di Alessandro Marzo Magno
Al di là delle molte leggende sul felino che rappresenta Venezia, la sua prima apparizione accertata è del 1261 in un sigillo ducale. L’esordio dell’esemplare scolpito sulla pietra risale invece al 1317 e si trova conservato nel battistero del duomo di Capodistria. Del 1355 sono infine i mosaici con il vessillo della Serenissima accolti nella cappella di Sant’Isidoro, nella basilica di San Marco.
Quasi tutto quello che si racconta sul leone di San Marco, e relativi vessilli, è solo una simpatica leggenda e nulla più. Dimenticatevi leoni di guerra, leoni di pace; coda alta, coda bassa; libro aperto, libro chiuso; lingua fuori (per le città che si sono date e quindi la fiera mostrerebbe l’attitudine di un amichevole cagnolino) e dentatura digrignata (come monito, invece, per le città conquistate). L’unica codificazione reale era quella che il leone teneva le zampe posteriori nell’acqua e quelle anteriori sulla terra per simboleggiare il dominio anfibio di Venezia.
Tutto il resto sono invenzioni, alcune anche con natali illustri: il primo a dire che i veneziani dipingevano leoni con la spada sulle città conquistate è stato nientepopodimeno che Niccolò Machiavelli. E se l’ha detto lui, perché mai non si dovrebbe ripeterlo ai posteri? «Intendesi come e’ Viniziani, in tutti questi luoghi de’ quali si rinsignoriscono, fanno dipingere un San Marco, che in scambio del libro ha una spada in mano, d’onde pare che si sieno avveduti a loro spese che a tenere li stati non bastano li studj e e’ libri» scrive il segretario fiorentino in una lettera datata 7 dicembre 1509. Peccato fosse una fake news, destinata però a tener banco nei secoli a venire. Il libro chiuso, quasi a nascondere le parole «Pax tibi», come simbolo di guerra è un’altra sciocchezza; non a caso è una storiella che circola solo in Veneto, ma non in Lombardia dove quasi tutti i leoni marciani presentano soltanto il libro aperto. Così come è pura leggenda che la maschera di Pantalone si chiami così per l’attitudine dei veneziani di «piantare leoni» nei luoghi da loro controllati (invece viene dal nome greco Pantelemenos).
IL PATRONO
San Marco entra relativamente tardi nella simbologia veneziana: da metà Duecento, nonostante fosse diventato patrono già da quattro secoli. In precedenza a sorvegliare le sorti di Venezia era stato designato il bizantino San Teodoro, patrono dell’esercito, che veniva esibito in coppia con San Giorgio.
Curioso che a uccidere il drago fosse proprio San Teodoro (come si vede sulla colonna in piazzetta) e che in un secondo tempo sia avvenuta l’inversione e ad ammazzare il drago sia invece diventato San Giorgio.
Curioso anche che a Venezia, oltre alle reliquie del patrono nuovo, ci siano pure quelle del predecessore, nella chiesa di San Salvador, tutto sommato abbastanza dimenticate. Non è un caso che la dirimpettaia scuola grande sia intitolata proprio a San Teodoro.
Nicola Bergamo, nel suo Venezia Bizantina ipotizza che anche i veneziani, come i loro genitori bizantini, andassero in battaglia esibendo icone o insegne con San Teodoro. Un’illustrazione di un codice trecentesco ci mostra le truppe di Bisanzio allineate dietro a vessilli rosso porpora, il colore dell’imperatore. Sarà solo un caso che anche le bandiere navali veneziane siano rosse?
Anche se Marco prende il posto di Todaro, ci vorrà un bel po’ per vedere comparire il leone. Sappiamo che nel 1096, il doge Vitale Michiel I consegna al figlio Giovanni, in partenza per la terrasanta, lo stendardo con San Marco protettore della repubblica, che portava la croce. Non sappiamo, però, se si trattasse di una raffigurazione di San Marco in forma umana o in forma di leone.
