi sostiene si tratti di Genova si basa su documenti come la prova Assereto, la cui autenticità è messa in dubbio dal Brio, o sulla trascrizione – non la versione originale, andata persa – del Testamento dell’Ammiraglio, che a un certo punto, riferendosi al figlio Diego, recita: “ordino…. che abbia e sostenga sempre nella città di Genova persona del nostro lignaggio, la quale vi abbia casa e famiglia, e ad essa assegni una rendita sufficiente a viver con decoro, quale si conviene a persona del nostro lignaggio, e abbia piede e radice nella detta città, in quanto nativa di essa, perché potrà averne aiuto e favore in cose di suo bisogno, posto che in essa io nacqui e di là venni“. Anche questa trascrizione, però, è stata spesso messa in discussione.
Da citare anche l’annotazione riportata su una carta geografica disegnata nel 1513 dal grande ammiraglio, geografo ed esploratore ottomano Piri Reis e ritrovata nel sontuoso Palazzo di Topkapi ad Istanbul, in cui, a proposito delle Americhe si legge: “si racconta che […] un infedele di Genova di nome Colombo abbia scoperto queste zone“.
Questo “si racconta“, però, all’orecchio di uno storico non dovrebbe suonare eccessivamente rassicurante.
Soprattutto va sottolineato un particolare importante che emerge dalla stessa Causa per il Maggiorasco. Baldassarre Colombo, al fine di smentire le origini genovesi dell’Ammiraglio chiede a tutti i testimoni presenti di confermare se anche a loro risulti che in tutti i territori spagnoli chiunque provenga dalla penisola italica sia definito genovese.
Tutti quanti confermano con decisione: gli spagnoli chiamano genovesi anche i siciliani, i napoletani, o chiunque provenga dall’Italia, poiché di norma è a Genova che gli italiani si imbarcano per raggiungere la penisola iberica! E non basta.
In un punto precedente degli atti tutti i convenuti riconoscono che, a circa ottant’anni dalla morte dell’Ammiraglio, non esista in Genova un solo monumento o una sola targa a lui dedicati per ricordarne le gesta, così come invece la Repubblica marinara è solita fare con tutti i suoi cittadini illustri.
Non risulta poi a nessuno dei testimoni convocati che, al momento del processo, esista qualcuno in possesso della cittadinanza genovese che si chiami Colombo di cognome, giungendo tutti alla stessa supposizione: anche nell’eventualità che il navigatore sia nato a Genova, la cosa potrebbe essere accaduta durante un viaggio della sua famiglia occasionalmente allontanatasi dal Monferrato; non per questo si potrebbe definire l’Ammiraglio, quindi, un genovese. A meno che non si tenga conto del fatto che la giurisdizione di Genova, a quel tempo, arrivava fino al comune di Bobbio, includendo proprio il Monferrato ed il piacentino.
Nel 1620 il canonico Pietro Maria Campi entrò in possesso di una traduzione in italiano del 1571 di una lettera di Don Fernando Colombo, figlio di Cristoforo (lettera custodita al Museo di Siviglia ma da secoli completamente trascurata dagli storici italiani) e rimase sconvolto da quanto Fernando ivi sosteneva a proposito delle origini del padre:
“Alcuni dicono che fu di Nervi, altri di Cugureo, altri di Bugiasco, ma quelli che sagliono il vento lo fanno di Piacenza, nella qual città vi sono alcune onorate persone della sua famiglia, con sepolture, armi e lettere di Colombo“.
Preso dalla smania di vederci chiaro chiese a tutti i notai di Piacenza di aiutarlo a trovare un atto che potesse confermare queste origini piacentine del navigatore e ne scaturì un documento che attestava l’esistenza di terreni e proprietà di Domenico Colombo e figli nella località di Pradello, attualmente frazione di Bettola, a quaranta chilometri dal suddetto capoluogo e al confine tra il Monferrato e la Lombardia. Giunto a Pradello rimase sconvolto di fronte ad un’antica Casa a torre che gli abitanti del posto chiamavano Torre de’ Colombi. Potrebbe essere proprio quella la casa natia dell’Ammiraglio?
Secondo lo storico “alternativo” Vittorio Giunciuglio, Domingo Colon e Susana Fonterosa erano in realtà due coniugi ebrei di Pontevedra, in Galizia, che decisero di lasciare la loro attività commerciale in Spagna per sfuggire alle persecuzioni di Ferdinando ed Isabella, approdando a Genova come tutti i sefarditi che volevano dirigersi nel più tollerante e ghibellino Ducato di Milano. Nella capitale della Repubblica, a quei tempi, la moltitudine dei profughi ebrei poteva cercar dimora soprattutto in Vico e Piazza degli Ebrei, poi soprannominati rispettivamente Vico e Piazza del Campo.
A comprar casa usufruendo dei notevoli capitali di cui disponevano in virtù della loro attività di prestasoldi, venivano “aiutati” dal Banco di San Giorgio – la più antica banca del mondo, sita proprio a Genova – che grazie a questo movimento di profughi sarebbe diventata floridissima. Ogni richiesta di residenza da parte dei sefarditi, però, era subordinata ad un’abiura alla loro fede con conseguente conversione firmata al cristianesimo.
Per il Giunciuglio i coniugi Colon, nobili e benestanti, dopo essersi convertiti preferirono acquistare un feudo a Pradello, appunto, territorio che a quel tempo si chiamava Pirrastrello e che potrebbe derivare il suo nome proprio dall’antica famiglia dei Perestrello, con cui evidentemente i Colon erano imparentati (l’Ammiraglio, non a caso, sposerà in Portogallo un’esponente di quella nobile famiglia). In virtù di questa parentela si può anche ipotizzare che i Colon non abbiano acquistato tale feudo, bensì, semplicemente, che ne abbiano preso possesso. Ivi sarebbero nati Cristoforo, Bartolomeo e Diego.
Giunciuglio ipotizza anche che i lanzichenecchi, inviati in Italia nel gennaio del 1522 dall’imperatore nonché successivo re di Spagna Carlo V, abbiano ricevuto l’ordine di far sosta a Genova a maggio dello stesso anno, per bruciare tutti i documenti degli archivi diocesani della Cattedrale di San Lorenzo, proprio al fine di far sparire le abiure dei due coniugi Colon.
Cancellando così la prova evidente delle origini ebraiche – che approfondiremo nel prossimo capitolo – e della nazionalità non spagnola dello scopritore dell’America.
Carta di Piri Reis, 1513
- Colombo nacque intorno al 1437 da una famiglia nobile. A prescindere da quanto emerso dagli atti della Causa per il Maggiorasco (e da quanto scritto da Colombo nel suo stesso testamento, dato che più volte in esso egli insiste sul suo “lignaggio”), dovremmo infatti chiederci come avrebbe potuto mai un popolano figlio di tessitori ottenere udienza dal Re del Portogallo (che oltretutto amava definirsi “suo amico particolare“), sposarne una cugina e farsi ricevere dagli importantissimi sovrani di Spagna per proporre un progetto a detta di molti quanto meno strampalato? Cosa poteva saperne un figlio di lanai imbarcatosi come mozzo all’età di quattordici anni, di Astronomia, di Navigazione o anche di Matematica e Geografia, dato che dalle carte processuali emerge anche un suo incontro – in quel di Lisbona – con Toscanelli?
