Feb 03 2025

PRIMA LA SENTENZA, POI IL PROCESSO

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Filippo Facci

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Ripetere una tesi all’infinito non la rende più credibile: a meno che la gente abbia una gran voglia di crederla. Vale per i politici e vale per i magistrati, perchè l’aria che tira non risparmia neanche loro, anzi, lo spazio mediatico calante delle loro sparate dice già molto. Però, ecco, al quarto o quinto giorno in cui tocca leggere degli slogan sospesi nel nulla («i magistrati italiani lavorano di più», «i magistrati italiani sbagliano pochissimo», roba così) viene da chiederselo: scusate, ma pensate davvero che qualcuno vi creda? Pensate forse che chi tace acconsenta?

E allora raccontiamo una vicenda accaduta a Bologna a settembre, e resa nota – si fa per dire – nei giorni scorsi. Seguite lo schema di quello che è accaduto, e che è documentalmente provato: un pm chiede un arresto, il gip gli respinge la richiesta, il pm allora fa appello al Tribunale del riesame che convoca l’udienza per decidere: ma, forse per errore, il tribunale notifica all’avvocato l’accoglimento della richiesta del pm (mettere il tizio in galera) il giorno prima che si tenga l’udienza per deciderlo. E’ come se a un imputato fosse consegnata la sentenza di condanna prima ancora che inizi il processo. 

Questa vicenda è esplosa pubblicamente nei giorni scorsi e il tribunale del Riesame responsabile della clamorosa violazione, imbarazzato, si è limitato ad astenersi: ergo, gli è subentrato un altro collegio che subito si è adeguato alla decisione precedente. Per loro è finita così: e chi se ne frega se l’Unione Camere Penali intanto era salita sulle barricate. La notifica era solo una minuta inviata per errore, hanno detto i togati. Poi è intervenuta la solita Associazione magistrati (quella retta da Davigo) e ha sentenziato: niente «può porre in dubbio l’integrità e la buona fede dei magistrati coinvolti». Basta dirlo. E il diritto di difesa? Non ha «subito né danni né limitazioni». Basta dirlo. 

Non una parola per stigmatizzare una pre-decisione che ha mortificato ogni regola e la stessa Costituzione: per loro è solo un errore formale, una svista. Non è, secondo loro, qualcosa che lascia immaginare una prassi diffusa, qualcosa che relega il difensore in un ruolo accessorio rispetto allo strapotere autoreferenziale di giudici e pm: come se l’avvocato, e ciò che avrebbe potuto dire durante un’udienza, non avesse importanza. Accusa e difesa dovrebbero avere la stessa parità giuridica (è la base del diritto in Occidente) e questo, forse, potrebbe contribuire a limitare i 42 milioni di euro spesi nel 2016 per risarcire gli errori giudiziari. Ma fa niente.

Ecco: la giustizia italiana funziona così, non è un pallino da garantisti politicamente schierati o una consapevolezza solo degli addetti ai lavori che lavorano nei tribunali: lo sanno milioni di italiani che lo sapevano anche prima, ma che, per lustri, hanno delegato la magistratura in funzione salvifica e anti-casta. Ma ora, a farlo, sono rimasti solo grillini e fattoidi. 

Nel 1994, uno scambio di messaggi tra il pm Antonio Di Pietro e il giudice Italo Ghitti venne ritrovato casualmente in un faldone; diceva: «Appunto per Italo. Ti anticipo perché Caio dovrebbe andare dentro al più presto». E Ghitti, il giudice, cioè il gip, il giudice terzo, il teorico garante delle parti: «Antonio, trova altro capo d’imputazione, perché… » eccetera. Gli scrisse così: trova un altro capo di imputazione, uno qualsiasi. Cioè: un giudice si era accorto che un reato non avrebbe consentito di ingabbiare tizio – unico aspetto ritenuto interessante – e allora consigliava al pm d’inventarsi qualcos’altro. Uno scandalo, e sapete che cosa accadde in quel 1994? Niente. 

E avvenne lo stesso quando alla procura di Palermo, nello stesso anno, spuntarono due paginette scritte da un giudice all’indirizzo di un pm; nonostante il giudice dovrebbe porsi in equidistanza tra il pm e il difensore, appunto, il gip si rivolse al pm in questo modo: «Caro, ti rimetto le argomentazioni svolte dal difensore… argomentare in senso contrario presuppone l’attento esame del fascicolo che è ponderoso… Ti sarei grato se tu volessi scrivermi informalmente due righe in modo da evitarmi una noiosa camera di consiglio». Traduzione: caro amico pm, scrivi direttamente tu le motivazioni che lascino in galera tizio. Un giudice, cioè, chiedeva che le considerazioni della pubblica accusa potessero diventare automaticamente le sue: perché la camera di consiglio oltretutto «è noiosa». Che cosa successe? Nulla.

E non è successo nulla neanche a Bologna nei giorni scorsi, e infatti il punto è questo: da allora è cambiato il mondo e solo la magistratura italiana è rimasta identica. E, a sentire i Davigo, perfetta. E quando non lo sembra – perché proprio cretini non siamo – è colpa della classe politica. Le intercettazioni? Non sono un problema, sono già disciplinate. La presunzione d’innocenza? «I politici che delinquono vanno mandati a casa senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo». Questa era di Davigo. 

Gli errori clamorosi dei magistrati, gli innocenti in galera? «Dipendono da carichi di lavoro che non hanno equivalenti negli altri Paesi». Anche questa era di Davigo, interessato al dialogo come può esserlo un muro con una pallina da tennis. E’ questa la magistratura italiana, quella che i magistrati pretendono non sia sovrapponibile al disastro della giustizia: un’aura di sacralità, di intangibilità, uno spaventoso problema per il Paese, l’indisponibità a muoversi da una posizione di arcigna schermaglia sindacale e ad accettare un confronto fondato perlomeno su una minima presa d’atto della realtà. Macché. Il conflitto tra politica e magistratura? «Naturale conseguenza della loro separatezza e indipendenza». I tempi della giustizia? «Tutte le inchieste arrivano a sentenza». Sono tutte perle di Davigo. 

Poi c’è questa leggenda dei magistrati italiani che sarebbero i più produttivi d’Europa: ma i rapporti del Consiglio d’Europa non dicono niente del genere, anzi, i rapporti del Cepej pongono il nostro Paese come maglia nera della giustizia europea e riportano essenzialmente dei numeri: dopodiché l’Associazione magistrati ha semplicemente diviso il numero di procedimenti definiti per il numero dei magistrati italiani e ha chiamato questo «produttività», che sarebbe come giudicare la produttività di un governo solo per il numero di leggi che faccia. 

I magistrati italiani si vantano dei processi «definiti» ma dimenticano di dire che tra questi ci sono anche quelli prescritti, e dimenticano pure che tre quarti delle prescrizioni matura durante le indagini preliminari e che quindi è responsabilità loro e basta. I magistrati italiani non parlano delle loro ferie, non rivelano che sono i più pagati d’Europa, parlano solo della «mancanza di risorse» e che manca la carta per le fotocopie, signora mia, e che tizio è in malattia, che la segretaria è in maternità, tutte cose che secondo l’Associazione nazionale magistrati costituiscono i soli problemi «strutturali» che ci vedono in coda alle classifiche mondiali sulla giustizia. I nostri processi durano dieci volte più della Francia e cinquanta volte più della Gran Bretagna, ma forse è perché li facciamo meglio. Vedrete, prima o poi diranno anche questo. 

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Fonte: srs di Filippo Facci, da Libero, 3 febbraio 201.  Ultima modifica: 15 marzo 2021

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