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Il professore comasco, autore di originali riflessioni e di studi pioneristici,
che fu anche senatore della Repubblica italiana nella XI, XII e XIII legislatura
È trascorso più di un ventennio da quando Gianfranco Miglio, political scientist, storico e costituzionalista di incomparabile lucidità, ha concluso la sua vicenda terrena. Tante volte aveva parlato, con ironia, della sua morte. Negli ultimi anni era felice di aver avuto in sorte la possibilità di raggiungere il nuovo millennio, dopo aver assistito, nel 1989-91, ai cambiamenti della storia mondiale, che aveva in gran parte previsto. Già prima della sua scomparsa, le case editrici avevano cancellato dai cataloghi i libri dei suoi ultimi dieci anni di lavoro, rendendoli introvabili, chiudendo anche le collane che dirigeva. Nelle università aveva subito da un pezzo i colpi di un sistematico ostracismo. I colleghi (in particolare coloro che – comodamente assisi in Parlamento – sono stati per lungo tempo complici oggettivi di un sistema politico corrotto e inefficiente e che oggi per onestà intellettuale dovrebbero finalmente riconoscere l’esattezza delle sue previsioni) lo percepivano come un “appestato”, per le sue aperte denunce e per le scomode prese di posizione in favore di una radicale riforma costituzionale in senso federale: l’unico fine che si era prefissato e che dimostrava essere indispensabile per trasformare uno Stato territoriale – nato nell’Ottocento per pigra imitazione di modelli inadatti e forieri di problemi sempre più gravi – in un sistema talmente moderno che (come riconosciuto da studiosi svizzeri) potesse essere utile perfino per migliorare l’assetto della Confederazione elvetica.
Oggi il suo nome è ignorato dai giovani. Gli studenti, infatti, sono stati accuratamente tenuti lontani dalla sua elaborazione teorica, perché troppo chiara per essere travisata. In questo ventennio il suo nome è a tratti riaffiorato dal lungo e voluto oblio calato sulla sua opera e sulla sua figura. Il suo nome è stato citato sempre a sproposito, sia da politici opportunisti che da intellettuali di corte. L’assordante silenzio che ha avvolto la sua memoria è stato poi a tratti squarciato dal risuonare di luoghi comuni, di miti cristallizzatisi sulla sua figura o da interessate falsificazioni, ricorrenti ancora oggi nei mezzi di comunicazione di massa. Si pensi al paradosso di definirlo – un instancabile innovatore come lui era – “dogmatico”, “conservatore” o “reazionario”. Oppure si pensi all’ossessiva e patetica caricatura “dell’antimeridionalista” (come del resto è sempre accaduto ai federalisti lombardi, dall’Ottocento a oggi), anche se le sue critiche alla classe politico-burocratica di un Meridione devastato per centosessant’anni da un sistema politico aberrante, collusa con il potere centralizzato, sono state infinitamente più blande e moderate rispetto a quelle del federalista meridionale Gaetano Salvemini. Inoltre, egli le ha sempre accompagnate con l’avvertenza che la causa dei mali che da tempo immemorabile ci assillano, risiede non nel contrasto fra Nord e Sud, ma nella centralizzazione del potere, che sfrutta tutti senza rendere servizi apprezzabili a nessuno e addirittura aggravando la condizione meridionale. Trovare “dell’antimeridionalismo” ad esempio in scritti quali Al Sud c’è più passione: i lombardi sono servi, richiede non poca abilità nel fare carte false.
