Giu 13 2015

STORIA VENETA – 44: 1310 – LA CONGIURA DI BAJAMONTE TIEPOlO. DIRETTA CONTRO IL DOGE FALLI’ MISERAMENTE

Category: Storia di Venezia e del Venetogiorgio @ 00:56

 

Dal testo di Francesco Zanotto

  

“Giunti i congiurati nel campo di S. Salvatore si divisero in due schiere. La prima, comandata da Marco Quirini, si volse a destra, e per la calle dei Fabbri, giunse sulla piazza maggiore di S. Marco. L’altra, guidata da Boemondo Tiepolo, al suono delle trombe commisto alle grida che intuonavano con orrido suono: Morte al doge Pier Gradenigo, avviavasi alla piazza medesima, per unirsi alla prima schiera ora detta. Se non che le genti accorse altre sui tetti ed altre sulle finestre, argomentando dalla vista di quegli armati, dal tumulto e da quelle voci di eccidio essere giunto l’estremo dì per la patria alcune gittarono in basso pietre … ”  

 

ANNO 1310

 

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Giuseppe Gatteri

  

Cosa ci racconta il disegno di Gatteri. 

 

Sullo sfondo dei contrasti con le altre potenze continentali il vertice della repubblica viene coinvolto in un tentativo di colpo di stato. Ma i congiurati che intendevano azzerare il direttivo dello Stato non avevano fatto i conti con l’onnipresente rete di spie che permetteva a tutti di sapere tutto. Così il tentativo fallisce anche grazie all’ostilità di non pochi veneziani, stanchi di congiure …

(Nella illustrazione di Giuseppe Gatteri le milizie di Bajamonte vengono ostacolate dai cittadini che gettano mobili e pietre)

  

LA SCHEDA STORICA – 44

 

 

Il nuovo secolo, il XIV, si apriva a Venezia con aspri e violenti tumulti a seguito della catastrofica sconfitta dei Veneziani a Curzola da parte dei Genovesi nel 1298, rovescio militare che fomentò il malcontento popolare presto represso dalla milizia ducale.

Altre ragioni, altre segrete aspirazioni sembravano tuttavia agitare almeno una parte della società veneziana in quei cupi, primi anni del secolo e nelle speranze personali di qualcuno questo significava “Signoria” della città. Ma veniamo agli antefatti.

Nel 1308 moriva a Ferrara il marchese Azzo d’Este aprendo una grave crisi dinastica e di successione. Scavalcando i due fratelli infatti, il marchese aveva dichiarato quale suo legittimo erede il nipote Folco, figlio di un figlio naturale dello stesso Azzo. All’immediata violenta reazione dei due fratelli esclusi, il padre di Folco chiese aiuto ai Veneziani che occuparono prontamente con un contingente militare la città. Ferrara rappresentava infatti per Venezia una base strategica sul fiume Po e già nel IX secolo la città era stata oggetto, non a caso, delle mire espansionistiche del ducato veneziano.

In cambio del celere aiuto il padre di Folco riconosceva e cedeva ai veneti i diritti sulla stessa città dopo essersi accorto tuttavia, di quello che la sua decisione aveva scatenato e di come le cose si stavano di conseguenza mettendo. E le cose infatti, non volgevano certo per il meglio.

Il Papa Clemente V, benchè ad Avignone, avuta notizia della mossa militare di Venezia e della rivendicazione dei neo-diritti sulla città ferrarese, rispolverò gli antichi diritti che la Chiesa aveva su Ferrara da tempi immemorabili.

Falliti i tentativi diplomatici a causa specialmente del netto rifiuto del doge Pietro Gradenigo di rinunciare ad ogni rivendicazione, la spinosa faccenda finì al Consiglio Maggiore. Qui, ben presto, si scontrarono due opposte posizioni: quella dei filo-ducali, pronti a resistere a qualunque costo, contrapposta invece a quella più moderata e saggia di un’altra parte del Consiglio capeggiata da Jacopo Querini, esponente di un largo fronte popolare di tendenza guelfa e filo-papale, dove rientrava anche Bajamonte Tiepolo. Prevalse infine la linea intransigente del doge Gradenigo e della sua parte (Dandolo) procedendo alla nomina di un Podestà veneziano di Ferrara.

