Verona centro storico. Torre dei Lamberti e Palazzi Scaligeri.
Enciclopedia dell’ Arte Medievale (2000)
di G. Valenzano
VERONA
Città del Veneto, capoluogo di provincia, sita sulle rive dell’Adige, tra la pianura e il piede dei monti Lessini.
La città, di origine romana, ha mantenuto l’impianto viario reticolato ricavato entro l’ansa dell’Adige, sulla base dell’incrocio ortogonale di cardine e decumano, e conserva resti cospicui quali il teatro, l’Arena, l’arco dei Gavi, la porta dei Leoni, la porta Iovia, detta nel Medioevo di S. Zeno e poi dei Borsari.
La difesa della città, importante centro strategico, fu rafforzata dall’imperatore Gallieno (253-268) con la costruzione di una nuova cinta urbana. Tale parte della città era collegata dal ponte della Pietra con l’area del castrum di età romana, sul colle a sinistra dell’Adige; quest’ultima fu occupata da Teodorico (493-526) che vi costruì il proprio palazzo.
Nel sec. 10° sono attestati, oltre a edifici pubblici e regi, la curtis ducis e un granaio pubblico. La zona conservò il carattere fiscale fino all’età di Berengario I (888-924) che l’alienò a privati, avendo stabilito la curtis regia nella zona nordorientale della città.
L’Anonimo Valesiano (71; RIS2, XXIV, 4, 1913) riporta la notizia che Teodorico, per salvaguardare i territori conquistati nel 494, fece realizzare nel 524 una nuova cerchia muraria. I dati emersi dagli scavi hanno messo in luce come l’ampliamento murario, rispetto al perimetro della città romana, realizzato per inglobare l’anfiteatro, sia da datarsi all’epoca di Gallieno, mentre al re ostrogoto sia imputabile solo un raddoppiamento parziale della cortina.
Due fonti permettono di ricostruire la serie dei vescovi veronesi, che si fa iniziare alla fine del sec. 3°: i Versus de Verona o De laudibus de Verona, carme anonimo detto anche Ritmo pipiniano, del sec. 8° e il Velo di Classe (Ravenna, Mus. Naz.), ovvero quanto rimane di una coperta di altare ricamata, fatta forse realizzare intorno al 760 dal vescovo Annone con le immagini dei primi trentacinque vescovi che lo avevano preceduto sulla sede episcopale di V., che presenta le immagini dei Ss. Fermo e Rustico e di tredici presuli veronesi.Del sec. 4° rimangono scarsissime fonti storiche e resti monumentali.
Nell’area del duomo gli scavi del 1965-1969 accertarono l’esistenza del complesso episcopale, posto, rispetto alla città tardoimperiale, nel punto più interno dell’ansa del fiume. La recente lettura delle strutture (Lusuardi Siena, 1989, p. 109) ha individuato l’esistenza di una domus ecclesia fin dall’età tardoimperiale, a tre navate e monoabsidata. Tale aula fu ristrutturata e dotata di una particolare articolazione dell’area liturgica, con impianto di riscaldamento a ipocausto e pavimentazione musiva, nella seconda metà del 4° secolo.
Tra il sec. 5° e il 6° fu realizzata una grande basilica a tre navate, monoabsidata con endonartece e forse un atrio, caratterizzata dai pavimenti musivi e da una solea fiancheggiata da muretti affrescati e ritmati di lesene, che raddoppiò la dimensione dell’area destinata al culto, insistendo sulla struttura del cardine romano. Nel 517 è documentata l’esistenza di uno scriptorium.
I dati degli scavi hanno dimostrato l’errore della tradizione che, identificando i luoghi di sepoltura dei vescovi come le sedi della cattedrale, aveva ipotizzato una prima sede extraurbana presso la chiesa di S. Procolo, da dove si sarebbe spostata nel sec. 5° presso quella di S. Stefano, per approdare solo con la sepoltura di Annone (m. nel 780) nell’area dell’od. duomo.
In realtà si è potuto accertare che la basilica di S. Procolo fu realizzata solo tra la fine del 5° e l’inizio del 6° secolo. Si trattava di un edificio a navata unica, con l’abside segnata da lesene. Secondo un’epigrafe conservata nella chiesa di S. Elena, presso il complesso episcopale, l’arcidiacono Pacifico, vissuto nel sec. 9°, restaurò l’edificio insieme a quello di S. Zeno Maggiore e di S. Vito. L’autenticità dell’epigrafe è stata messa di recente in dubbio (La Rocca, 1995), così come lo stesso alone di eccezionalità che circonda il personaggio, un arcidiacono realmente esistito a cui sarebbero state attribuite doti straordinarie, quasi leonardesche, da parte del clero del capitolo veronese nel sec. 12° per rafforzare le proprie prerogative. La chiesa di S. Procolo mostra, comunque, una ristrutturazione carolingia.
