I resti del Ponte di Castelvecchio, 1945
«Il 25 aprile fu una delle giornate più tragiche e più felici della mia vita»: inizia così il racconto di Gianfranco De Bosio, regista e sceneggiatore veronese, classe 1924, che in quella primavera del 1945 era a Verona quale membro del terzo Comitato di liberazione nazionale (il primo si era sciolto dopo le prime retate dei nazifascisti, tutti i componenti del secondo erano poi finiti nei lager nazisti). Nel CLN veronese De Bosio era quale rappresentante della Democrazia Cristiana, «anche se non ne facevo parte, ma la regola voleva che ogni partito antifascista clandestino fosse rappresentato, così per la DC fui designato io». Ci volevano almeno tre partiti per formare un CLN riconosciuto, e tre furono in quello veronese, perché i socialisti non designarono mai il loro rappresentante. Così, oltre De Bosio, c’erano Vittorio Zorzi per il Partito d’Azione (dopo la guerra braccio destro di Adriano Olivetti, scoprirà Primo Levi scrittore) e Idelmo Mercandino per i comunisti (subentrato a Pietro Melloni, arrestato)
«Dalle sette di sera del 25 aprile i nazisti in ritirata fecero saltare i ponti», continua De Bosio. «Fu la peggior sconfitta della Resistenza veronese: non riuscimmo a impedirlo. I gruppi cittadini erano disarmati e dal Baldo non scese nessuno. Ricordo la polvere che pioveva dal cielo sul centro. Quel pomeriggio ero nascosto in un appartamento vicino agli Scalzi, reduce da tredici mesi di vita clandestina. Sentite le esplosioni uscii subito in strada, rimasi atterrito: fu un gesto inutile, di rappresaglia». Il commento di De Bosio risente ancora delle polemiche scoppiate nel primo dopoguerra, quando furono incolpati i partigiani per il mancato intervento, piuttosto che i nazifascisti per la devastazione (cariche esplosive enormemente più potenti del necessario, per far danno alla città, come fu) e per l’inganno (al vescovo Cardinale, che si era prestato come mediatore, fu assicurato che i ponti non sarebbero saltati, se i partigiani si fossero astenuti da attacchi. Invece*…).
L’ultima notte di incubo — oltre ai ponti, salta anche la polveriera di Avesa, fatta esplodere sempre dai tedeschi, in rotta, ma tutt’altro che inermi — e al primo mattino del 26 aprile arrivano finalmente gli Alleati. «Di quel giorno mi sovviene la felicità popolare. Tutti corsero incontro alle camionette che si riversavano in città. Gli americani arrivarono intorno alle quattro di mattina, da corso Porta Nuova. Si diceva “gli americani”, ma in realtà la maggior parte dei soldati che incontrai io erano australiani. Che scene, in città! Vidi un mio ex professore di dottrina fascista, uno che si vantava di aver giustiziato prigionieri etiopi con pistolettate alla testa, staccarsi il distintivo e schiacciarlo sotto i piedi. Noi del CNL ci trasferimmo in prefettura, dove arrivarono il maggiore Blackwell, americano, molto simpatico e il capitano Bean, inglese, che ci trattava come se fossimo nemici. Non voleva accettare il cambio dell’Italia da fascista ad antifascista. A onore del vero, devo dire che effettivamente durante la Resistenza eravamo in pochissimi a combattere mentre il primo maggio, in Arena, c’erano dodicimila “partigiani” con le divise e le armi più strane e improbabili. Io a quella pagliacciata non ci sono andato. Mi ricordavo purtroppo un’altra piazza Bra gremita, il 10 giugno del 1940, quando Mussolini dichiarò l’entrata in guerra: piazza Bra era stracolma di folla esultante».
«Avevo solo diciannove anni nel 1945», continua l’ultimo testimone del CNL veronese, «mi dovevo far crescere la barba e portare gli occhiali finti per sembrare più grande. Venivo dalle squadre d’azione dinamitarde di Padova, sotto il comando di Otello Pighin». Su questa figura di antifascista De Bosio ha ritagliato il protagonista del suo film più celebre, Il terrorista. Rivisto di recente al K2, dove è stato proiettato per i 90 anni del regista, ha dimostrato di reggere benissimo alla prova degli anni. Un bel film, che si fa guardare ancora volentieri, per molti aspetti lungimirante nel dipingere senza retorica contraddizioni e crisi di coscienza. «Fui catturato dalle SS, fuggii e venni mandato a Verona per “mettere su” la Democrazia Cristiana, malvista dal clero e in seguito dalla RYE, la missione militare italiana inviata dal governo badogliano e guidata da Carlo Perucci, un ufficiale del Regio Esercito che a Verona era stato presidente dell’Azione Cattolica». Perucci già temeva l’imporsi dei comunisti nel dopoguerra e per questo diffidava del CNL, in cui erano determinanti. «Ho imparato tanto nei due anni tra il 1943 e il 1945, anche a capire come le fedi politiche si trasformano. A settembre lasciai la politica e ripresi gli studi letterari». Memorie preziose, che De Bosio sta raccogliendo in una biografia, di prossima pubblicazione per Neri Pozza. «La notte successiva alla liberazione Bean mi svegliò inferocito: a Montecchia di Crosara c’era un gruppo di partigiani che voleva trucidare i prigionieri fascisti. Mi mandò con una macchina alleata a fermarli». Sveglia notturna ripetuta il primo maggio, con traduzione da parte degli inglesi dei membri del CNL in prefettura, «più sotto arresto che per consultarci». A Forte Azzano i partigiani avevano fucilato, oltre i termini stabiliti dal CNL per la giustizia sommaria, otto prigionieri, tra cui l’ultimo segretario federale fascista di Verona, Sandro Bonamici.
Una stagione terribile. «Mi ricordo il colonnello degli alpini Giovanni Fincato, diventato nostro comandante di piazza partigiano. Gli parlai il giorno prima che fosse catturato. Era un uomo piccolo, magro. Lo chiusero in una camera di tortura vicino al Teatro Romano. Poteva fare, tra gli altri, il mio nome. Ma non parlò. Gettarono il suo cadavere in Adige. Non fu più trovato».
( * PS di Gio. Attacchi che i partigiani fecero contro i tedeschi in ritirata).
Fonte: da L’Arena di Verona del 25 aprile 2015