di Ignazio Coppola
Tratto da I Nuovi Vespri
Vi siete mai chiesti perché il nostro inno nazionale inizia con la parola “fratelli” ? E, su questo vi siete mai data una risposta? A tal proposito vale bene ricordare che l’inno di Mameli non è mai stato l’inno ufficiale della Repubblica italiana, bensì un inno ufficioso o, per meglio dire “precario” come, del resto, lo è la maggior parte di tutto ciò che avviene in questo nostro Paese. A ben vedere, per quanto infatti diremo, il “precario” e ufficioso inno di Mameli si può definire a buon diritto l’inno che la massoneria impose alle nascente Repubblica italiana nel lontano 1946 in sostituzione della “marcia reale” che aveva caratterizzato il precedente periodo monarco-fascista.
“Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta”: queste infatti sono le prime parole dell’inno di Mameli. Un inno, come si intuisce, di chiara connotazione massonica, musicato da Michele Novaro e scritto nell’autunno del 1847 dal “fratello” Goffredo Mameli (al quale, a riprova della sua appartenenza e devozione ai liberi muratori, sarà poi dedicata a futura memoria una loggia) che, non a caso e da buon “framassone”, lo fa iniziare con la sintomatica e significativa parola “Fratelli”.
Un inno scritto dal “fratello” Goffredo Mameli nel 1848 e riproposto un secolo dopo, il 12 ottobre 1946, da un altro “fratello”, il ministro delle guerra dell’allora governo De Gasperi, il repubblicano Cipriano Facchinetti, da sempre ai vertice della massoneria, con la carica di Primo sorvegliante nel Consiglio dell’Ordine del Grande Oriente d’Italia e affiliato alla loggia “Eugenio Chiesa”.
Fu in quella data dell’ottobre del 1946 che Facchinetti, quale ministro della guerra, impose che l’inno fosse suonato in occasione del giuramento delle Forze Armate. E da quel momento “Fratelli d’Italia” divenne, come lo è tuttora, l’inno ufficioso della Repubblica italiana. Ufficioso e provvisorio, perché mai istituzionalizzato con alcun decreto e ancor di più, perché non contemplato dalla nostra Carta costituzionale come lo è sancita, dall’articolo 12 della stessa Costituzione, l’istituzione del tricolore come bandiera nazionale.
Un inno che rimane, pertanto, per le cose dette, ancora ad oggi, privo di ogni ruolo e di ogni qualsivoglia definizione istituzionale. Da quanto argomentato si può altresì facilmente desumere che l’inno degli italiani fu un inno, nella sua lunga gestazione, fortemente voluto dai massoni che tanta parte, come abbiamo visto, ebbero e continuano, ancora oggi, ad avere nelle vicende che portarono alla mal digerita unità d’Italia.
Fu immediatamente dopo l’unità d’Italia che il Sud si “destò” e si accorse, sulla propria pelle e a proprie spese, di che pasta erano fatti i “fratelli” che erano venuti a “liberarlo”.
Non passò molto tempo, infatti, che siciliani e meridionali si resero conto che i garibaldo-italo-piemontesi non erano affatto i liberatori sperati, ma spietati conquistatori. E che di conquista e di colonizzazione, e non di liberazione del Sud e della Sicilia si trattò, ne è testimonianza quanto avvenne nella seduta parlamentare del 29 maggio 1861, a Palazzo Carignano, quando, ai deputati e ai giornali del Nord, che si ostinavano, avendone la piena convinzione, a sostenere di avere conquistato la Sicilia e il Mezzogiorno, si opponeva il siciliano on. Giuseppe Bruno deputato di Nicosia, il quale, in pieno Parlamento così si ergeva a protestare:
“Si è detto, in alcuni giornali e qui si è ripetuta l’espressione di province meridionali ‘conquistate’ e siccome questa è un’espressione offensiva, non solo, ma ingiusta, permettetemi che come testimonio oculare la respinga risolutamente. Ciò posto, prego gli onorevoli colleghi a non volere ripetere la frase di ‘conquista’ riguardo nostro e conto che dopo queste parole e le spiegazioni da me date sui fatti di Sicilia accetteranno essi senza offesa la mia protesta”.