Un’altra area cimiteriale romana si estendeva a N-E della città. Qui sorse la chiesa di S. Giovanni in Valle, di cui è stata ipotizzata, senza alcuna base, una funzione di cattedrale ariana. Di certo la chiesa esisteva già nell’813 ed è citata nei Versus de Verona. L’odierno edificio appartiene agli inizi del 12° secolo. Nella cripta si conservano due sarcofagi tardoantichi, uno strigilato, forse pagano, del sec. 3°, l’altro con storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, del 4° secolo. Da S. Giovanni in Valle proviene anche l’urna per le reliquie, assegnata all’età longobarda per i rilievi scolpiti (Verona, Museo di Castelvecchio, Civ. Mus. d’Arte; Lusuardi Siena, 1989, p. 114).
Anche per la chiesa di S. Pietro in Castello, abbattuta nel 1852, è stata ipotizzata senza alcun fondamento una funzione di cattedrale cattolica per il breve periodo teodoriciano (Mor, 1964, p. 21). L’edificio, ricostruibile da disegni e rilievi (Verona, Bibl. Civ., 1002, X; Sala Stampe 1-h 123/b), si inscriveva nel pieno Romanico veronese, anche se una struttura doveva già esistere nel sec. 6° – secondo le epigrafi, ora perdute, delle tombe dei vescovi Valente (522-531) e Verecondo (531-533; Biancolini, 1749-1771, I, p. 103) – ed è attestata dal punto di vista documentario nel sec. 8° (Versus de Verona). Ricordata nell’epitaffio dell’arcidiacono Pacifico (Brugnoli, 1979, p. 49), è descritta entusiasticamente nel sec. 10° da Liutprando da Cremona: “preciosi operis ecclesia est fabricata” (Antapodosis, II, 40; MGH. SS, III, 1839, p. 295). Era bisognosa di restauri quando fu eletta dal vescovo di V. Raterio (m. nel 974) come abitazione (PL, CXXXVI, col. 543).
Ai piedi del versante nord del colle su cui si ergeva S. Pietro si conserva la chiesa di S. Stefano. Vi fu sepolto il vescovo Petronio, tredicesimo presule veronese, e vi si conservano anche le spoglie del terzo vescovo veronese Simplicio. È stato cautamente ipotizzato che proprio a Petronio possa risalire la fondazione della chiesa dedicata al martire, le cui reliquie furono scoperte presso Gerusalemme nel 415. L’erezione della chiesa è stata assegnata al sec. 5° (Da Lisca, 1936, p. 8; Verzone, 1942, pp. 20-24, 137-145). Tale struttura è ancora ben leggibile, al di là delle trasformazioni seriori, nell’impianto a croce latina, con abside e atrio, nelle murature perimetrali forate dalle ampie finestre successivamente accecate, quando, forse nel sec. 10°, l’edificio fu profondamente ristrutturato con la suddivisione in tre navate e la ristrutturazione della zona absidale con la creazione di un doppio ambulacro, il cui piano inferiore costituisce una delle più importanti testimonianze a livello europeo di cripta anulare. Il piano superiore si affacciava al naós con ampie aperture situate nel muro semicircolare, in origine riccamente decorato, come dimostrano gli estesi lacerti di pitture che fingono preziose stoffe con aquile e leoni entro clipei incorniciati da perle e pietre preziose dipinte (Lorenzoni, 1994, p. 108), conservatesi soprattutto nella zona inferiore, accecata dalla costruzione della nuova matura cripta ‘a sala’, realizzata forse tra il 1187 e il 1195, quando fu eliminato l’atrio inglobato nell’allungamento delle navate con la costruzione dell’attuale facciata e fu eretto l’od. tiburio ottagonale (Arslan, 1939, pp. 42-51).
