Gabriel Rockhill (*)
Una delle convinzioni più salde a proposito degli Stati Uniti è che si tratti di una democrazia. Ogni qualvolta questa affermazione viene timidamente posta in dubbio, è quasi solo per segnalare una qualche dannosa eccezione ai valori fondamentali o ai principi costitutivi statunitensi. Ad esempio, gli aspiranti critici lamentano frequentemente una « riduzione della democrazia » dovuta all’elezione di autocrati clowneschi, a misure draconiane adottate dallo Stato, alla scoperta di malversazioni o corruzioni, a interventi sanguinari all’estero o ad altre attività considerate eccezioni antidemocratiche. Lo stesso vale per coloro la cui critica consiste sempre nel contrapporre le azioni concrete del governo degli Stati Uniti ai suoi principi costitutivi, evidenziando una contraddizione tra le stesse e manifestando l’auspicio che possa comporsi.
Il problema, però, è che non vi è alcuna contraddizione o riduzione di democrazia, perché semplicemente gli Stati Uniti non sono mai stati una democrazia. E’ una realtà difficile da affrontare per molte persone, probabilmente più inclini a respingere tale affermazione come assurda piuttosto che prendersi il tempo di esaminare i dati storici e decidere a ragion veduta. Una reazione così sprezzante è dovuta in gran parte a quella che è stata forse la campagna di pubbliche relazioni di maggior successo della storia moderna. Quello che al contrario risulta evidente, quando la questione viene esaminata in modo sobrio e metodico, è che un paese fondato sull’élite, una dominazione coloniale basata sul potere della ricchezza – insomma una oligarchia coloniale plutocratica – è riuscita non solo a fregiarsi dell’etichetta « democratica » per vendersi alle masse, ma anche a far sì che i suoi cittadini, e molti altri, tanto socialmente e psicologicamente compresi nel loro mito nazionalista di origine, non siano disposti ad ascoltare argomenti lucidi e ben documentati.
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