- Colombo morì ricco, come dimostra la folla di pretendenti alla sua eredità a distanza di settant’anni dalla sua morte. Ma il suo patrimonio non consisteva nei possedimenti dei suoi avi, che per motivi ereditari si erano ridotti ad una sciocchezza (un diciottesimo del Castello di Cuccaro), e dei quali, oltretutto, era stato ingiustamente spogliato alla morte del padre.[3]
- EBREO O CRISTIANO ?
Su questo punto dobbiamo accontentarci di muoverci su un terreno meno sicuro, fatto di ipotesi, per altro piuttosto “solide”. Una delle teorie più scandalosamente intriganti di questi ultimi tempi, relative a Colombo, è sostenuta infatti da un altro storico “non allineato”, il già citato Vittorio Giunciuglio, operaio genovese che, una volta in pensione, si è presa la briga di spulciare l’archivio storico della sua città per poi dar alla luce i due libri I sette anni che cambiarono Genova (1991) ed Un ebreo chiamato Cristoforo Colombo (1994), tanto sorprendenti quanto ignorati. D’altra parte la sua ipotesi di un Colombo semita non è completamente nuova.
Di un Colombo ebreo catalano aveva già parlato negli anni Quaranta lo storico S. de Madariaga ed il grande “cacciatore di Nazisti”, Simon Wiesenthal, nel suo celebre trattato Operazione Nuovo Mondo – I motivi segreti del viaggio di Cristoforo Colombo verso le Indie (1973; Garzanti, Milano, 1991), aveva sostenuto l’idea che l’Ammiraglio fosse ebreo ma che avesse dovuto in tutti i modi tenerlo nascosto per poter essere preso in considerazione dai cattolicissimi sovrani, invece di venir perseguitato.
Secondo lo stesso Wiesenthal la cosa era persino evidente: “Numerosi storici si erano accorti che la cerchia dei personaggi che appoggiavano i piani di Colombo era formata in prevalenza da ebrei e da ebrei battezzati […] senza l’aiuto degli ebrei il viaggio di Colombo non si sarebbe realizzato”.
La “cerchia dei personaggi” a cui alludeva comprendeva gli ebrei convertiti Luis De Santàngel ( tesoriere e cancelliere dell’intendenza di Ferdinando II), Gabriel Sánchez (tesoriere di Aragona) e Diego Deza (Arcivescovo di Siviglia), tutti impegnati a promuovere ed appoggiare, chi dal punto di vista finanziario chi da quello teologico-scientifico, il progetto del navigatore. Né va dimenticato lo stesso Alessandro Geraldini, precettore e confessore presso la corte spagnola e futuro vescovo di Santo Domingo, famoso per il suo atteggiamento protettivo nei confronti degli ebrei. Fu lui, a tutti gli effetti, a convincere Isabella di Castiglia dell’opportunità di assecondare il navigatore. Per non parlare delle teorie secondo cui lo stesso papa Innocenzo VIII (alias Giovanni Battista Cybo, genovese, consuocero di Lorenzo il Magnifico[4], che secondo il Guicciardini esercitò non poca influenza su di lui, ottenendo la nomina a Cardinale per il figlio tredicenne Giovanni De Medici, futuro Leone X), fosse ebreo converso (il padre si chiamava Aharon Cybo; il nonno, Aleramo Kybos, era un ricco proprietario di allume nato a Rodi che aveva sposato un’ebrea di Chio, colonia genovese).
Lo studioso Ruggero Marino – a partire dal suo primo libro Cristoforo Colombo e il Papa tradito (Newton Compton, 1991) – stimolato nel 1990 da una misteriosa lettera di un discendente della famiglia Cybo finita sulla sua scrivania ai tempi in cui era capo redattore de Il Tempo, ha accumulato molte prove del rapporto tra Colombo e Innocenzo VIII. Un pontefice della cui storia si sono “perse” molte tracce, forse proprio per celare la sua vera origine ebraica. Un Papa che all’annuncio di Ferdinando di Aragona circa il completamento della Reconquista, promise a lui ed alla moglie il titolo di Re cristianissimi in cambio del loro consenso all’impresa di Colombo, per altro indirettamente finanziata dal Papato stesso.
Come hanno ben rilevato sia il Marino che, successivamente, il Giunciuglio, sulla tomba di Innocenzo VIII in San Pietro sta scritto: “Novi orbis, suo aevo inventi gloria“, che alluderebbe alla scoperta di un Nuovo Mondo nel tempo del suo pontificato. Tale affermazione costituirebbe un anacronismo, dato che Colombo salpò ben otto giorni dopo la morte del Papa, avvenuta il 25 luglio 1492.
Ma il Marino si dice convinto – facendo leva anche su un’annotazione presente nella suddetta Carta di Piri Reis, in cui si legge che l’America sarebbe stata scoperta da Colombo nell’anno 890 dell’era araba, equivalente al 1485 – che la spedizione del 1492 sia stata per Colombo una “replica”, avendo egli già effettuato un primo viaggio sette anni prima, in pieno pontificato di Giovanni Battista Cybo. La precisione con cui l’Ammiraglio, il 9 ottobre 1492, placò le ire dei suoi uomini (esasperati da un viaggio che avrebbe dovuto essere molto più breve), giurando sulla propria testa che entro tre giorni avrebbero avvistato terra, costituisce per Marino una prova più che evidente della sua teoria.
Non va inoltre tralasciata, come ricorda Umberto Bartocci nel suo La vera identità di Cristoforo Colombo Osservazioni e congetture, la sospetta coincidenza tra la partenza di Colombo, salpato (da Palos?) in fretta e furia il 3 agosto 1492, e la scadenza imposta agli ebrei dai Re cristianissimi (Decreto di Alhambra, 31 marzo 1492), per il loro allontanamento dalla Spagna.[5] Secondo lo studioso William Melczer, infine, la madre di Colombo era di origini ebraiche, così come sembra fosse anche la suocera.
A quell’epoca, d’altra parte, gli ebrei non avevano scelta: convertirsi o venir perseguitati e rassegnarsi a fuggire. E la scelta della conversione era spesso una scelta a metà, fatta solo per salvare le apparenze, come recita un proverbio dell’epoca:
“In tre casi l’acqua è scorsa inutilmente: l’acqua del fiume nel mare, l’acqua nel vino, l’acqua per il battesimo di un ebreo“.
Da qui il clima di forte sospetto in cui vivevano questi “marrani“, spesso accusati di essere “doppi” e di tramare segretamente per liberarsi da ogni discriminazione, raggiungere finalmente la Terra Promessa ed arrivare addirittura ad esercitare un potere sul mondo intero. Quella Terra Promessa in cui speravano milioni di marrani ricchi o poveri che, nei progetti di Colombo, poteva tradursi in un Nuovo Mondo!
Colombo era dunque ebreo? E’ possibile che il suo intento fosse davvero quello di raggiungere e conquistare una Terra Promessa per tutti i giudei (o quanto meno un rifugio per tutti quelli che in quegli anni venivano espulsi dalle monarchie cristiane e rifiutati dalle altre nazioni perché troppo poveri)? Giunciuglio arriva addirittura ad ipotizzare che gli scopi della missione finanziata dal Papa semita fossero due: trovare posto per gli ebrei scacciati ovunque e rintracciare il mitico Prete Gianni, che da tempo l’Occidente identificava con il Gran Khan, per chiedergli di allearsi con la cristianità e sconfiggere congiuntamente i musulmani, in un”ultima e definitiva crociata contro l’Islam.