A questo ulteriore atto di forza, il Papa rispose il 27 marzo con una solenne scomunica dell’intera città. Come se non bastasse, dopo la scomunica, arrivarono anche le armi. Le truppe pontificie presero d’assedio infatti, il contingente veneziano arroccato in Castel Tedaldo che più che dai soldati papali, venne alla fine falcidiato da una tremenda epidemia di peste che costrinse i soldati ad una umiliante resa.

Giunta a Venezia la notizia, il doge Gradenigo divenne l’uomo più odiato dai Veneziani. Era il clima giusto per organizzare una congiura che avrebbe visto sicuramente, almeno nelle previsioni dei cospiratori, una generale sollevazione popolare contro il doge.

Il capo della congiura, Marco Querini, venne persuaso ad appoggiarsi a colui che resta ancora oggi uno dei personaggi più misteriosi ed al tempo stesso affascinanti della storia veneziana: Bajamonte Tiepolo. Pronipote di Boemondo di Brienne, capo di un piccolo stato-crociato bosniaco e nipote del doge Lorenzo Tiepolo, Bajamonte, per quanto è dato sapere, ebbe una vita ed una personalità tutt’altro che tranquille e concilianti, ma certamente originali e carismatiche se la gente comune lo chiamava “il gran cavaliere”.

L’insurrezione doveva scoppiare il 15 giugno del 1310. I congiurati si erano divisi in tre gruppi che dalle case dei Querini dovevano poi portarsi attraverso percorsi diversi, in Piazza S. Marco. La mattina stabilita pioveva a dirotto e sulla città infuriava un violento temporale. A complicare ulteriormente e definitivamente le cose tuttavia, non fu tanto la violenza degli elementi, quanto il fatto che della congiura il doge era stato per tempo messo al corrente.

E così Pietro Gradenigo aveva avuto tutto il tempo per chiedere i rinforzi ai Podestà di Chioggia, Murano e Torcello, mentre faceva nel contempo ammassare tutte le sue truppe in Palazzo Ducale. Quando il primo gruppo di rivoltosi guidato dal Querini sbucò in Piazza finì dunque dritto dritto in bocca alle milizie ducali che lo uccisero insieme al figlio.

Intanto Bajamonte galoppava con il suo gruppo, il secondo, lungo le Mercerie quando presso la chiesa di S. Zulian, improvvisamente, decise di fermarsi. Aveva forse avuta notizia di quanto era accaduto al Querini? Forse, ma quel ritardo gli impedì eventualmente di soccorrerlo. Le milizie ducali piombarono così anche su Bajamonte e sui suoi uomini proprio all’imbocco della Piazza dove oggi si trova la famosa torre dell’orologio. E fu proprio nell’infuriare dello scontro che accadde allora un fatto tragico ma anche curioso che pose fine all’estremo tentativo di Bajamonte.

Una vecchia donna, certa Giustina o Lucia Rossi, affacciatasi al balcone della sua casa udendo il gran fracasso che saliva dalla strada, fece precipitare dal balcone – volontariamente? casualmente? non è dato saperlo -, un pesante mortaio di pietra.

Il pesante attrezzo cadde sull’alfiere-portabandiera dei congiurati che di fronte alla sciagura – era forse stato un segno del cielo? – ed ormai in evidente difficoltà, si diedero alla fuga attraverso il Ponte di Rialto che in parte distrussero per coprirsi le spalle.

Con loro, anche Bajamonte che venne catturato e successivamente condannato ad un esilio di quattro anni. Il suo sogno di instaurare anche a Venezia una Signoria sul modello di numerose altre città del nord Italia, era miseramente fallito, vuoi per il tradimento del piano, ma anche, e specialmente, per il mancato seguito ed appoggio popolari su cui i congiurati contavano per la riuscita.

E così le case dei Querini e quelle di Bajamonte vennero fatte radere al suolo e sull’area occupata da quella dello stesso Bajamonte, venne innalzata una colonna in segno d’infamia oggi al Museo Correr, con una scritta ammonitoria: “Di Bajamonte fo (fu) questo tereno-E mo (ora) per lo so (suo) iniquo tradimento- S’è posto in chomun per l’altrui spavento – E per mostrar a tutti (di avere) sempre seno (senno, giudizio)”.

 

 

 

Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA, volume 2, SCRIPTA EDIZIONI

Link: http://www.storiavicentina.it

 

 

 

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