Gianfranco Miglio, in realtà, ha subito una sorte “raddoppiata” di oblio. Da una parte quella destinata ai federalisti autentici, in un Paese erede del più intransigente giacobinismo unitarista e collettivista, che prima li ha mandati al patibolo e poi ha sempre cercato di cancellarli e dall’altra quella che tocca in sorte agli anticonformisti geniali che hanno tentato di svegliare e di innovare le società in cui vivevano e segnatamente agli autentici scienziati della politica, realisti e per forza di cose scomodi, urtanti. Persone che un tempo venivano rinchiuse nelle segrete di qualche castello, mentre oggi si cerca di seppellirli sotto una coltre di silenzio, in quanto colpevoli di aver prodotto “stragi di illusioni”, di ideologie, di formule di legittimazione del potere, perseguendo la “verità effettuale” e di aver svelato al “volgo” che “il re è nudo”. Miglio, infatti, è sempre stato un distruttore di luoghi comuni, di banalità, di costruzioni ideologiche interessate, un realista a tutto tondo, uno “scardinatore” delle mitologie sulle quali si fondano la politica e lo Stato moderno, i loro totem e mantra collettivi che, come egli ha sempre cercato di dimostrare, non sono altro che maschere con le quali si recita la tragicommedia della politica. Egli era un uomo totalmente libero, indipendente da qualsivoglia scuola o consorteria accademica e non sorprende di certo che sia stato rimosso dalle storie della scienza politica in Italia e quasi totalmente dagli annali di quest’ultima. Questo destino è tuttavia impotente a cancellare il fatto che Miglio sia stato, come lo aveva definito Carl Schmitt, “il maggiore tecnico delle istituzioni e l’uomo più colto d’Europa” o, secondo l’affermazione del filosofo del diritto Carlo Lottieri, “il maggiore studioso della politica della seconda metà del Novecento”. Tutta la sua opera è costellata di intuizioni e elaborazioni di notevole profondità teorica. Dalle Lezioni di scienza della politica, ai suoi scritti raccolti nel saggio Le regolarità della politica, a quelli di Il nerbo e le briglie del potere, fino agli scritti federalisti dell’ultimo decennio della sua vita (1990-2001) – in realtà una coerente prosecuzione dei suoi cinquant’anni di studi precedenti e niente affatto “scritti d’occasione” – continuano a emergere la sua vasta cultura, lontana anni luce da quella più piattamente conformista e soprattutto il suo genio critico e chiarificatore nell’indicare le cause, limpidamente dissezionate, della nostra condizione attuale.
Le sue riflessioni possono essere di grande aiuto non solo per comprendere le radici dei nostri problemi, ma anche per uscire dalle pastoie di un’interminabile crisi di civiltà come quella attuale e dal pantano di uno Stato territoriale malridotto, quello italiano, piagato da immani rapine, sprechi di risorse, parassitismo, corruzione, burocratismo, ipertrofia legislativa, iper-tassazione e iper-regolamentazione. Un sistema politico ancora figlio della Rivoluzione francese, inadatto ai bisogni e alle esigenze economiche e tecnologiche di un Paese “naturalmente federale” del XXI secolo. Basti pensare alla sua “teoria della doppia obbligazione” (politica o di “contratto-scambio”), che delinea due ambiti opposti e inconciliabili, consentendo di capire la crisi dello Stato e le ragioni del neofederalismo o a quella, tagliente come un rasoio, della “rendita politica” (termine introdotto negli anni Sessanta da Miglio nella politologia scientifica), di grande utilità per comprendere i mali peggiori dei quali soffre il sistema politico italiano. Si pensi, poi, alla lucida analisi della contrapposizione fra decentramento e federalismo, che inchioda tutte le pseudoriforme di “autonomia” alla loro realtà di balletti scenografici, progettati per non cambiare nulla.
Quella di Miglio è stata un’opera molto più ricca, chiara, articolata e profonda di quanto non si sia ritenuto o affermato. Per questo è stato impossibile edulcorarla. Soprattutto, è stato necessario silenziarla, per non dover fare i conti con il suo non addomesticabile coraggio civile, con la sua parresìa: virtù civica per eccellenza nell’età classica, che consisteva nel dire apertamente la verità – ricavata in questo caso da lunghe e complesse ricerche scientifiche – ma anche di denunciare le più gravi storture della convivenza, indicando concrete terapie e soluzioni.
Fonte: srs di Alessandro Vitale; da L’Opinione delle Libertà del 19 marzo 2024