Relativamente alla questione del Colombo ebreo, comunque, gli indizi elencati giustificherebbero quanto meno un dubbio in questo senso. Chiaramente va subito fatta una distinzione. Si può essere ebrei di origine ma non di fede religiosa. E’ quanto sostiene a tal proposito Paolo Emilio Taviani (Cristoforo Colombo – La genesi della grande scoperta, De Agostini, Novara, 1982), affermando con sicurezza che Colombo “fu cattolico e religiosissimo”.
Bisogna infatti ricordare che Alessandro VI si affrettò subito, all’indomani della scoperta dell’America, a sottolineare la matrice tutta cattolica dell’impresa di Colombo, giungendo persino a fare del navigatore una figura simbolo della religiosità cristiana.
Nonostante la sua relazione extramatrimoniale con Beatriz Enríquez de Araña, le accuse di maltrattamenti e sevizie nei confronti degli indios, ecc., una causa di beatificazione per l’Ammiraglio fu caldeggiata per secoli in Vaticano ed appoggiata sia da Pio IX che da Leone XIII. Il Sant’Uffizio però, esaminate tutte le carte, si pronunciò negativamente. Lo stesso Wiesenthal ricorda a tal proposito: “Volli saperne di più in proposito, ma a una mia richiesta indirizzata a Roma risposero che gli atti relativi a Colombo esistenti in Vaticano non erano accessibili”.
Ma non basta. Sia Giuciuglio che Bartocci formulano un’interessante teoria che vedrebbe Colombo non solo un ebreo nobile e colto ma persino vicino all’ambiente dei Templari, argomento questo che fa sempre storcere un po’ il naso agli studiosi, giustamente refrattari nei confronti dei moderni sfruttamenti commerciali in chiave “misteriosa” di molti argomenti storici.
Certo non vanno trascurati particolari interessanti come il simbolo scelto dall’Ammiraglio per decorare le vele delle sue caravelle (la tipica croce cosmica templare in campo bianco) o i documenti[6] che attestano il concepimento di un progetto del tutto simile a quello di Colombo maturato in ambito templare già nel 1290.
Una caravella di Colombo con la famosa Croce Templare sulla vela, in un disegno del 1493 presente sulla Prima relazione redatta dall’Ammiraglio.
Né vanno dimenticati altri elementi che, quanto meno, potrebbero indurre a riflettere.
Colombo “si reca” proprio in Portogallo – sulla possibilità di attraversare a nuoto l’Oceano per più di dodici chilometri approdando sulle coste portoghesi si veda l’ironico Le balle di Colombo, citato in nota 2 – nazione in cui l’Ordine dei Templari era riuscito a sopravvivere alla soppressione voluta da Clemente V nel 1312, mutando semplicemente il proprio nome in Ordine del Cristo. In quel Portogallo in cui la Corona era stata a lungo alleata coi Templari, fin dai tempi di Dionigi I, l’effettivo ideatore dell’escamotage del cambio di denominazione che aveva salvato l’Ordine permettendogli, tra l’altro, di giungere fino ai nostri giorni.
Per dar forza alla sua ipotesi il Bartocci [7] ricorda i collegamenti tra la famiglia de’ Medici – come abbiamo visto molto influente nei confronti di Papa Innocenzo VIII – gli ambienti templari e quelli giudei. L’ipotesi più intrigante di Bartocci consiste infatti nel ritenere i Cavalieri del Tempio – il cui enorme potere economico e politico, accumulato dai tempi delle Crociate grazie a quella stessa attività “bancaria” in cui primeggiava la famiglia di Lorenzo il Magnifico, crollò all’inizio del XIV secolo sotto i colpi dell’improvvisa e mai ben spiegata accusa di eresia con conseguente rapida soppressione dell’ordine ed esecuzione capitale dei vertici – nel corso dei loro precedenti ed innumerevoli viaggi in Terra Santa fossero entrati in contatto con qualche oscura “prova” attestante la falsità della fede cristiana (in piena sintonia con la famosa eresia catara sulla quale, qualche decennio prima, si era abbattuta una vera e propria crociata), e conseguentemente avessero abbracciato un nuovo “cristianesimo senza Cristo”. In altre parole, l’infamia oltraggiosa di cui parla il Provvedimento di arresto di tutti i membri dell’Ordine, emanato dal Re di Francia Filippo il Bello nel 1307, potrebbe consistere in una loro segreta conversione all’ebraismo, così come molti dei loro misteriosi “riti” – la cui scoperta da parte del Papa Clemente V portò proprio alla condanna per eresia nei confronti dell’intero Ordine – parrebbero suggerire.
Quanto all’obiezione di chi potrebbe ricordare che Giovanni II è proprio il re portoghese che si rese nemico dei Templari, addirittura pugnalando con le sue stesse mani l’undicesimo Gran Maestro dell’Ordine, Bartocci sostiene che potrebbe essersi trattato di un’improvvisa crisi scoppiata tra la corona ed i Cavalieri di Cristo e che proprio a causa di questa, nel 1484, l’Ammiraglio avrebbe deciso di traslocare frettolosamente in Spagna.
- INGENUO E SEMPLICIOTTO, OPPURE NO ?
Circa i veri intenti e le reali motivazioni dei protagonisti di questa grande scoperta la faccenda si tinge davvero di giallo. Secondo il Giunciuglio l’impresa fu originariamente concepita e finanziata dalla Chiesa (per giunta non per favorire i cristiani bensì gli ebrei, come abbiamo ipotizzato) e non dai reali di Spagna.
Fu l’ebreo Innocenzo VIII, autentico “mandante” della scoperta, a trovare i fondi e ad esercitare continue pressioni su Ferdinando ed Isabella. I quali rallentarono in tutti i modi la cosa non vedendo assolutamente di buon occhio che essa potesse venir condotta da uno straniero.
Colombo non solo era italiano e monferrino ma, secondo Giunciuglio, aveva preso la cittadinanza portoghese dal momento in cui era arrivato a Lisbona, chiamato da Don Rafael Perestrelo, nobile appartenente ad un’antica famiglia piacentina di banchieri (imparentata con i Visconti di Milano), trasferitasi in Portogallo nel 1375 ed imparentatasi coi Colombo agli inizi del ‘400. Don Rafael avrebbe voluto Cristoforo Colombo – probabilmente appena tornato da un viaggio in Groenlandia così come da lui stesso raccontato.
A questo proposito vedi, su questo sito, il saggio Cristoforo Colombo in Groenlandia di C. Bucher – a Lisbona per offrirgli in moglie la nipote Felipa[8].
Tra l’altro gli Aragona avevano un conto in sospeso con Genova (e Colombo, come abbiamo visto, era ritenuto “genovese”), a causa dell’ancora bruciante Disfatta di Ponza del 1435, umiliante sconfitta inflitta dalla Repubblica marinara – accorsa in difesa del Regno di Napoli assediato dagli spagnoli – nei confronti dello zio di Ferdinando, Alfonso V d’Aragona. In quell’occasione Alfonso era stato perfino catturato dall’esercito genovese, che non aveva esitato a chiedere un riscatto in cambio della sua libertà.
Per questo motivo, secondo Giunciuglio, la monarchia spagnola attese più di sei anni per concedere il permesso di partire a Colombo. L’impresa, infatti, ottenne il nulla osta solo alla morte del genovese Innocenzo VIII (per altro piuttosto misteriosa ed improvvisa, per taluni seguita ad avvelenamento, elemento che non può non far pensare al successore Rodrigo Borgia, il grande avvelenatore!), ed alla conseguente salita sul soglio pontificio dell’aragonese Alessandro VI. Un modo subdolo per poter poi attribuire alla Spagna tutto il merito – e tutti i conseguenti diritti economici – della scoperta. Proprio a tal fine, secondo lo studioso “non allineato”, le vere origini di Colombo furono poi volutamente oscurate e falsificate dai re cristianissimi.
