Chiara Coltri
Aveva quindici anni Chiara Coltri quando capitò l’incidente. Era il 31 ottobre 2003, la sera di Halloween. “Eravamo stati a una festa vicino a Caprino”, racconta, “ed avevamo noleggiato una videocassetta, al ritorno pioveva. Sull’auto, una Renault Clio, stavamo in quattro. Quando siamo finiti fuori strada, rotolando giù da una scarpata, solo io ho subito gravi conseguenze. Il ragazzo che guidava non si è fatto nulla. Una ragazza è rimasta tre mesi in ospedale con le vertebre offese, ma poi se l’è cavata. A me è andata peggio perchè da allora ho perso l’uso delle gambe. Per tirarci fuori chiamarono i Vigili del fuoco. Ho dei ricordi molto annebbiati, qualche flash mentre sono in ambulanza.
All’Ospedale di Borgo Trento la diagnosi fu immediata: sesta vertebra dorsale. L’ intervento chirurgico fu immediato e al risveglio mi trovai in Terapia intensiva, dove sono rimasta cinque giorni. Sedata naturalmente. Vedevo solo i miei genitori, un quarto d’ora al giorno. Poi tornai al reparto di Neurochirurgia e infine a Negrar, per sei mesi di riabilitazione.
Quando è successo l’incidente facevo la terza liceo all’Istituto Seghetti. Non ho nemmeno perso l’anno perché dal mese di gennaio del 2004 i miei fratelli o i miei genitori mi venivano a prendere a mi portavano a scuola al mattino mentre al pomeriggio rientravo a Negrar, dove facevo palestra e rieducazione al pomeriggio e dormivo la sera.
Ce l’ho fatta.
E’ stata la prima battaglia vinta. Finito il liceo, ho preso la patente e mi sono iscritta all’Università di Padova, facoltà di Scienza Politiche. Ora vivo in un appartamento da sola. Prima eravamo in tre, poi le mie compagne si sono laureate e sono rimasta sola.
L’appartamento non ha barriere e riesco a cavarmela.
Com’è cambiata la mia vita? Beh, ho dovuto tirare fuori tutto il coraggio che avevo dentro, una voglia di vivere che nemmeno immaginavo di avere. Prima era una forza spenta. Dopo il trauma si è accesa e ora la sfrutto in tutte le occasioni possibili. Intorno a me vedo tanti ragazzi apatici, anche più giovani di me. Molti non apprezzano, non capiscono il vero valore della vita, delle persone, delle cose.
Prendi lo sport: io prima non facevo nulla. Oggi gioco a basket e sto anche prendendo il brevetto di volo. Quando camminavo, non ci avrei nemmeno pensato.
Giro per le scuole e porto la mia testimonianza con il Galm, parlo ai ragazzi e stanno tutti molto attenti. Spero scatti qualcosa nelle loro teste. In ogni caso è fondamentale mettere a suo agio il nostro prossimo senza aspettare che gli altri lo facciano con noi, persone con disabilità, ma siamo noi a doverlo fare con loro. Perché se io inizio a chiudermi nei miei problemi, loro non riusciranno mai capire che io sono proprio come loro e continueranno a vedermi e sentirmi diversa.
Le cellule staminali? Sono una luce lontana, un lumicino che potrebbe accendere la speranza.
Ma credo non dobbiamo vivere per quello, ma cercare piuttosto di raggiungere un equilibrio accettabile nelle condizioni attuali.
Se poi la scienza porterà guarigioni oggi inimmaginabili, tanto meglio. Per me la ricetta migliore è l’autosufficienza. Bisogna fare tutto da soli.
Ricordo ancora la prima volta, “tranquilla Chiara se cadi ti rialzi“, mi ripetevo.
Ma volevo farcela… Sono stata davvero autonoma quando sono andata a vivere da sola.
Se avessi una bacchetta magica vorrei cambiare la testa di quelli che ci fregano il posto nei parcheggi. E quando ti vedono arrivare con la sedia a rotelle sono pure scocciati. Purtroppo questo è il mondo, la sensibilità non alberga nel cuore di tutti. Ma questo non deve intimorirci perché c’è molta gente che ha bisogno di noi.
Ai ragazzi vorrei dire verificate sempre chi guida. lo non sapevo chi guidava quella notte. Non ci ho pensato su. C’era un breve tratto da percorrere e ricordo che, mentre salivo in macchina, mi sono detta “Cosa vuoi che succeda in un chilometro?“.
Fonte: srs di Danilo Castellarin da L’informatore numero 154 di luglio agosto 2010