Un altro edificio paleocristiano, sorto probabilmente tra il sec. 4° e il 5°, fu eretto lungo la via Postumia, l’importante tracciato romano che univa Genova con Aquileia e che a V., dall’uscita della città fino alla zona cimiteriale su cui sorse in seguito la chiesa di S. Zeno Maggiore, era fiancheggiato da architetture funerarie romane. Scavi del 1913 misero in luce un tracciato absidale all’esterno dell’od. perimetro dell’edificio romanico, il cui livello di quota sarebbe in relazione con l’adiacente sacello cruciforme di Ss. Teuteria e Tosca (Da Lisca, 1913-1914, pp. 19-21). L’attuale dedicazione risale al 1162, quando furono rinvenute le spoglie delle sante e non è nota quella originaria, di cui è stata ipotizzata (Zovatto, 1960, p. 578) una possibile identificazione con l’oratorio che conservava le reliquie di s. Apollinare, ricordato nei Versus de Verona (v. 86).
La basilica martiriale, dedicata a s. Zeno, ottavo vescovo di V., patrono della città, ricordata nella descrizione di un miracolo del 589 da Gregorio Magno (Dialoghi, III, 19; SC, CCLX, 1979, pp. 347-350), ripresa da Paolo Diacono (Hist. Lang., III, 23; MGH. SS rer. Lang., 1878, p. 104), è da situarsi nell’area dove poi sorse il monastero benedettino di S. Zeno (Valenzano, 1993, p. 7), di cui alcuni resti – frammenti di colonne tardoantichi e capitelli di cultura esarcale – sono forse rintracciabili nell’oratorio di S. Benedetto, da identificarsi invece con la sala capitolare, nel chiostro di S. Zeno Maggiore (Da Lisca, 19562, pp. 19-20; Valenzano, 1993, p. 12).
Paolo Diacono nello stesso luogo ricorda le devastazioni subìte da V. nel 589, dovute prima a un’impetuosa piena dell’Adige poi a un vasto incendio. Le ricerche archeologiche hanno confermato un abbandono di vaste aree abitate e un fenomeno di ruralizzazione. Gli stessi dati sono comunque stati interpretati in modo diverso, mettendo l’accento sul precoce decadimento urbano che porta a una rottura con la Tarda Antichità (Brogiolo, Gelichi, 1998, pp. 33-35) o interpretando la presenza di terra nera di coltivo su parti di aree già pavimentate in età romana o l’esistenza di tombe in ambito urbano come frutto di un nuovo modello urbanistico e di nuova disponibilità di aree pubbliche dove era concesso inumare, seguendo un modello storiografico che privilegia la continuità tra Tardo Antico e Alto Medioevo (La Rocca Hudson, 1986; Materiali, 1989).
Dal 1980 sono state condotte campagne di scavo che hanno permesso di seguire le trasformazioni urbanistiche di V., dall’età tardoromana a quella altomedievale. In certe parti della città si assiste a una crescita in verticale. Gli edifici si allineano lungo le strade e all’interno venivano ricavati orti. Molti edifici pubblici, come il teatro, la basilica e il Capitolium furono riusati. Si distrussero altri edifici per recuperare materiale e costruire altri secondo nuove esigenze. Il riutilizzo di materiale antico è indice di una moda e della intensa attività edilizia.
Dell’età longobarda rimangono alcuni corredi ritrovati in tombe, scoperte in varie zone della città (La Rocca, 1989, pp. 103-108), tra cui il c.d. tesoretto di Alboino (Verona, Mus. di Castelvecchio, Civ. Mus. d’Arte), il re che nel 548 l’aveva scelta come capitale per l’importante posizione strategica.
Durante il regno longobardo furono fondati le chiesa di S. Giovanni in Valle, con funzioni di culto ariano, il monastero di S. Maria in Organo e la chiesa di S. Lorenzo.
Al regno di Liutprando (712-744) risale il ciborio della chiesa di San Giorgio in Valpolicella, ricomposto nel 1923 da pezzi già smembrati forse nel Quattrocento. L’iscrizione su una delle colonnine (“De donis sancti Iuhannes Bapteste edificatus est hanc civorius”) ha fatto supporre una diversa titolazione della chiesa, giustamente confutata, al pari della supposta committenza regia (Lusuardi Siena, 1989, pp. 151-157). L’opera fu realizzata dal maestro Orso, come cita un’altra iscrizione.
Se dalle fonti è stato possibile documentare l’importanza di Verona in età altomedievale con la fondazione di monasteri benedettini, grazie alle cospicue donazioni di età carolingia, poche sono le emergenze monumentali riconducibili all’epoca, oltre ai resti di recinzioni lapidee.
Assai importante è anche il ruolo esercitato dal Capitolo dei canonici della cattedrale. Lo studio dello scriptorium veronese è stato incentrato sulla produzione di documenti e codici scritti. Non è noto se esistesse, accanto alla figura dello scriptor, anche quella del miniatore.