Una fitta serie di attentati falliti a carico dell’Ammiraglio, verificatisi nel corso della prima spedizione e appoggiati dai due fratelli Pinzon, capitani delle due caravelle spagnole la cui presenza era stata imposta dai Re cristianissimi, avrebbero avuto proprio, secondo il Giunciuglio, l’obiettivo di far fuori l’italiano per trasformare l’impresa in un successo tutto spagnolo. Lo stesso affondamento della nave di proprietà dell’Ammiraglio, la Santa Maria, sarebbe da considerare in questo senso, dato che avvenne in circostanze tutt’altro che chiare e che Colombo rischiò davvero di lasciarci la pelle. Ma tutti i tentativi fallirono ed ai reali spagnoli, quindi, non restò che oscurare l’italianità dell’Ammiraglio come ultima spiaggia per convincere il mondo dell’esclusiva spagnola sui diritti di sfruttamento del Nuovo Mondo.
Quanto poi alla casualità della scoperta dell’America ed alla convinzione di Colombo di essere approdato nelle Indie, non è difficile far notare che la sfericità della Terra non fosse assolutamente un mistero, al tempo dell’Ammiraglio.
Già Eratostene, nel terzo secolo a.C., ne aveva misurato il diametro, quantificandolo in 252 mila stadi, circa 39600 chilometri attuali, risultato che si avvicina in modo impressionante a quello riconosciuto al nostro tempo (circa quarantamila chilometri in media, dato che la terra non è perfettamente sferica).
D’altra parte le numerose raffigurazioni risalenti all’antichità e relative al nostro pianeta, contrariamente a quanto spesso affermato, non lo considerano “piatto”, ma semplicemente lo ritraggono nella metà ritenuta “abitata”, quella superiore, grosso modo estesa dalla penisola iberica all’India (ossia l’intero “mondo conosciuto”), centrata perfettamente nella città di Gerusalemme, il luogo sacro ai cristiani e dunque considerata il punto centrale della Terra.
L’altra parte, quella inferiore, non veniva raffigurata in quanto si riteneva impossibile che qualsiasi essere umano potesse abitarlo, senza staccarsene subito in caduta libera o costretto a vivere costantemente a testa in giù. Non solo Colombo, dunque, era al corrente di tutto ciò. Ne erano al corrente i reali di Spagna, i vari Papi, ecc. Si trattava, se mai, di capire se questa parte “di sotto” del nostro pianeta potesse davvero venir navigata.
Per non parlare della distanza da coprire per giungere in India, che la tradizione vuole sia stata la reale meta del navigatore.
Poteva Colombo ignorare un trattato come La pratica della mercatura, scritto tra il 1310 ed il 1340 da Francesco Balducci Pegolotti con l’intento di fornire un autentico manuale di viaggio ai mercanti, densissimo di dettagliate informazioni per tutte le vie dei commerci, incluse quelle necessarie a chiunque intendesse recarsi a Pechino?
Le informazioni del Pegolotti portavano qualunque lettore a rendersi conto che la strada da percorrere in modo “tradizionale” per Pechino, seguendo quindi la direzione Est, potesse misurare all’incirca tra i 14 ed i 16 mila chilometri attuali, cifra che non poteva non suggerire a Colombo che la direzione inversa gli sarebbe costata una enormità di gradi di longitudine (seppur “corretta” con il relativo scarto di latitudine rispetto all’equatore), soprattutto in confronto ai settanta/ottanta che al massimo era solito coprire nel corso dei suoi viaggi e che l’equipaggiamento con cui salpò gli consentiva.
Sembra dunque quanto meno improbabile che l’Ammiraglio, attraverso la sua leggendaria spedizione, intendesse davvero raggiungere le fantomatiche Indie.[9]
Così riassume le sue osservazioni il Bartocci:
“In conclusione, Colombo appare […] secondo noi, per il tramite delle considerazioni sopra esposte, nelle vesti di un autentico scienziato, un seguace del metodo sperimentale, che rischia la vita per convalidare un’ipotesi, ottenuta del resto non irrazionalmente […] o a caso, bensì mediante l’elaborazione concettuale di dati osservativi. Osservazione, teorizzazione, verifica attraverso la pratica: non manca nulla per poter fare dell’impresa colombiana il punto di partenza del cammino della nuova scienza, anche se purtroppo la segretezza di cui l’evento fu circondato, per i motivi di natura “politica” oltre che ideologica che abbiamo cercato di intravedere, ha impedito fino ad oggi di poterla apprezzare sotto la sua più giusta e vera luce“.
Se dunque vogliamo tentare di ricomporre – per quanto in modo non troppo “definitivo” ed esaustivo – il nostro PUZZLE, dobbiamo per lo meno prendere in considerazione l’ipotesi che Colombo fosse di origine ebrea e che intendesse – in accordo con gli ambienti più influenti dell’ebraismo apparentemente convertito al cristianesimo ed infiltratosi anche in sedi assolutamente al di fuori di ogni sospetto come nel caso dello stesso Vaticano – trovare un Nuovo Mondo (della cui presenza da molto tempo in quegli stessi ambienti si parlava), per far fronte all’epocale emergenza di centinaia di migliaia di giudei espulsi dalle nazioni cristiane e privi di una qualsiasi meta “sicura” da raggiungere.
Questo progetto, però, è possibile che sia stato ostacolato con tutti i mezzi dai Re cristianissimi che, avendo atteso la morte del principale ideatore della grandiosa spedizione di Colombo, Innocenzo VIII, e avendo favorito l’ascesa al soglio pontificio del successore aragonese Alessandro VI, avrebbero provato sia ad eliminare il navigatore durante il viaggio, sia, non essendovi riusciti, a farlo passare per uno spagnolo dal suo ritorno in poi.
Quanto alla presunta ingenuità dell’Ammiraglio, pare alquanto credibile l’ipotesi che egli sapesse quindi fin troppo bene cosa stesse cercando e che a lungo, dopo la scoperta di quelle terre, la Spagna abbia continuato a spacciarle per propaggini estreme dell’India solo per sminuirne l’immensa portata economica e garantirsi così l’esclusiva territoriale e commerciale, per altro assicurata a lungo dai frettolosi Trattati stipulati col Portogallo e dalle Bolle papali di un compiacente Rodrigo Borgia.
Resta evidente che il nostro navigatore fosse nobile. Il Marino, oltre ad aver introdotto la sopra citata teoria del pre-descubrimento ed aver messo in rilievo i forti rapporti tra l’Ammiraglio e Papa Cybo, è arrivato addirittura a proporre l’ipotesi che Colombo fosse figlio illegittimo dello stesso Papa Innocenzo VIII, avendo trovato l’espressione “Colombo nepos” in due diversi testi dei primi del Cinquecento ed avendo riscontrato una forte somiglianza tra diversi ritratti dei due personaggi e tra i colori degli stemmi delle rispettive famiglie.
Da notare come anche il termine nepos fosse utilizzato in passato per indicare, con una certa discrezione, le discendenze illegittime.
- LA LETTERA DI COLOMBO
Da cosa deriva, allora, l’idea che Colombo fosse genovese? E’ evidente che Ferdinando ed Isabella volessero farlo passare per spagnolo per chiari interessi economici da tutelare nei confronti dello sfruttamento del Nuovo Mondo. Un interesse di questo tipo lo nutriva certamente anche la gloriosa Repubblica marinara, oltretutto a causa della sua giurisdizione (a dire il vero piuttosto intermittente, nel corso della storia), sul piacentino e su quelli che potrebbero essere stati i luoghi natii dell’Ammiraglio. Ma a giocare improvvisamente a favore delle origini liguri del navigatore potrebbe paradossalmente esser stato – anche se solo momentaneamente – anche lo stesso re di Spagna, come ci spiega di nuovo Vittorio Giunciuglio.
