.
.
Ricordare è un dovere, si dice.
Ma dovrebbe essere anche un diritto. Nel senso che a nessuno, dico: NESSUNO, dovrebbe essere negata la possibilità di effettuare indagini e andare alla ricerca di prove attorno ad una pretesa verità storica.
Perché se non si garantisce questa libertà, allora ciò che si ricorda rischia di esser preso da minoritarie e tuttavia sempre più estese fasce della popolazione non per fatto realmente accaduto, bensì come semplice narrazione della versione dei vincitori.
E sicuramente non si vorrebbe questo, perché un racconto fazioso, unilaterale e dal sapore latamente propagandistico ha un valore nettamente inferiore rispetto a resoconti su cui è sempre possibile indagare, approfondire, scavare, cercare conferme e/o smentite.
È dunque fatto alquanto singolare che, nonostante una memoria, anzi: LA memoria di anno in anno celebrata con toni comprensibilmente drammatici a reti unificate, gli accadimenti che si vogliono così sentitamente ricordare siano oggetto di un divieto permanente di discussione.
Infatti, laddove, giustappunto, il termine discussione implica un confronto di pareri, di prospettive, di vedute, su questa MEMORIA non si può avere se non una gara a chi mostra più dolore, compatimento, pentimento.
Giammai si possa udire un qualcosa che stona dal coro. Nulla che non si unisca ai gemiti straziati per un passato che continua ad essere dipinto, descritto, rappresentato in modo rigidamente unidirezionale, senza che si possa avere nemmeno un piccolo squarcio, una infinitesimale crepa di perplessità, nemmeno a livello meramente possibilistico.
Et voilà, non sembra di aver a che fare con un vero e proprio tabù? Cioè, un qualcosa che sia così universalmente accettato come intoccabile, valido, provato, sacro, scolpito nella pietra, che solo metterlo lontanamente in dubbio è bestemmia. Tanto che nessuno, a meno che non abbia istinti suicidi latenti, proverebbe a esprimere un’opinione in termini anche minimamente differenti da quelli con cui detto tabù viene oggi prospettato.
Il fatto è che siamo arrivati ad un livello di condizionamento mentale tanto potente e tanto radicato, che ormai già il solo pensare di poter mettere in forse anche solo qualche aspetto, sfaccettatura, dettaglio del racconto di ciò che è stato equivale al peggiore dei sacrilegi.
Il sistema valoriale instillato da questo martellamento della memoria è tanto forte da aver fatto sì che la necessità di porsi la benché minima domanda non venga neanche percepita a livello embrionale: il racconto è accettato in toto come avente la stessa verità insita nella circostanza che l’acqua sia bagnata o che il fuoco sia caldo. Punto.
Nessuna diatriba, nessuna ricostruzione alternativa, va benissimo l’assunto ufficiale. Il contraltare immediato tanto da essere automatico è l’accusa di negazionismo, fenomenale camicia di forza contro ogni potenziale ricerca.
Ipso facto, le indagini ammesse, e che tutti più o meno conosciamo fin dalla più tenera età, sono sempre a senso unico.
Tuttavia, in questo mare magnum di veti, proibizioni, limiti, una domanda rimane legittima: il paravento, e il conseguente ombrello, costituito dal professarsi appartenenti ad un dato “culto“, potrebbe oggi costituire un enorme vantaggio in termini di intoccabilità nella gestione di posizioni di potere?
Si avrebbe, in questo caso, un mix esplosivo di tutela e protezione di tutte le precise responsabilità derivanti dall’esercizio del potere stesso.
Ma già a questo punto si rischierebbe di aprire il vaso di Pandora, perché si andrebbe ad intaccare un qualcosa che è definibile solo come autentico dogma assurto al rango di riflesso incondizionato, di memoria collettiva consolidata, di paradigma culturale, di assioma storico.
Ciò che si può definire, con parole poco diplomatiche ma molto molto evocative, puro e semplice lavaggio del cervello.
Oppure, in altri termini, come memoria negata. O, ancora, memoria violata.