Lo splendido codice di Egino (v.; Berlino, Staatsbibl., Phill. 1676), decorato con i quattro Padri della Chiesa, miniati a piena pagina, commissionato dal vescovo Egino prima di ritirarsi (ante 799) nell’isola della Reichenau, dove era stato educato, potrebbe essere frutto dello scriptorium veronese (Lorenzoni, 1994, pp. 105-106). Un celebre scriptorium esisteva anche nel monastero di S. Zeno.
Un importante documento è costituito dalla c.d. iconografia rateriana, un disegno commissionato dal vescovo Raterio, oggi noto grazie a una copia fatta realizzare dall’erudito veronese Scipione Maffei nel 1739 (Verona, Bibl. Civ., Sala Stampe, 2-b 29, c. 19), poiché l’originale andò distrutto nel 1793 a Lobbes, dove Raterio si era ritirato recandolo con sé.
Il disegno, intitolato Civitas Veronensis depicta, offre un’immagine della città, vista a volo d’uccello, circondata dalle mura e dalle torri, dove emergono le vestigia romane indicate da tituli, come quelle del ponte della Pietra (pons marmoreus), posto al centro della città a unire i due nuclei urbani, e dell’arena, detta “Nobile, praecipuum, memorabile, grande Theatrum, ad decus extructum sacra Verona tuum”.
I Versus de Verona ricordano la forma quadrata della città cinta di mura, rafforzate da quarantotto torri, tra cui otto altissime; citano l’ampio foro lastricato di pietre squadrate, come le strade con le quattro porte, l’esistenza di due ponti – il ponte della Pietra e il Postumio – e numerose chiese.
Del santuario rupestre, scavato nella roccia, dedicato ai ss. Nazaro e Celso (ricordato nei Versus de Verona e decorato da affreschi ancorati alla data 996, un tempo dipinta in una iscrizione che accompagnava lo strato più antico delle pitture), si conservano solo il presbiterio e parte dell’aula, nota grazie ai disegni ottocenteschi di Gaetano Cristofali (Verona, Bibl. Civ., 1002).
Il complesso si sviluppava su almeno due piani, se non tre. Si tratta di uno dei rari ipogei altomedievali – celebri quello des Dunes di Poitiers, del sec. 7°, o quello di S. Gennaro extra moenia a Napoli o il santuario di S. Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo -, ma che nell’area veronese trova un importante precedente nell’ipogeo di Santa Maria in Stelle in val Pantena, attestato solo nel 967, con notevoli resti di mosaici e di pitture con soggetti dell’Antico e del Nuovo Testamento, queste ultime pertinenti a un unico progetto decorativo che abbraccia l’intero spazio, attribuibile al sec. 5°, e con altri lacerti precedenti (sec. 4°) e posteriori (secc. 7°-8°; Dorigo, 1968; Lusuardi Siena, 1989, pp. 146-151).
Nell’ipogeo dei Ss. Nazaro e Celso, a una prima decorazione campita semplicemente da profilature rosse intorno alle nicchie del presbiterio, ma che forse per i resti di chiodi e grappe prevedeva nella zona inferiore marmi e in quella superiore stucchi, fu sovrapposta una seconda complessa decorazione pittorica raffigurante teorie di angeli entro clipei, Cristo in maestà al centro della volta del presbiterio, attorniato dai simboli degli evangelisti, Vergine nimbata tra i ss. Nazaro e Celso. Gli affreschi, avvicinati alla cultura pittorica della Reichenau e di Colonia, costituiscono una delle più significative testimonianze della pittura ottoniana in Italia settentrionale. Il ricco pavimento musivo è stato anch’esso datato alla fine del 10° secolo.
Le pitture furono poi coperte da una nuova campagna decorativa nella seconda metà del sec. 12°, i cui affreschi furono staccati e ricomposti senza rispecchiare la situazione originaria (Zuliani, 1974).
La cappella carolingia di S. Zeno a Bardolino, ecclesia propria del monastero veronese di S. Zeno, che nella zona possedeva molti terreni (Codice diplomatico veronese, 1940, nr. 190, pp. 287-291), ha una pianta a croce latina orientata. All’incrocio dei bracci, coperti da volte a botte impostate, nella navata su arcate addossate ai muri perimetrali sostenute da colonne in marmo rosso, si erge un alto tiburio. Tra i capitelli spiccano il reimpiego di un esemplare ionico italico tardorepubblicano e la copia di esso, ascrivibile al sec. 9°, come i rimanenti quattro. Le colonne centrali hanno segni di incasso per plutei di cui sono stati rinvenuti frammenti, insieme a una incorniciatura lapidea della monofora absidale, nei lavori del 1959-1961 (Lusuardi Siena, 1989, pp. 160-162). Nelle nicchie del transetto vi sono resti di più strati di pitture, dal 9° al 15° secolo.