Stiamo parlando di un’enigmatica lettera, scritta da Colombo e indirizzata ai genovesi.
Il 2 aprile del 1502 Colombo invia una strana lettera (scritta in castigliano), al Banco di San Giorgio, ricchissima banca genovese. In essa l’Ammiraglio dichiara la sua disponibilità a pagare le gabelle di tutti i genovesi (“del grano, del vino e di altre vettovaglie…“), dato che Dio gli ha concesso una fortuna (quella della scoperta dell’America), seconda solo alla grazia accordata al re David.
A prescindere dall’interessante (e forse non proprio causale), riferimento al grande re di Israele, salta subito agli occhi la colossale occasione offerta al popolo genovese, che subito viene a conoscenza della proposta ed esulta per le strade della città.
In base ai documenti giunti fino a noi, i procuratori del Banco di San Giorgio rispondono l’8 dicembre, commossi e pieni di gratitudine (anche perché quei fondi sarebbero transitati sulle sue casse), scrivendo al famosissimo scopritore delle Americhe ed a suo figlio Diego due diverse lettere, entrambe da consegnare a quest’ultimo in quanto l’Ammiraglio, nel frattempo, è già ripartito per le Indie. Queste lettere, però, non giungono a destinazione.
La storiografia ufficiale spiega il mancato recapito parlando di “disguidi postali”, ma Giunciuglio fa notare che, in quel caso, data la portata dell’occasione offerta dal navigatore, i genovesi si sarebbero adoperati a inviare nuovamente la loro risposta.
Lo storico “non allineato” propone invece un’altra spiegazione. Egli è convinto che la lettera fosse stata scritta, invece, su istigazione di Ferdinando d’Aragona, preoccupato dell’appoggio di Genova ai Francesi nelle Guerre d’Italia che da qualche anno erano scoppiate per i possedimenti nella nostra Penisola. Genova, infatti, era finita improvvisamente sotto il dominio di Luigi XII a causa di una concessione del 1499 di papa Alessandro VI [10] in preda all’ira nei confronti del re di Spagna che l’anno prima aveva osato, dopo un lungo periodo di “amicizia”, rifiutargli il favore di concedere la mano della figlia Giovanna, detta la Pazza, al suo rampollo Cesare Borgia. Giovanna era stata invece promessa in sposa a Filippo il Bello, Arciduca d’Austria e il figlio del Papa (quel Cesare che il Machiavelli considerò il modello ideale di Principe in grado di unificare l’Italia sotto di sé), si era dovuto accontentare della figlia del re di Navarra, Carlotta. Un matrimonio ben più misero di quello progettato dal Papa, che da tempo accarezzava invece l’idea di un figlio futuro Re di Spagna e del Nuovo Mondo.
Il risultato era stato proprio la concessione della Liguria, del Ducato di Milano e addirittura dell’aragonese Regno di Napoli ai francesi, decisione che aveva mandato su tutte le furie re Ferdinando.
Giunciuglio – che non manca di sottolineare come la lotta tra guelfi e ghibellini, a quei tempi, non si fosse per nulla estinta ma di fatto vedesse schierate le grandi famiglie del tempo, incluse quella dei francesi Valois (filo papali) e degli Aragona (passati contro il pontefice per le suddette ragioni) – ci spiega che la lettera in questione potrebbe costituire dunque un tentativo, da parte della Spagna, di “comprarsi i genovesi” i quali, se avessero accettato, avrebbero dovuto sbarrare la strada a Luigi XII invece che accoglierlo e combattere al suo fianco.
Le lettere di risposta a Colombo, insomma, secondo il Giunciuglio non arrivarono mai perché i procuratori del Banco di San Giorgio non se la sentirono di voltare le spalle alla Francia per accettare una proposta spagnola, implicitamente molto vincolante. Al popolo, che fremeva e non vedeva l’ora di farsi pagare le gabelle dall’Ammiraglio, venne forse raccontato che non se ne sapeva più niente, che probabilmente il navigatore aveva cambiato idea, e tutto finì lì.
Giunciuglio sostiene che Ferdinando, non accettando di subire gratuitamente un tale affronto, per ripicca istituì a Siviglia la Casa di Contrattazione, che penalizzava fortemente le navi genovesi interessate a commerciare col Nuovo Mondo (in quanto esse dovevano prima passare in quella città, così lontana dal mare, a pagare i relativi pedaggi, costrette così a risalire tutto il Guadalquivir per poi tornare sulle coste spagnole e dirigersi finalmente in America. Un percorso incredibilmente scomodo e costoso che, di fatto, avrebbe tenuto i genovesi ben lontani dal Nuovo Mondo fino al XIX secolo).
A distanza di quattro anni da quella lettera, poi, Ferdinando – venuto a sapere della morte di Colombo (avvenuta il 20 maggio 1506) – secondo Giunciuglio sferrò il colpo finale.
Convocò il fratello Bartolomeo a Barcellona. Non conosciamo la motivazione dell’incontro tra i due. Sappiamo però che Bartolomeo ripartì poi per Genova agli inizi di luglio e che di lì si spostò a Roma, ove incontrò il nuovo pontefice, Giulio II. Fatto sta che a metà di luglio da una stamperia di Genova uscì improvvisamente un documento del notaio Antonio Gallo che raccontava la storia di Colombo sostenendo, per la prima volta, che egli fosse nato da una povera famiglia di lanai liguri.
La notizia fece il giro della città. I cittadini vennero a sapere, di colpo, che il famoso Ammiraglio che quattro anni prima si era offerto di pagare le tasse a tutti senza ottenere alcuna risposta dalle autorità, era povero e ligure come loro.
Ne seguì una violenta sommossa (in un clima per altro già arroventato dal malcontento generale contro il dispotismo francese), che il 18 luglio si trascinò rapidamente fin sotto il palazzo del capo dei ghibellini, Visconte Doria, chiedendogli, a gran voce, di dare inizio alla rivolta antifrancese. Il Doria tergiversò, poi uscì di casa affrontando la folla e finendo per pronunciare le seguenti parole: “Tornate alle vostre botteghe, deficienti!“. Fu aggredito e ucciso a calci e pugni. Seppur momentaneamente, i Francesi furono così cacciati da Genova, con gran soddisfazione di Re Ferdinando.
Dieci anni dopo, in uno scritto intitolato Salterium, lo storico Mons. Giustiniani fece un passo avanti in quella stessa direzione, arrivando a sostenere per la prima volta la genovesità del celeberrimo Ammiraglio con la frase, a lui riferita: “Nessun genovese diede tanta gloria alla città come lui“.
Da lì in avanti Colombo fu sempre considerato genovese, in Italia.
Ma anche spagnolo in Spagna e portoghese in Portogallo.
- LA QUESTIONE DELLA CASA
La sera del 16 dicembre 1812 il venerabile Rettore dell’Università di Genova Gerolamo Serra tenne una conferenza “esplosiva” al cospetto di studenti e docenti letteralmente esterrefatti. Come ci racconta il Giunciuglio, dopo una relazione di due ore e mezza – in cui disse tutto il peggio sul vecchio potere oscurantista e retrogrado dei Dogi confrontandolo con la ventata di libertà portata anche in Liguria da Napoleone – il Magnifico rivelò molto scenograficamente, proprio allo scoccare della mezzanotte, di aver individuato la casa natale di Cristoforo Colombo.
