Il paleontologo Luciano Vanzo: alle spalle alcuni dei reperti che ha portato alla luce
Ufficializzata la nuova, sorprendente scoperta fatta dal paleontologo dilettante Luciano Vanzo sul monte Serea.
Crostacei fossili nella laguna di pietra. I reperti risalgono a 60 milioni di anni fa, quando la Val d’Alpone era coperta dalle acque calde, poco profonde e agitate del mare
Ha dato il suo nome alla più antica forma di «Homola», un crostaceo vissuto 60 milioni di anni fa: lui si chiama Luciano Vanzo, e in suo onore il fossile dell’Eocene inferiore ritrovato sul monte Serea, a San Giovanni Ilarione, è stato chiamato «Homola vanzoi». La scoperta di un nuovo «giacimento» di crostacei fossili è dell’estate 2008, ma solo ora il mondo scientifico, alla fine di un complesso studio, l’ha certificato. Ed è eccezionale: si tratta infatti di una nuova «laguna pietrificata», che promette nuove emozionanti scoperte.
«Conosco le rocce, e ho ipotizzato che all’interno di quelle del monte Serea potesse esserci qualcosa di interessante. Ho approfittato dei lavori di sbancamento, che i fratelli Massimo ed Eugenio Bevilacqua effettuarono sui loro terreni per approntare un vigneto, per andare ad osservare. Era l’estate del 2008, e misi da parte le pietre che mi sembravano poter raccontare qualcosa. Ne diedi subito notizia alla Soprintendenza e all’amico Roberto Zorzin, direttore della sezione Geologia e Paleontologia del Museo di storia naturale di Verona: poco dopo la Soprintendenza acquisì il materiale, 121 pezzi, custoditi al Museo, e iniziò il suo studio».
E’ un dilettante, ma non è certo un appassionato dell’ultima ora Luciano Vanzo: i suoi 78 anni sono scritti, per gli ultimi 40, dalla passione per la paleontologia.
Sono del 1968 i primi articoli che L’Arena gli dedicò per via delle sue ricerche a monte Lungo di Lavagno: all’epoca la sua collezione contava 600 pezzi. Impossibile stimare di quanto, nel frattempo, sia cresciuta. Grazie alla sua passione, nel 2000 ha scoperto quella che volgarmente è stata conosciuta come «aragostina», cioè il crostaceo ribattezzato, in suo onore, «Penaeus vanzii». E di crostacei anche stavolta si tratta: «Da quelle rocce sono saltati fuori echinodermi, nautilus, crostacei, bivalvi, gasteropodi, foraminiferi e squame di pesci. Proprio qui, del resto, 10 anni fa trovai una bella coppia di nautiloidi che da allora è all’università di Padova».
E la sua ultima scoperta? «Sul monte Serea, grazie a quei frammenti messi da parte, sono state censite venti specie, e tra i crostacei tre sono inedite. Sono state ribattezzate con l’aggiunta di un appellativo che ne racconta la storia: ecco perché Homola vanzoi, Typilobus alponensis e Ctenocheles sereaensis, tre nuove specie che confermano l’esistenza di un giacimento eocenico che poggia sopra il mare di 60 milioni di anni fa».
Dal punto di vista scientifico il rilievo della scoperta è quello che gli addetti ai lavori, nonché i curatori dello studio sul materiale segnalato da Vanzo, scrivono sul Bollettino del museo scaligero: «L’individuazione del nuovo sito non solo amplia in senso stratigrafico la documentazione dei crostacei eocenici nei Monti Lessini Veronesi, ma la estende anche geograficamente ad Oriente, verso il territorio vicentino. Questa recente scoperta», scrivono a tre mani Zorzin, il presidente dell’Associazione Amici del museo «Zannato» di Montecchio Maggiore, Claudio Beschin, e Antonio De Angeli, della stessa associazione, «potrebbe risultare molto utile per una aggiornata ricostruzione paleografica della Valle d’Alpone, Bolca compresa». Ma non solo, perché le caratteristiche delle tre nuove specie racconterebbero che «l’ambiente in cui questi crostacei vivevano doveva essere caratterizzato da acque poco profonde, calde ed agitate».