I piemontesi della protesta dell’on Bruno non ne tennero alcun conto se, negli anni successivi, essendo ben convinti di essere conquistatori e non liberatori, perpetreranno nei confronti delle genti del Sud eccidi e massacri inenarrabili.
Del resto, che di conquista, a tutti gli effetti, si trattò ce ne dà ampia e documentata testimonianza anche Antonio Gramsci nel suo autorevole saggio sul Risorgimento. Con la spedizione dei Mille, infatti, ebbe inizio il lungo processo di conquista e di scientifica colonizzazione del Sud e della Sicilia e la “radunata rivoluzionaria”, come ebbe a definirla lo stesso Gramsci, fu resa possibile dal fatto che Garibaldi s’innestava nella forze statali piemontesi e che la flotta inglese protesse di fatto lo sbarco di Marsala e la presa di Palermo e sterilizzò la flotta borbonica.
Gramsci, di fatto, nella sua lucida analisi non faceva altro che evidenziare come la “gloriosa “ spedizione non fu altro che una grande mistificazione storica. E fu con questa radunata rivoluzionaria, che Gramsci chiama “rivoluzione passiva” o, meglio ancora, “rivoluzione-restaurazione”, che trionfò la logica gattopardiana che tutto avvenne perché nulla cambiasse. Anzi, per cambiare in peggio.
Una rivoluzione-restaurazione che fa dire allo scrittore e uomo politico sardo che, nel suo contesto, il popolo ebbe un ruolo molto marginale, anzi subalterno, così che il risorgimento si caratterizzò, con tutte le sue ineluttabili e deleterie conseguenze, come “conquista regia” e non come movimento popolare, perché appunto mancava al popolo una coscienza nazionale. E in questo vuoto di coscienza nazionale e nella estraneità del popolo al moto unitario fu così possibile ai moderati cavouriani dirigere il processo di unificazione, regolarlo ai propri fini e ai propri interessi, in chiave antimeridionale e a tutela degli interessi del Nord con la creazione di un nuovo Stato che di questi fini e di questi interessi ne fu portatore.
Con la “rivoluzione-restaurazione”, il Piemonte assume una funzione di “dominio” e non di dirigenza reale e democratica di un processo di rinnovamento che in effetti non ci fu. Si passò, nelle regioni meridionali, dall’assolutismo paternalistico borbonico al costituzionalismo repressivo piemontese.
“Dittatura senza egemonia”, opportunamente la definisce ancora Gramsci, che fece pagare al Sud – e alla Sicilia in particolare – sotto tutti i punti di vista, soprattutto in termini economici e repressivi, il prezzo più alto. Del resto, di recente anche di “risorgimento senza popolo”, sulla stessa lunghezza d’onda di Gramsci, parla nel suo interessante saggio Storia e politica Risorgimento- Fascismo e Comunismo il giornalista, scrittore e saggista Paolo Mieli, il quale nel capitolo dedicato al risorgimento, frutto di approfondite ricerche storiche (Ernesto Ragionieri, Gabriele Turi, Fulvio Camarrano, Giorgio Candeloro e altri) perviene alla conclusione di un risorgimento realizzato da una “ èlite”, in cui il popolo non fu per niente protagonista e, proprio perché èlite, riuscì a creare un’area di consenso popolare assai ristretta o quasi nulla.
“Dal 1861 – sostiene Mieli – dunque, il popolo, anziché essere una riserva di consenso, costituì un problema per le èlite che fecero l’Italia, con conseguenze drammatiche nella definizione dei modi di fare e di intendere la politica”.
Mieli, in premessa, prende in esame in particolare l’arco di tempo che va dalla fine del Settecento, all’inizio dell’Ottocento e dai movimenti popolari che li caratterizzarono (sanfedismo e insorgenze) sino all’Unità d’Italia. Arco di tempo in cui vennero poste le basi del risorgimento. Ebbene, saltano fuori alcuni “temi scomodi” delle nostra storia patria che la agiografia ufficiale e i testi scolastici hanno sempre occultato.
Ossia, a differenza di quanto avvenne nelle rivolte Sanfediste e delle Insorgenze, in cui il popolo fu protagonista attivo di quelle lotte e di quelle rivolte, nel risorgimento, al contrario, registriamo la quasi totale assenza di un consenso popolare e di partecipazione attiva alla sua realizzazione. Insomma che il popolo non fu mai un soggetto protagonista, ma in alcuni casi avverso alle lotte e agli ideali del risorgimento è acclarato da avvenimenti incontrovertibili e documentati per quanto diremo, in questo contesto, riferibili a Carlo Pisacane e a Ippolito Nievo.