Il Serra ne svelò l’indirizzo: Vico Dritto di Ponticello.
I giovani si riversarono per le vie di Genova urlando insulti contro tutti i Dogi e i Vescovi che per secoli avevano tenuta nascosta anche questa importante informazione, e la rabbia si diffuse tra il popolo.
Per sostenere una cosa di questo genere il Serra si era basato su due enfiteusi misteriosamente spuntate nel 1798, una datata 1440 e l’altra 1455, tramite cui veniva concesso alla famiglia Colombo, in virtù della sua povertà, di risiedere rispettivamente in “carubeo de Olivella” (Vicolo dell’Olivella), e, appunto, in “carubeo Recto“. Il Rettore fece però un errore mica da poco: se, come la storiografia tradizionale sosteneva e sostiene tuttora, l’Ammiraglio nacque nel 1451, la casa natale non poteva certo essere quella concessa ai Colombo nel 1455. Inoltre si lasciò scappare che i Colombo fossero nobili (e allora perché mai avrebbero avuto bisogno di enfiteusi?), sostenendo contestualmente che il nome della madre di Cristoforo fosse Susanna Fontanarossa (e qui Giunciuglio ci ricorda come Susanna fosse un nome tipicamente ebraico, con cui nessun altro nobile cristiano fino a quel momento era mai stato chiamato ).
Ma cosa c’era dietro questa incredibile quanto tardiva scoperta? Come mai quegli enfiteusi erano spuntati solo a fine Settecento? Giunciuglio, ironicamente, a tal proposito osserva: “… fu più facile scoprire l’America [da parte di Colombo] che la sua casa natale a Genova! Infatti la prima fu scoperta nel 1492 mentre la seconda soltanto nel 1812, dopo ben trecentoventi anni!“.
Proviamo allora a ricostruire i fatti che, secondo l’esuberante studioso genovese, motiverebbero un evento così poco chiaro.
Gennaio 1796. Napoleone piomba a Nizza con un esercito di 38.000 soldati, minacciando di invadere Genova. La sua Parigi è al tracollo economico, dissanguata dalla Rivoluzione. Servono soldi, e il generale corso, che discende da una famiglia di rivoluzionari che avevano lottato affinché la loro isola fosse liberata dalla dominazione di Genova, ha ben chiaro in quale modo recuperarli. Dal 1768, con il Trattato di Versailles, la Corsica è finita praticamente nelle mani della Francia, da tempo alleata con i genovesi i contro i rivoltosi corsi. In base al trattato l’isola è passata ai francesi a “momentanea” garanzia del debito contratto da Genova nei loro confronti in cambio di tutti gli aiuti militari prestati. In pratica, così, Genova ha rinunciato comunque alla Corsica, concedendola ai francesi invece che ai corsi! A questo debito (che ammonta a quattro milioni di lire), infatti, negli anni seguenti Genova non è riuscita a far fronte in alcun modo.
Napoleone, quindi, nel ’96 si appresta a ricattare gli odiati ex dominatori: se Genova non vuol essere attaccata dal suo esercito sborsi subito trenta milioni (ufficialmente sottoforma di “prestito”). E’ una tecnica che funziona in molte zone d’Italia: il Piemonte, ad esempio, accetta di pagare, così come lo Stato pontificio. Ma Genova ha una tradizione da rispettare. Genova è la Superba. Così il Minor Consiglio rifiuta sdegnosamente, proclamando (al pari di Venezia) la propria neutralità. Napoleone fa una seconda offerta, disposto ad accontentarsi di molto meno, e questa volta l’accordo si fa: Genova accetta di versare sei milioni.
I quattro del debito (la cui richiesta dimostra che Napoleone non riconosce lo “scambio” tra la sua patria e la cifra sborsata dalla Superba nel ’68), più altri due.
Ma del generale Bonaparte – passato in un sol giorno dal grado di capitano a quello di generale proprio perché, secondo il Giunciuglio, ritenuto particolarmente indicato in virtù delle sue origini, a trattare ferocemente la ricca e odiatissima Genova – non c’è da fidarsi. Napoleone, infatti, attaccherà comunque, indiscriminatamente, conquistando sia i territori che hanno accettato di pagare, sia quelli che si sono rifiutati di farlo. Il 31 marzo è il giorno del famoso Proclama di Nizza, rivolto proprio ai suoi soldati: “Siete nudi e mal nutriti. Il governo ha con voi molti obblighi e nulla può fare per voi. La pazienza, il valore mostrato fra queste montagne sono mirabili, ma non vi procacciano gloria, né illustrano il vostro nome. Io vi condurrò nelle più fertili pianure del mondo; città grandi, doviziose province, verranno colà, in vostra mano; colà troverete onore, gloria, ricchezze …“.
Così l’aggressione ha inizio. Le truppe francesi arrivano fino a Savona, e tutto ciò che trovano viene depredato. “C’est L’argent qui fait la guerre“, sostiene il generale, che guida i suoi uomini all’assalto della Penisola italica.
Dietro a questa figura, però, Giunciuglio ne intravede un’altra, molto più potente, di cui i libri di Storia spesso si dimenticano.
Si tratta di Antoine de Saliceti, corso e antigenovese anche lui.
E’ Gran Maestro della Loggia massonica di Bastia, il Saliceti. Una loggia che ha fondato lui. E secondo il nostro “storico non allineato” la massoneria, in questa come in molte altre “storie” dell’epoca moderna, gioca un ruolo fondamentale.
In contatto con Robespierre (soprattutto col fratello Augustine), Saliceti ha partecipato alla Presa della Bastiglia ed all’Assemblea degli Stati Generali di Versailles, poi è tornato in Corsica, investito della carica di Procuratore del popolo, con il preciso compito di convincere i suoi compatrioti ad appoggiare una dominazione francese contro Genova. E’ lui l’autore, infatti, di un Decreto che ha trasformato i locatari corsi in effettivi proprietari, riuscendo così a liberarli dal peso delle pigioni da pagare a Luigi XV. Nel 1791 è stato nominato da Saint-Just Commissario del Popolo per l’Italia, con il compito di preparare l’invasione della nostra Penisola. In questa veste è stato proprio lui ad esercitare pressioni su Robespierre affinché nominasse generale il venticinquenne capitano Bonaparte, durante la Battaglia di Tolone. Quando Robespierre è stato ghigliottinato, a salvare Saliceti – accusato di esser stato uno degli uomini più vicini all’artefice del Terrore – si è prodigato proprio Napoleone. In seguito ha organizzato le sollevazioni popolari nell’Italia del Nord, realizzando materialmente i presupposti per la creazione della Repubblica Cisalpina. Si è insediato nella Prefettura di Milano e da lì, secondo Giunciuglio, muove i fili di tutte le logge massoniche italiane.
Dopo aver ottenuto trenta milioni dal Papato, venti da Milano, dieci da Modena quattro da Bologna e Ferrara e due da Parma (soldi sborsati per evitare un’aggressione poi sistematicamente verificatasi), l’idea di saccheggiare anche Genova per risanare i conti francesi è ancora sua.
