Cremona la casa di via Volturno al 62
Ho avuto una gran mamma. E che nessuno si sogni di dirmi adesso che la sua è stata più grande della mia. Di Margherita, chiamata Rita, potrei raccontarne tante da riempire più d’un libro, ma tempo e spazio mi consigliano di limitarmi solo a un breve compendio.
Piccola di statura, con le gambe storte, con capelli corvini e ricci di cui ne andava fiera, nonostante avesse un viso dai lineamenti marcati era riuscita a farsi sposare da mio padre che passava per un bell’uomo. In casa erano in sette fratelli: cinque femmine e due maschi. Perdiana, che allegria! Un giorno mi capitò di vederne quattro di queste cinque, parlavano tutte in una volta, e quel che mi stupì, fu che si capissero.
Ancora bambina, dopo la terza elementare aveva inforcato la bici e ogni mattina portava il pane nelle cascine vicine al paese. Era soprannominata la Fornarina(1) e, macinando chilometri e chilometri su strade piene di polvere e fango, portava, oltre al pane, un po’ d’aria fresca nella dura vita dei contadini di allora. In tavola, se il tempo non permetteva, i contadini si accontentavano della polenta.
Al ritorno, andava a dar una mano nella trattoria di famiglia. Mio nonno, oltre a essere fornaio, gestiva, aiutato da moglie, figli e dipendenti, una trattoria che a mezzogiorno dava da mangiare a un centinaio di lavoratori delle filande. Un piatto caldo o panini con il salame oltre al bicchier di vino. Un pasto che poi la gente integrava con qualcos’altro che si portava da casa per non spendere.
Nel Ventinove, il grande freddo aveva fatto scoppiare i vetri dei capannoni mandando in rovina i salumi d’un centinaio di maiali. Li salvò dalla malora Pietro Negroni, il proprietario dell’omonimo salumificio di Cremona, che diede, a debito e a tasso d’interesse zero, tutti i salumi sufficienti a tirare avanti. Un anno veramente catastrofico, oltre alla perdita dei salami, il vino prese i fiori.
La tabaccheria
Nata nel commercio, si sentiva soffocare dalla vita solitaria della campagna. Tanto fece che convinse mio padre, che conduceva una fattoria a San Giovanni in Croce, ad aprire una salumeria a Parma. Ma papà stava a bere e a studiare con gli universitari che volevano che s’iscrivesse a Medicina. In tali condizioni, chiusero bottega dopo un paio d’anni. Nel Quaranta arrivarono a Cremona, e comprarono la tabaccheria sull’angolo di Via Volturno. Fu la nostra fortuna.
Chiacchierona e pettegola, raccontava frottole spergiurando di odiare le bugie. Disprezzava gli scherzi pur facendone di quelli tremendi.
Paventando la miseria, amante del denaro e sparagnina, avrebbe venduto anche quello che non aveva. L’abilità nel vendere e nel darla a bere alla gente le erano ampiamente riconosciute. Mi ha lasciato in eredità, oltre al ricordo dei suoi baci e a qualche soldino, l’abilità di distinguere il signore dal pitocco, l’avaro dal prodigo, e, quel che più vale, la chiaroveggenza di saper prevedere chi ti vuol imbrogliare o chi ti pianterà il chiodo, che in commercio non sono doti da poco.
Alla morte di mio padre, nel Sessantuno, si assunse la responsabilità di mantenere me e mio fratello, di un anno e mezzo più giovane, e di indurci a finire gli studi all’università.
Per evitarci i pericoli della strada oppure di prendere vie sbagliate, ma soprattutto per tenerci sottocchio, invitava spesso a cena i nostri amici. Per l’assenza d’un padre-padrone, la nostra casa era diventata la più ospitale di tutta la città. E non solo. Per l’amore di vederci anche accasati invitava pure alcune ragazze che frequentavano il negozio di tabaccheria o quello di ottica. Naturalmente, la sua scelta cadeva sulle ricche, quelle i cui padri avevano campi oppure floride aziende commerciali. Non si sarebbe mai sognata d’invitare la figlia d’un ortolano o d’un ciabattino. Povere ragazze! Le malcapitate arrivavano a cena con il sorriso e con torte megagalattiche. Finito di sbafare il dolce, io e Vito ci alzavamo da tavola, educatamente prendevamo commiato e andavamo per i fatti nostri.
Il giorno dopo era tutta una lagna: la sentivamo mugugnare:
– O Signur, che fighura! Ma Dio, che fighura!…I ma’ piantà lè con quela povera putela, ma cosa pudiva raccontarle?… Gho propria per fioi du mascalson -. Oppure – Cuma se fa a tratar mal na fiola cusì carina. Ma cosa vulì de più?… O Signur, che vergugna (2)!