Un altro edificio di cui non è noto l’anno di fondazione, analogamente dipendente da S. Zeno, presenta l’impianto cruciforme sormontato da un’alta torre: S. Pietro in Monastero a San Pietro in Valle, presso Gazzo Veronese, le cui complesse vicende costruttive – oggetto di particolare attenzione già da Galassi (1953, p. 418ss.), che riteneva l’edificio importante anello di congiunzione tra l’arte esarcale e la nascita del Romanico, proponendo una datazione all’inizio del sec. 9° per la prima fase costruttiva e al 10° per la sopraelevazione ad arcatelle, completato da un successivo tiburio del sec. 11° – sono ancora da dirimere.
Galassi (1953, p. 452) ipotizzava uno sviluppo del tiburio-cupola, dall’elevazione del mausoleo di Galla Placidia a Ravenna a quella di S. Pietro in Monastero, nel tiburio-campanile, quest’ultimo sviluppatosi dal tiburio sovrapposto nella riedificazione di S. Pietro in Monastero, fino al tiburio di S. Stefano a V., del maturo 12° secolo.
A Gazzo Veronese gli scavi effettuati tra il 1938 e il 1940 (Da Lisca, 1941) nella chiesa di S. Maria Maggiore, ricostruita nel sec. 12°, hanno rinvenuto materiale lapideo altomedievale. Oltre a pilastrini e plutei sono emersi i resti di un condotto destinato a raccogliere l’acqua piovana dal tetto per convogliarla in un’apposita vasca adibita alle esigenze lustrali dei fedeli, secondo quanto attesta una lunga iscrizione, conservatasi non integralmente, riferibile all’età di Liutprando (Lusuardi Siena, 1989, p. 177) per i caratteri epigrafici e sulla base di un diploma di Ludovico II, che nell’864 (Da Lisca, 1941, p. 173) confermava a Romualdo, abate di S. Maria in Organo a V., da cui Gazzo Veronese dipendeva, i beni già ricevuti da Liutprando e Ildeprando (736-744).
Si tratta di un rarissimo esempio, unico per il sec. 8°, di una soluzione tecnica attestata dalle fonti scritte già nel sec. 5°, di cui rimangono altre testimonianze nelle numerose cisterne poste nelle adiacenze delle chiese.
Gli estesi resti di mosaico pavimentale sono stati assegnati o all’avanzata età longobarda (Magagnato, 1982; Lusuardi Siena, 1989, p. 183; Lorenzoni, 1994, p. 105) o tra il sec. 8° e il 9° (Da Lisca, 1941; Barral i Altet, 1985, p. 90), in connessione con il restauro ricordato nell’iscrizione di consacrazione dell’altare, dell’846 (Lusuardi Siena, 1989, p. 184), promosso da Audiberto, abate di S. Maria in Organo a Verona.
Questi viene ricordato in due altre epigrafi su dischi di pietra: è commemorato come promotore del restauro dell’oratorio di Maruni in val Pantena, dell’838 in quella conservata nel Museo di Castelvecchio, Civ. Mus. d’Arte, e della costruzione di un altare e di una cuba – interpretabile come cupola di ciborio o di tiburio – in quella proveniente da Santa Sofia di Pedemonte in Valpolicella e oggi immurata nella chiesa di Sezzano di Valpolicella (Lusuardi Siena, 1989, pp. 183-184).
Nel sec. 10° si assiste a una ripresa dei traffici mercantili, che portarono a una crescita della città, che si intensificò ancor più nei due secoli successivi. I grandi patrimoni fondiari accumulati in età carolingia e ottoniana furono alla base della ricostruzione delle fabbriche religiose promosse nel sec. 11°, il cui carattere ‘neolatino’ del linguaggio architettonico, esemplato sulle prestigiose testimonianze monumentali romane, è stato sottolineato da Romanini (1964, p. 586).
Nel 1045 fu iniziata la costruzione della torre campanaria di S. Zeno Maggiore per opera di Alberico, eletto abate in quell’anno, come ricorda l’epigrafe immurata alla base (Valenzano, 1993, p. 213).