Saliceti ha in mente il Banco di San Giorgio, la più antica banca europea. Quando Napoleone occupa Genova si affretta a firmare con lui la Convezione che sancisce la nascita della Repubblica ligure. E’ il 6 giugno 1797, il giorno del definitivo atto di morte dell’antichissima Repubblica di Genova. Poi dà inizio ad una subdola propaganda che, dalle pagine della Gazzetta cittadina, tende a screditare i Quattro Protettori dell’Istituto bancario. Tra i vari titolari dei depositi del Banco comincia a diffondersi l’ansia di perdere tutto, a causa di quella che viene fatta passare per una cattiva gestione dei loro risparmi.
Infine il colpo mortale: un Decreto che sancisce il passaggio di tutti i fondi del Banco da Genova a Parigi. Perché il nuovo centro del Potere, ormai, si trova là.
Nonostante il decreto, le cose van fatte senza dar troppo nell’occhio, per non rischiare di suscitare lo sdegno dei genovesi. Così il Giunciuglio ci racconta di lunghe settimane di trasferimenti notturni di soldi e di registri, pieni zeppi di nomi di tutti i clienti dell’antichissimo e ricchissimo Banco, per tutto il 1804. “… tutte le settimane partivano carri militari pieni di pesanti bauli e di “Cartulari” dell’istituto che comprendevano gli schedari di tutti i ricchi clienti europei, trasferiti alla neonata banca di Napoleone a Parigi“, naturalmente la Banca di Francia, nata per l’occasione nel 1800 e letteralmente riempita con i soldi dei depositi del Banco genovese. Il tutto con il beneplacito dei titolari di conto residenti in tutta Europa, per i quali, tutto sommato, non cambia nulla che i loro soldi siano disponibili a Genova o a Parigi, ma che apprezzano quella che ritengono essere una maggiore affidabilità dell’Istituto francese. Così svaniscono nel nulla migliaia di lingotti d’oro, della cui vendita, in cambio di valuta preziosa, viene incaricato James Rothschild, il più potente rampollo della famiglia di banchieri tedeschi il cui capostipite Amschel Mayer, nel giro dei cinquant’anni precedenti, ha sparso le sedi dei suoi Istituti di credito nelle grandi capitali europee, assegnandole ai suoi cinque figli (Mayer, nella seconda metà del Settecento, aveva compreso che erogare prestiti ai Re fosse molto più vantaggioso e sicuro che ai privati cittadini; si poteva infatti contare su una garanzia solidissima: le imposte sui sudditi). Il loro stesso cognome fa riflettere. Risale al XVI secolo, e deriva dal nome dell’insegna a forma di stella posta sull’abitazione a Francoforte (nella Judengasse, la Via dei giudei), di un loro antico antenato, l’ebreo Isaac Elchanan. L’insegna recitava: “Allo scudo rosso”. Un’allusione fin troppo chiara all’equipaggiamento con cui – secondo la tradizione ebraica – Davide combatté contro Golia.
Uno scudo rosso, formato da due triangoli di metallo incrociati in modo da delineare una stella a sei punte.
In questa nostra storia, dunque, l’elemento ebraico ritorna continuamente.
Così come la famiglia stessa dei Rothschild – di cui ci ritroveremo a parlare anche a proposito di molti altri argomenti ed a cui abbiamo riservato uno spazio apposito rintracciabile nell’Indice – che diverrà la dinastia più potente e ricca del mondo. Inutile dirlo, James Rothschild, grazie ai lingotti genovesi, moltiplicherà a dismisura la sua ricchezza e il suo potere. Nel 1816 tutti i cinque fratelli verranno nobilitati, poi, nel 1822, saranno nominati Baroni dell’Impero Austriaco.
A tutt’oggi i loro discendenti gestiscono le sorti dell’intera economia planetaria.
Ma torniamo ai fatti. Uno dei complici più importanti di questo “furto” colossale nei confronti del Banco di San Giorgio è l’appena nominato Direttore dell’Istituto stesso, il giacobino Luigi Corvetto, colui che materialmente ha destituito i quattro anziani Protettori (di cui non si sa più nulla), sovrintendendo poi al trasferimento dei fondi a Parigi fino al 28 dicembre 1804, quando il Doge Gerolamo Durazzo (un semplice fantoccio filo-francese), decreta il fallimento e la conseguente chiusura dell’antichissimo Banco.
Il 26 maggio 1805 Napoleone è incoronato Re d’Italia. A Genova il Doge lascia il posto a un Prefetto francese. Lo zelante Corvetto fa carriera. L’ex Direttore dell’ex Banco viene chiamato a Parigi, nominato Conte dell’Impero e Consigliere di Stato di Bonaparte. Di fatto amministra occultamente (per non dare troppo nell’occhio dei genovesi, che lo ritengono un benefattore che ha tentato con ogni mezzo di salvare il loro antico Istituto di credito), la neonata Banca di Francia. Gli effetti della propaganda a suo favore, che il Saliceti era stato in grado di costruire negli anni del saccheggio del Banco di San Giorgio, non accennano a diminuire. A Genova tutti continuano a credere di aver perso un grande statista, un importante economista. Giunciuglio ironizza pesantemente sul fatto che i suoi concittadini abbiano dedicato una delle piazze più importanti della loro città all’uomo che in realtà aveva contribuito a portarle via un tesoro favoloso, che lo studioso ipotizza di circa 4500 milioni di lire.
Per Giunciuglio non è un caso che, subito dopo, Parigi si trasformi in un cantiere. Vengano costruite sessanta nuove strade e sontuosi palazzi. La popolazione cresce del cinquanta per cento in dieci anni (e qui lo storico genovese esagera, ma non di molto: dal 1801 al 1817 la popolazione passa effettivamente da 546 mila a circa 714 mila abitanti. L’aumento è senza dubbio di notevole portata).
I soldi dell’antichissimo Banco di San Giorgio per rendere bella la capitale dell’Impero!
Ma se Parigi cresce, Genova è ormai in piena decadenza. Aumentano miseria e malcontento, mentre migliaia di giovani vengono reclutati anche lì per partecipare alle varie guerra napoleoniche. Nel 1812 gli italiani finiti nell’armata sconfitta in Russia sono almeno quarantamila. Diverse migliaia sono di Genova.
Così, secondo il Giunciuglio, il mito di Colombo può nuovamente tornare utile a fini propagandistici, per fagocitare il popolo e indurlo a pensare, ancora una volta, ciò che i potenti vogliono che pensi. Il giacobino e collaborazionista Marchese Gerolamo Serra, uno dei tanti ad aver fatto carriera per il suo appoggio a Napoleone, dall’alto della sua nuova carica di Presidente dell’Accademia Linguistica e di Rettore dell’Università genovese, ha una brillante idea.
Identificare, come per magia, la casa natia di Colombo e dirottare così l’ostilità covata dai genovesi nei confronti del Prefetto Maire, indirizzandola invece verso i tanti Dogi della Superba. Dogi nuovamente colpevoli di aver nascosto nei secoli la dimora dell’eroe alla sua gente per non dover ammettere pubblicamente di non averlo mai appoggiato e di non aver accolto, nel 1502, quella sua generosa proposta che avrebbe finalmente liberato dal pagamento di tante odiose tasse il suo amato popolo.
NOTE
[1] Si veda in proposito Angélica Valentinetti Mendi Causa per il Maggiorasco di Cristoforo Colombo; domande di Baldassarre Colombo di Cuccaro e testimonianze raccolte in Monferrato e in Spagna, in Atti del II Congresso Internazionale Colombiano, CE.S.CO.M., Torino, 2006
Cfr, anche il bel sito del Museo Cristoforo Colombo di Cuccaro.