È molto probabile, come spiega Guido Ercole in Le galee mediterranee, che la flotta marciana inalberasse un vessillo con croce gialla in campo rosso. Ma, osserva Federico Moro nel suo Venezia alla conquista di un impero: «La bandiera con la croce greca patente e le quattro sfere o palle, in mare si confonde facilmente con la bandiera pisana. Specie a grande distanza. Visto che San Marco è da un pezzo il patrono, se ne adotta il simbolo tradizionale ovvero il leone alato con il libro».
LA NUOVA FIGURA
Ed eccoci dunque al fatale 1261, indicato da Alberto Rizzi, massimo «leonologo» di tutti i tempi, come l’anno in cui per la prima volta compare il nuovo simbolo: in un sigillo ducale si vede il doge Ranieri Zeno che riceve da San Marco il vessillo con il leone «in moleca» (cioè rannicchiato come un granchio). Soltanto di un anno successivo è un peso di bronzo, conservato nell’Archivio dei Frari, nel quale si scorge un piccolo leone, pure quello in moleca.
Il primo leone in pietra conosciuto risale al 1317 e si trova nel battistero del duomo di Capodistria.
Del 1355 sono i mosaici della cappella di Sant’Isidoro, nella basilica di San Marco.
Nell’episodio dell’arrivo del doge Domenico Michiel a Chio vengono immortalati alcuni gonfaloni: uno, rosso, sventola sull’albero di una galea, altri tre, bianchi, garriscono da terra. L’indicazione è inequivoca: il rosso contraddistingue i vessilli dell’Armata (così a Venezia si indicava la flotta), le bandiere terrestri sono bianche (ma si troverà anche l’azzurro).
Un’altra illustrazione, in un codice conservato al Correr, mostra il papa Alessandro III che dona al doge Sebastiano Ziani alcune trombe d’argento e otto gonfaloni di San Marco di diverso colore: rosso, bianco, viola e celeste. Secondo Mario De Biase, il più illustre studioso della storia del gonfalone, i colori significavano i diversi stati nei quali si poteva trovare Venezia: pace, guerra, tregua, alleanza.
L’EVOLUZIONE
Tra Quattro e Cinquecento il leone effigiato sui vessilli marciani diviene definitivamente andante. Non c’era però una codificazione precisa e le bandiere erano dipinte a mano, spesso su seta ognuno faceva a modo proprio. La spada, su questo gli studiosi sono d’accordo, simboleggiava la giustizia (e non la guerra), il libro poteva essere aperto o chiuso, e talvolta teneva tra le zampe la croce. Le code potevano esserci o non esserci e se c’erano non sembra che il loro numero avesse particolari significati. In questo caso non v’è certezza, però, perché qualcuno ritiene che le sei code fossero riservate al vessillo dogale, cinque al capitano generale da mar, e via a scendere.
La più bella bandiera giunta fino a noi è quella, conservata al Correr, che a metà Seicento sventolava sulla galeazza del doge Domenico Contarini e, come d’uso, era stato dipinto lo stemma di famiglia del committente. Questo gonfalone è rosso, perché era una bandiera navale, così come rossi erano i vessilli che sventolavano davanti alla chiesa di San Marco (non era ancora basilica) perché si ritiene che le aste fossero alberi di galea e perché gli alza e gli ammaina bandiera erano effettuati dagli arsenalotti, e quindi si rimaneva sempre in campo navale.
I leoni dello Stato da tera sono caduti vittime degli scalpelli prima degli imperiali (1509) poi di Napoleone (1797), mentre quelli della Dalmazia (ma meno in Istria) sono stati rimossi prima dagli ustascia di Ante Pavelic e poi dai comunisti di Tito, ma, come spiega Alberto Rizzi, la leontoclastia ustascia è stata molto più metodica e capillare rispetto a quella comunista. Alla fin fine i leoni che hanno patito meno rimozioni sono quelli nell’attuale Grecia: quando gli ottomani conquistavano le piazze veneziane non ne toglievano i leoni alati. Il leone più lontano si trova in Russia, nel museo di Novocherkassak: era stato scavato nel 1881 alla Tana, l’ex colonia veneziana alle foci del Don, sul mar d’Azov. È un piccolo leoncino, inquartato nello stemma della famiglia Corner che ornava una pietra tombale.
Fonte: srs di Alessandro Marzo Magno, da Il Gazzettino del 16 agosto 2019