Al sec. 11° risalgono le absidi laterali della chiesa monastica, quasi completamente ricostruita a partire dal 1138.
Nelle immediate vicinanze di V., S. Michele a Mizzole, consacrata nel 1060, conserva frammenti pittorici ascrivibili al sec. 11° (Lorenzoni, 1994).
Un complesso ciclo pittorico, purtroppo in cattive condizioni, si conserva a S. Severo di Bardolino, edificio a tre navate costruito su uno precedente dotato di cripta, portata alla luce tra il 1927 e il 1932, ascritta al sec. 9°, in relazione alla prima citazione documentaria dell’893, a sua volta insistente su una basilica più antica. Il ciclo, raffigurante scene dell’Infanzia di Cristo e altre ispirate all’Apocalisse e alla Leggenda della Vera Croce, non ha appigli cronologici ed è stato ascritto a periodi diversi, entro il terzo quarto del sec. 11° (Christe, 1978, p. 107) o alla prima metà del 12° (Arslan, 1943, pp. 59-62; Segre Montel, Zuliani, 1991, pp. 126-127).
L’edificio, il cui aspetto è debitore degli interventi di restauro del 1942-1943 (Sala, 1987), ha colonne in laterizio, sormontate da bassi capitelli in pietra a tronco di piramide, decorati da semplici incisioni simboliche.
Un impianto non dissimile si conserva a S. Andrea a Sommacampagna, le cui navate sono suddivise da tozzi pilastri con capitelli cubici scantonati, e che conserva un Giudizio universale affrescato sulla controfacciata.
Assai interessante è la chiesa di San Giorgio in Valpolicella, a doppia abside e con la diversificazione dei sostegni tra la zona orientale (colonne) e quella occidentale (pilastri). Tale icnografia non è il risultato di due diverse campagne costruttive, come pure è stato supposto, ma è da ricondurre a una tipologia planimetrica elaborata in età carolingia e diffusa in età ottoniana, in relazione agli usi liturgici dello spazio, legati alla presenza di reliquie (Piva, in corso di stampa). I lacerti di affreschi, con episodi della Genesi, della navata destra, sono stati ascritti agli inizi del sec. 12° (Segre Montel, Zuliani, 1991, p. 126); con un Cristo Giudice in trono entro mandorla nella calotta dell’abside occidentale e serafini nel tamburo, sono forse databili ancora entro l’11° secolo.
L’edificio più significativo del sec. 11° è costituito da quanto rimane della chiesa dedicata ai ss. Fermo e Rustico (od. S. Fermo Maggiore), una delle costruzioni più interessanti nel panorama architettonico dell’Italia settentrionale tra i sec. 11° e 12°, che era preceduta da un atrio a due piani. La chiesa sorse nell’area dove il vescovo Annone aveva posto le reliquie in un sarcofago riccamente decorato (Versus de Verona, vv. 76-84).
La fabbrica fu radicalmente trasformata dai Francescani a partire dall’ultimo quarto del sec. 13°, come attesta il fregio dipinto nell’abside, ancora duecentesco. Rimane soltanto una struttura parzialmente interrata, suddivisa in quattro navate con transetto absidato e parte della struttura superiore dell’area presbiteriale, comprese le absidi laterali a tutta altezza che si aprono sul transetto.
La struttura inferiore, coperta da volte a crociera con nervature, impostate su archi lunati, è suddivisa in due navate laterali e in un vano centrale da pilastri, alternativamente a pianta quadrata e cruciforme, rastremati, sormontati da capitello e abaco, raccordati da una serie di eleganti modanature.
Il vano centrale, ulteriormente diviso in due navate da una serie omogenea di eleganti pilastri monolitici (o in due blocchi monolitici), dotati di entasi, si conclude in un’abside preceduta da un triforio che s’imposta su colonne e capitelli ionici di reimpiego.
Tale struttura, per l’ampiezza spaziale, è stata chiamata chiesa inferiore (Simeoni, 1905-1906) e messa in rapporto con la tipologia delle chiese a due piani, fino ad anni recenti (Schaller, 1994).
Arslan (1939) notò che la pianta della chiesa inferiore di S. Fermo Maggiore e quella dell’abbazia di Bernay, in Normandia, sono quasi sovrapponibili e suggerì un possibile collegamento attraverso la Borgogna, ove Guglielmo da Volpiano aveva a lungo soggiornato, promuovendo la costruzione della cattedrale di Saint-Bénigne a Digione. Tale ipotesi è stata ripresa e riproposta da tutti gli studiosi che si sono occupati, seppure marginalmente, di S. Fermo Maggiore.