Povera mamma! Eppure, dopo qualche giorno le passava il muso e ritornava sulle sue, come se niente fosse. Oh, non è che ci facesse tanta pena. Se le capitava l’occasione, ce le ritornava, e anche con gli interessi. Ah, non mi credete? E allora sentite questa.
Nel Sessantaquattro, avevo ricevuto l’incarico annuale d’insegnare Matematica e Fisica all’istituto Ala Ponzone di Cremona; per festeggiare l’incarico, assieme a un collega organizzammo una cena con due nuove insegnanti neolaureate dello stesso istituto. Per non vederlo piangere, ci dividemmo il compito: io avrei rivolto le mie attenzioni a quella meno bella valutandola la più facile. Usammo la sua auto: più comoda e più ampia della mia Cinquecento.
Arrivò puntualmente alle diciannove davanti al negozio di ottica sull’angolo di Via Bertesi. Era stata una bellissima giornata di metà ottobre. Il tepore calava con il sole e già le vetrine risplendevano delle prime luci. Tutto portava a credere che sarebbe stata una serata magnifica, perfino i passanti per Corso Garibaldi sembravano più allegri.
Il mio amico fermò il suo Maggiolino proprio davanti all’ingresso del negozio e diede un delicato colpo di claxon. Come uscii, mia madre mi passò davanti e rivolse la sua attenzione alle ragazze sedute sui sedili posteriori facendomi la più bella presentazione che io abbia ricevuto.
Scura in viso e a voce alta:
– Chèst chi l’è semper andà a troie (3).
Secondo voi: c’è forse di meglio come inizio di serata?
Cari lettori, scusate la digressione, ma quando parlo di mia madre mi faccio prendere la mano e non la smetto più, mentre il vero scopo del racconto è quello di narrarvi quando mamma di notte gridò all’uomo visto in strada: – T’ho vist (4)!
Abitavamo a Cremona al n° 62 di Via Volturno, nell’appartamento al primo piano, quello che s’affaccia sull’angolo di Via Volturno con Via Garibotti. A quei tempi, le trasmissioni televisive terminavano a mezzanotte; e se mamma non aveva sonno, o s’incantava davanti ai pesciolini dell’acquario o si metteva davanti alla finestra del bagno ad aspettare il nostro rientro. Con le tapparelle abbassate passava ore e ore guardando giù in strada, e chissà quali pensieri le passavano per la testa. Pensava forse al futuro oppure ritornava ai tempi passati, chi lo sa. Raramente la trovavamo nel suo letto.
Durante queste attese, s’accorse che ogni tanto alle due usciva dal cancello della nostra casa un uomo alto che portava un cappello a tesa larga e che non aveva l’aspetto d’un condomino. Si arrestava davanti alla porta e si guardava attorno con l’aria sospetta prima d’incamminarsi. Prestò più attenzione e verificò che le uscite avvenivano di solito al mercoledì e al venerdì.
Con chi se la faceva quel benedetto uomo? Mica andava da una sorella o da una semplice amica. E chi era la donna del condominio che sgarrava?
Eh, la curiosità è come il prurito! Se non ti gratti non ti passa.
Una notte, mentre l’uomo misterioso le passava sotto alla finestra, lei gridò: – T’ho vist!
Lo sconosciuto s’arrestò, si voltò, alzò il capo e la falda del cappello mettendo in luce il viso. Mia madre lo riconobbe. Mamma trattenne il fiato e si ritirò di quel poco in modo da non esser scorta. Come l’uomo riprese il suo cammino, non seppe resistere, e di nuovo gli gridò: – T’ho vist!
(1) Piccola fornaia.
(2) Ma Dio che figura! Mi hanno lasciato lì con quella povera ragazza, ma cosa poteva raccontarle?
Ho proprio per figli due mascalzoni. Ma come si fa a trattare una ragazza così carina. Ma cosa volete di più? O Signore, che vergogna!
(3) Questo qui è sempre andato a puttane.
(4) Ti ho visto!
P.S. Per un fattore estetico il racconto sarebbe terminato qui, ma i lettori sono come i beoni : vogliono sempre l’ultimo goccio. Ma sì! per questa volta, accontentiamoli!
Si seppe che quel signore non smise affatto di fare le sue visite, cambiò percorso: entrava e usciva da uno dei due cancelli dei garage. Al contrario, la signora compiacente non fu mai individuata, c’era il sospetto ma non la certezza. Che nel condominio ce ne fossero più d’una?
Fonte: srs di Enzo Monti del 21 giugno 2013
Link: http://enzo-monti.blogspot.it/2013/06/tho-vist.html