[2] Tale tesi si basa soprattutto sul De navigatione Columbi per inaccessum antea Oceanum commentariolum, un testo scritto da Antonio Gallo – il primo biografo di Colombo – all’inizio del Cinquecento. Ma il Brio fa notare come Gallo fosse uno degli artefici della cacciata dei Paleologi (come abbiamo visto imparentati con la nobile famiglia dei Colombo) e del conseguente ritorno del Doge a Genova. Come vedremo più avanti, poi, anche lo studioso V. Giunciuglio tratta con molto sospetto questo testo, seppur per altri motivi, legati ad una fantomatica Lettera di Colombo, di cui parleremo nel paragrafo 4 di questa pagina. I sospetti del Brio valgono anche per quanto scritto dal vescovo Agostino (Pantaleone) Giustiniani, sostenitore del Doge, nel suo Salterium (1516) e nei suoi Annali di Genova (1537). Il Giustiniani, infatti, ribadì e rafforzò la tesi del Gallo, ma per questo si beccò una denuncia per falso e calunnia da Fernando Colombo in persona, il secondogenito del navigatore! A detta dello stesso Fernando egli venne quindi condannato dal Tribunale di Genova, che gli impose di ritirare tutte le copie degli Annali in circolazione.
Non era questa l’unica causa “eccellente” vinta da un figlio del Navigatore, d’altra parte. Ben più scalpore aveva fatto la querela dello stesso Cristoforo addirittura nei confronti dei Re cattolicissimi in persona, rei di avergli sottratto la carica di Vicerè. Tale processo si era protratto ben oltre la morte dell’Ammiraglio e si era concluso con la restituzione del titolo (per altro non ulteriormente trasferibile a discendenti), proprio al figlio Diego.
[3] Cfr. per tutto questo Pier Costanzo Brio, Cristoforo Colombo, la nascita. Verità storica e leggenda purista o, dello stesso autore, il divertente Le balle di Colombo
[4] Va a tal proposito ricordato come Lorenzo fosse in stretti rapporti, dati i suoi interessi nelle banche fiorentine di proprietà della famiglia de Medici, con i ricchi ebrei del tempo, da secoli dediti proprio a questo tipo di attività.
[5] “…siamo informati che sussiste un grave pericolo per i cristiani a causa dell’attività, della conversazione e della comunicazione che mantengono con gli ebrei. [Gli ebrei infatti] dimostrano di essere sempre all’opera per sovvertire e sottrarre i cristiani alla nostra santa fede cattolica, per attirarli con ogni mezzo e pervertirli al loro credo, istruendoli nelle cerimonie e nell’osservanza della loro legge […] Pertanto ordiniamo che quanto da noi stabilito sia fatto conoscere, e cioè che tutti gli ebrei e le ebree che vivono e risiedono nei nostri suddetti regni e signorie, a prescindere dallo loro età […], entro la fine di luglio lascino i nostri regni e signorie insieme con i loro figli […] e non osino mai più farvi ritorno.”
[6] A pag. 26 del libro citato ricorda infatti il Giunciuglio: “Nel 1290, l’intrepido capitano [Lanzarotto Malocello] tornò nella sua città e si presentò nella chiesa di Santa Fede (di fronte a porta Sottana), tempio dei cavalieri dell’Ordine, dove spiegò ai maggiorenti la possibilità di raggiungere l’India partendo dalle Canarie fondandovi colonie commerciali. La proposta entusiasmò il ricco Ordine templare, che la finanziò noleggiando due grosse navi. Capo della spedizione fu Tedisio Doria (presunto maestro dell’Ordine) con altri templari. Furono imbarcati due frati francescani con la benedizione del pontefice. Le navi furono affidate ai fratelli templari Vadino e Ugolino Vivaldi.” L’intrepido capitano Malocello di cui si parla è colui che, negli anni Trenta del ‘300, guiderà una spedizione genovese il cui esito sarà la “riscoperta” delle Canarie, già conosciute dai Fenici e citate da Plinio il Vecchio ma poi “dimenticate”. La circostanza raccontata dal Giunciuglio, poi, si riferisce ad una Cronaca del Duecento di Jacopo Doria, il quale per altro ricorda che di quella flotta non si ebbe mai più alcuna notizia.
[7] Cfr. U. Bartocci, Una rotta templare all’origine del mondo moderno, Della Lisca, Milano, 2006
[8] Su questo punto, però, si veda anche l’ipotesi del Bartocci, che nell’opera sopra citata avanza l’idea di un Colombo figlio adottivo nato dall’unione tra Bartolomeo Perestrelo (o forse un componente della famiglia dei Pellegrino, imparentata coi Perestrelo, come si evincerebbe da diversi atti degli anni ’70 stipulati a Genova, in cui si parla proprio di due fratelli Cristoforo e Giovanni Pellegrino, figli della moglie, i quali andrebbero a sommarsi agli effettivi figli di Domenico), e la popolana Susanna Fontanarossa. In questo caso Domenico Colombo sarebbe stato solo il patrigno di Cristoforo ed avrebbe sposato Susanna successivamente.
[9] Cfr. U. Bartocci, Una rotta templare all’origine del mondo moderno, capitoli XI e XII, nel corso dei quali, anche avvalendosi di un passo dei Quodlibeta di Raimondo Lullo (1233-1315) – passo che teorizzava l’esistenza di un Nuovo Continente sulle cui sponde la marea dell’Oceano Atlantico si sarebbe appoggiata nel suo flusso e riflusso – lo studioso dimostra come il calcolo della distanza tra Cina e Spagna non fosse poi così difficile da effettuare al tempo di Colombo. Quanto al passo in questione del Lullo, così recita: “La principale causa del flusso e del riflusso del Mar Grande o del Mar d’Inghilterra è l’arco dell’acqua del mare che a ponente confina in una terra opposta alle coste dell’Inghilterra, Francia, Spagna e di tutta la confinante Africa, nella quale gli occhi nostri vedono il flusso e riflusso delle acque perché l’arco che forma l’acqua come corpo sferico è naturale che abbia confini opposti su cui posare, poiché altrimenti non potrebbe sostenersi. Per conseguenza, così come in questa parte appoggia sul nostro continente, che vediamo e conosciamo, nella parte opposta di ponente appoggia sull’altro continente che non vediamo e non conosciamo fino ad oggi; però per mezzo della vera filosofia, che riconosce ed osserva mediante i sensi la sfericità dell’acqua ed il conseguente flusso e riflusso, il quale necessariamente esige due sponde opposte che contengano l’acqua tanto movimentata e siano i piedistalli del suo arco, si inferisce logicamente che nella parte occidentale esiste un continente nel quale l’acqua mossa va ad urtare così come rispettivamente urta nella nostra parte orientale“.
[10] I Papi, all’epoca, concedevano le terre d’Occidente in usucapione ai sovrani a loro piacimento, in virtù di quella famosa Donazione di Costantino la cui falsità era stata, sì, già dimostrata nel 1440 da Lorenzo Valla, ma era, di fatto, ancora del tutto sconosciuta dato che gli studi del grande filologo rinascimentale non erano stati diffusi a causa della censura della Chiesa del tempo. Tale smascheramento sarebbe stato infatti reso pubblico per la prima volta soltanto nel 1517, con il favore (e nell’ambito) della Riforma Protestante. Va sottolineato che proprio a tale Donazione si richiamava espressamente la famosa bolla Inter Coetera del 1493, tramite cui Alessandro VI aveva concesso tutte le terre scoperte alla Spagna
Fonte: srs di Pietro Ratto visto su INCOTROSTORIA
Link: http://www.incontrostoria.it/Colombo2.htm