Un recente esaustivo studio (Trevisan, 1999) ha ipotizzato una diversa e convincente lettura degli alzati, che si discosta in due punti essenziali da quella finora seguita, a partire dallo studio di Arslan (1939).
Trevisan ha accertato che il documento del 1019 si limita ad attestare l’esistenza della chiesa, probabilmente dipendente dal Capitolo di V., senza citare la presenza benedettina, che si sarebbe insediata solo più tardi, forse a ridosso della decisione di ricostruire l’edificio iniziato nel 1065, come ricorda un’epigrafe immurata in un pilastro. Un abate è menzionato in un documento databile tra il 1082 e il 1087.
Un punto essenziale della rilettura di Trevisan è dato dalla mancanza di un vero e proprio transetto, tanto che è stato adottato un termine d’uso per l’architettura carolingia, gli ‘annessi’, ossia due corpi di fabbrica aggregati al corpo delle navate – sporgenti in pianta e di altezza pari a quella delle navatelle – absidati. Del tutto convincente è l’ipotesi, avanzata per la prima volta sulla base di una stringente e persuasiva analisi muraria, che il campanile sia stato innalzato contestualmente alla chiesa, fino a un certo livello e non successivamente.
Ancora, dall’analisi dei dati sull’avancorpo e delle parti sopravvissute nella chiesa superiore, Trevisan crede che si debba abbandonare la tradizionale dizione di chiesa superiore e di chiesa inferiore, adottando per quest’ultima il termine di cripta. Originariamente infatti il vano inferiore non aveva alcun accesso diretto all’esterno e comunicava esclusivamente con la chiesa attraverso otto gradini ricavati nello spessore di muro: pertanto le funzioni non potevano essere distinte e indipendenti da quelle della chiesa.
La datazione anticipata rispetto a quella di Arslan (1939), che aveva individuato due differenti fasi edilizie – la prima responsabile solo dell’impostazione dei muri perimetrali fino a una certa altezza, sottolineata dal cambio di materiale edilizio, iniziata nel 1065; la seconda responsabile dell’impostazione del sistema di copertura della chiesa inferiore e della costruzione della chiesa superiore nella prima metà del sec. 12° -, è supportata da puntuali osservazioni sui materiali e sulle tecniche di lavorazione, tra cui l’indissolubile legame tra cripta e chiesa, che porta a rendere difficilmente plausibile l’ipotesi di stasi di cantiere e di tempi eccessivamente dilatati.
È stata inoltre individuata la presenza del contrafforte a sperone (Trevisan, 1999, p. 96), vero leitmotiv dell’architettura romanica veronese (Valenzano, 1993, pp. 1, 23-24).
Un dato particolarmente persuasivo è rappresentato dal possibile termine ante quem costituito dalla lamina iscritta che riferisce della consacrazione di reliquie, posta dal vescovo Zufeto (1107-1111) nell’abside laterale di S. Lorenzo, visti i rapporti di dipendenza del cantiere di tale chiesa da quello di S. Fermo Maggiore.
Dall’analisi dei capitelli emergono ancora più evidenti gli stretti rapporti tra i due cantieri, tanto che a ragione si può parlare della stessa maestranza, che appare aggiornata su quanto avveniva nel cantiere del terzo S. Marco di Venezia, fondato nel 1063.
La rilettura di S. Fermo Maggiore toglie valore all’ipotesi di una derivazione borgognona della pianta, già creduta riconducibile a uno schema di filiazione cluniacense, e costituisce un’importante prova della presenza a V. di maestranze capaci di elaborare varie suggestioni in un linguaggio non riconducibile alle più usuali schematizzazioni delle scuole regionali del Romanico lombardo o veneziano.
Che la medesima maestranza attiva a S. Fermo Maggiore abbia realizzato S. Lorenzo è avvalorato, oltre che dalla precisa corrispondenza planimetrica, dall’analisi delle tecniche di apparecchiatura muraria e dai riscontri dell’apparato decorativo (Simeoni, 1905-1906, p. 131; Arslan, 1939, pp. 23, 169-175; Romanini, 1964, p. 615; Trevisan, 1999, p. 111).
Nell’alzato di S. Lorenzo compaiono significative divergenze che testimoniano il possesso, da parte di questa maestranza veronese – Trevisan (1999, pp. 188-196), diversamente, ritiene si tratti di una maestranza lagunare – di straordinaria versatilità nella prassi progettuale e di una non comune ricchezza di riferimenti tipologici e formali.