Tornando all’«Homola vanzoi», è la prima volta che si scopre un esemplare di questa specie sul territorio italiano: «Ne è stato ritrovato uno a Vancouver, in Canada, ma quello, oltre tutto, è più giovane di 5 milioni di anni», spiega Vanzo.
E’ l’uomo delle scoperte, vien da dire, anche perché fu lui, 38 anni fa, a ritrovare nella roccia, a Bolca, il fossile del Phillum noeticum, cioè i tralci d’uva selvatica datati 50 milioni di anni. E a fine anni ’80, durante un viaggio in Brasile a caccia di reperti, scoprì gli insetti fossili del Cearà, custoditi al Dipartimento di Paleontologia dell’Università di San Paolo.
Al Museo di Storia naturale di Milano e al Museo di Archeologia «Zannato» di Montecchio ci sono i crostacei dell’Oligocene inferiore che Vanzo ha trovato nel vicentino negli anni ’90.
Del museo berico, del resto, Vanzo è collaboratore. «Non a caso», conclude, «lo studio è stato svolto da tutte e tre le istituzioni.
A loro, ma anche a Paolo Mietto dell’Università di Padova e ad Alessandro Garassino, dell’Università di Milano, va il mio ringraziamento… e ai fratelli Bevilacqua, che mi hanno sopportato».
Fonte: srs di Paola Dalli, Cani da L’Arena di Verona di Martedì 12 Gennaio 2010; PROVINCIA, pagina 23
LE AREE DI VALORE VANNO SORVEGLIATE E TUTELATE COME AVVIENE IN TRENTINO
I fossili di Bolca sono un grande tesoro da salvaguardare
L’appello al ministro dei Beni culturali Sandro Bondi: «Si delimitino le aree considerate di valore paleontologico, si sorveglino e si tutelino da scavi o espropri che potrebbero privare la scienza di materiale prezioso e si consenta a ricercatori pubblici e privati, su tutto il territorio rimanente, la possibilità di procurarsi materiale».
Luciano Vanzo questa richiesta ce l’ha nel cassetto da anni, ma questa volta, se trovasse la via giusta, vorrebbe farla arrivare al ministro. L’argomento è quanto di più caro hanno i paleontologi dilettanti, e cioè l’esigenza di una legislazione più moderna a disciplina della ricerca e detenzione dei fossili.
«La legge di riferimento è la 1089 del 1939, legge che rispecchia fedelmente l’ottica e la situazione di quel periodo. La tutela del patrimonio paleontologico, però», osserva Vanzo, «ha validità solo se è reale e non solo legislativa o se il vero obiettivo è preservare dalla distruzione reperti che potrebbero essere preziosi per la scienza e l’interesse pubblico».
Così, però, secondo Vanzo non è dal momento che «non si possono tutelare efficientemente 300 mila chilometri quadrati di territorio nazionale (anche chi è deputato alla tutela del patrimonio paleontologico può intervenire solo saltuariamente e con risultati limitati); molti fossili tra i più comuni rischiano di essere distrutti dalle intemperie se nessuno si fa carico di raccoglierli; la dinamica di intervento sul territorio (dalle cave agli sbancamenti per lavori edili e stradali) distrugge e fa finire in discarica una grande quantità di fossili. Questi ultimi, peraltro, nella stragrande maggioranza dei casi sono reperti di modestissima validità e solo pochissimi sono di interesse scientifico».
Di qui la proposta, che non è altro che l’estensione all’intero territorio nazionale di ciò che sull’argomento, vige in Trentino Alto Adige: «In questo modo», conclude Vanzo, «si potrebbe evitare che una quantità incredibile di fossili, prima di essere tutelata, venga distrutta da eventi umani o naturali».(P.D.C.)
Fonte: srs di Paola Dalli, Cani da L’Arena di Verona di Martedì 12 Gennaio 2010; PROVINCIA, pagina 23