DA “IO SONO NESSUNO, STORIA DI UN CLOCHARD ALLA RISCOSSA”
Allora è così che finisce, un cartone, una coperta, uno zainetto come cuscino. È così che si spegne una vita, che si consuma un’esistenza.
Nell’indifferenza, nel silenzio, nel riflesso di una luce al neon, nell’eco di un paio di tacchi che risuona lontano. Allora è così che il vecchio Wainer Molteni esce di scena, senza rabbia, senza rumore, su una lastra di marmo gelato, avvolto dall’odore di piscio. Come se non fossi mai esistito, come se non avessi mai vissuto. Wainer si ferma, il mondo prosegue. Funziona così, vale per tutti, vale per me. Sono le regole del gioco, ci ho provato, ho rischiato, ho perduto. Tutto qui.
Non ho rimpianti, non ho rimorsi: quello che ho fatto è quello che ho scelto, quello che ho scelto è quello che ho voluto, quello che ho voluto è quello che sono. Scegliere, volere, essere, non ci sono alternative. C’è solo una cosa che mi dà fastidio: il modo.
Voglio dire, tra tutte le morti possibili quella per congelamento è una delle più assurde. A Milano, almeno. Nel duemila. Se fossi in montagna, immerso nel bianco e perso nella neve, o in Scandinavia, in mezzo ai boschi, capirei.
Ma sono nel cuore della city, attorno a me ci sono i cinema, i mac donalds, i tabacchi, i baracchini delle caldarroste, i venditori ambulanti, i negozi di scarpe e di vestiti. C’è il Duomo, la Madonnina. Ci sono le luci, i suoni, i colori. (Ci siete voi).
Non voglio morire in questo modo, non voglio scomparire sullo sfondo, e domani, magari, diventare un caso, una fotografia, una breve biografia, un articolo di giornale, un dato statistico, un oggetto sociologico, un discorso da bar, la lacrima di un benpensante, la preghiera di un prete, il comizio di un politico. Non voglio finire così, al bordo di una strada.
Dicono che la morte per assideramento sia una delle meno dolorose. Ti addormenti, dicono, ed è come se piano piano il tuo corpo si spegnesse: prima i piedi, poi le mani, infine un lungo sonno.
Da quando mi sono infilato sotto la coperta non ho smesso di tremare. Il freddo è così forte che passa attraversa i golf e la maglietta, l’aria è così gelata che mi scuote tutto il corpo. Ho le calze umide, per colpa della pioggia, e non sento quasi più i piedi. Il cappello di lana mi copre la fronte e le orecchie, la coperta e la sciarpa il resto del viso. Quel filo di aria che passa è più tagliente di un rasoio. Dovrei alzarmi, uscire dal sacco, saltellare, fare due passi; l’ideale sarebbe rifugiarmi dentro a un bar, bere qualcosa di caldo. A quest’ora non dovrei avere problemi, e nella tasca dei pantaloni ho ancora qualche spicciolo. Dovrei chiamare Nocciolina, dire a Dario: “Non resisto, me ne vado”. Dovrei darmi da fare, chiedere aiuto. Ma non riesco, non mi va, non questa volta. Sono stanco, stufo, sfinito.
Non ho più la forza di lottare, di darmi una speranza, di farmi del male: “Hai perso”, mi dico, “questa volta è finita”. I sogni, le speranze: non contano più niente; gli errori, le cadute: non contano più niente. Forse non sono mai contati. Forse, alla fine, il senso è proprio questo: tu brighi, sbrighi, disfi, sfai, e alla fine non ti rimane più niente. Provi a mettere un cappello alle cose, a darci un nome, una spiegazione, ma loro sono avanti, sono già accadute.
Fonte: visto su STAMPA LIBERA del 27 novembre 2013
Link: http://www.stampalibera.com/?p=68950#more-68950
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