Carlo Pisacane fortemente impregnato da una ideologia socialisteggiante e libertaria in cui collega l’idea d’indipendenza nazionale alle aspirazioni di riscatto sociale e politico delle masse contadine e per questo propugnatore di un “socialismo utopistico” e libertario, alla fine si troverà, nel giugno del 1857, appena sbarcato a Sapri, assalito e massacrato da quegli stessi contadini e popolani per cui voleva fare la sua personale rivoluzione. E proprio nel suo Saggio sulla rivoluzione, distinguendosi e prendendo le distanze da Garibaldi e dagli altri nei giudizi su casa Savoia, tra l’altro così scriveva:
”La dominazione della Casa Savoia e la dominazione della Casa d’Austria sono precisamente la stessa cosa” e poi ancora “che il regime costituzionale del Piemonte è più nocivo all’Italia di quello che lo sia la tirannia del Borbone”.
In seguito i fatti gli daranno ampiamente ragione. Un uomo giusto e di grandi ideali che si trovò a operare nel posto e in un contesto sbagliato. Appena sbarcato a Sapri, Pisacane e i suoi 300 compagni, buona parte ex detenuti fatti evadere dall’isola di Ponza, furono affrontati, circondati e massacrati, con circa un centinaio di morti, compreso Pisacane, non come era prevedibile dalle guardie regie, ma dai contadini e dalla stessa popolazione locale.
Dell’assenza del popolo nelle lotte risorgimentali e nella stessa spedizione dei Mille, dopo lo sbarco di Marsala avvenuto tra l’indifferenza generale della popolazione, ce ne dà altrettanta buona testimonianza quanto Ippolito Nievo scrive, il 24 giugno del 1860, alla cugina Bice con la quale intrattiene una intensa corrispondenza, a proposito della conquista di Palermo:
“Ti giuro Bice… dentro pareva una città di morti, non altra rivoluzione che, sul tardi, qualche scampanio. E noi soli, ottocento al più sparsi in uno spazio grande quanto Milano, occupati, senz’ordine e senza direzione, alla conquista di una città. Noi correvamo per vicoli e piazze in cerca dei napoletani per farli sloggiare e dei palermitani per far fare loro la rivoluzione. Riuscimmo mediocremente più nell’una che nell’altra cosa. In fin dei conti Palermo rimase nostra di noi soli come si direbbe a Milano”.
Anche qui, secondo quanto riportato da Nievo nella lettera alla cugina, il popolo, come in tanti altri avvenimenti e circostanze, brillò per la sua assenza. Ma ancor di più, immediatamente dopo l’unità d’Italia, un consenso e una partecipazione popolare attiva si ebbero addirittura, soprattutto, nel Mezzogiorno dalla parte opposta a quella del risorgimento che culminò in una sanguinosa guerra civile con le lotte contadine e di liberazione dall’invasione italo-piemontese, contrabbandata, da sempre dalla storiografia ufficiale, come lotta al brigantaggio.
Partigiani e contadini poveri che si batterono per la loro libertà, per le loro terre e per il loro diritto all’esistenza che fece dire, come poi scrisse testualmente Antonio Gramsci su Ordine Nuovo:
“Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.
Questi dunque, anche a parere di Gramsci e di tanti altri scrittori e saggisti che di recente – come Mieli – si pongono l’obiettivo di una serena e imparziale revisione storica, in buona sostanza, i vizi d’origine e le cause di debolezza del nuovo stato italiano e di una mal digerita e mai metabolizzata Unità. Vizi d’origine e debolezze che meritano oggi, più che costose retoriche e trionfalistiche celebrazioni – come spesso è avvenuto nel passato – opportuni e doverosi, per rispetto della verità storica, momenti di riflessione.
Con la conquista del Sud inizia infatti il processo di scientifica rapina e di saccheggio dei beni e delle ricchezze del Mezzogiorno e della Sicilia e degli inenarrabili massacri a cui furono sottoposte le popolazioni dei territori “conquistati”.
Fonte: da I NUOVO VESPERI del 29 gennaio 2017