La chiesa, oggetto di una radicale campagna di restauro della fine dell’Ottocento – sulla quale si possiedono precise informazioni grazie alle foto dell’archivio di Porter, che ispezionò e fotografò l’edificio (Porter, 1915-1917) e a precise relazioni di restauro (Trevisan, 1999, pp. 197-198) -, presenta una pianta con tre navate absidate e transetto con absidi orientate; le navate sono scandite da sostegni a ritmo alternato, pilastri compositi, di forma quadrata con lesene e semicolonne addossate, e colonne monolitiche.
Matronei con ampie arcate corrono sopra le navate laterali, dalla controfacciata, e sono collegati da una tribuna, costruita nei restauri fino a comprendere i bracci del transetto e i collaterali del santuario. Si accede ai matronei grazie a due ampie torri scalari, addossate in facciata, che ne enfatizzano il prospetto, già interpretate dall’erudizione settecentesca locale come la sopravvivenza di resti di antiche torri romane, ma di cui sono evidenti i rapporti con l’architettura esarcale nella soluzione delle torri scalari del S. Vitale di Ravenna.
Per i matronei sono stati richiamati gli esempi normanni di Cerisy-la-Forêt e Jumièges, Tournai, Peterborough, Clermont-Ferrand (Arslan, 1939, p. 178), ristretti alla cattedrale di Bayeux (Trevisan, 1999, p. 199).
La chiesa dovette essere completata entro il 1110: non sono infatti accettabili le osservazioni di Arslan (1939, pp. 169-178), che ipotizzava due diverse fasi costruttive, attribuendo alla seconda, riferita alla metà del sec. 12°, la responsabilità di una profonda trasformazione del precedente edificio con l’innalzamento delle volte e dei matronei.
La realizzazione di edifici dalle sofisticate e complesse articolazioni spaziali a due livelli, quali S. Fermo Maggiore e S. Lorenzo, rende plausibile l’ipotesi, adombrata da Peroni (1999, p. 67) di una formazione veronese da parte dell’architetto Lanfranco, l’insigne costruttore del duomo di Modena.
Le radicali trasformazioni dei due edifici più importanti della città, il duomo e la chiesa benedettina del monastero di S. Zeno, le cui ricostruzioni furono parimenti incominciate nella prima metà del sec. 12°, non consentono di valutare appieno l’evoluzione del linguaggio delle maestranze veronesi, che, nelle numerose costruzioni realizzate nel corso del secolo – Ss. Apostoli, SS. Trinità, S. Maria Antica, S. Michele, detto Madonna di Stra a Belfiore, S. Giovanni in Valle con ampia cripta -, sembra volgersi verso una semplificazione della resa degli spazi, privilegiando il modello basilicale.
Nell’area della cattedrale furono riedificati il battistero di S. Giovanni in Fonte, nel 1123, e la chiesa di S. Elena, consacrata nel 1140, e fu avviata la costruzione del chiostro, attestato almeno dal 1122.
Non vi sono appigli cronologici sicuri per la ricostruzione della cattedrale, a parte una notizia tarda che testimonia l’inizio dei lavori nel 1139 (Bartoli, 1987, p. 101).
Nel 1160 fu ricostruita la sagrestia, nel 1185 fu tenuto il concilio da papa Lucio III, che morì in quell’anno e fu sepolto proprio nella cattedrale.
Dall’analisi delle strutture murarie e dei paramenti decorativi è stato possibile ipotizzare un avvio dei lavori verso il 1120 (Bartoli, 1987).
Della chiesa romanica – che taglia la struttura nota con il nome di atrio di S. Maria Matricolare, dei primi del sec. 12°, e già creduta cripta della cattedrale rateriana – si conservano i muri perimetrali fino a una certa altezza, ca. metà di quella attuale, parte della facciata e parte della navata centrale, inglobata nei sottotetti delle navatelle, che presenta motivi decorativi realizzati dalla stessa maestranza veronese attiva al fregio absidale e nei fregi che decorano la facciata e il fianco sud (questi ultimi smontati e ricomposti, con l’inversione dell’ordine nella ristrutturazione quattrocentesca che ha radicalmente trasformato l’interno dell’edificio), e la zona orientale dell’od. quinta campata fino alla testata absidale.
L’abside, solcata da sottili paraste sormontate da capitelli corinzi o compositi a sostenere una cornice decorata, costituisce uno degli esiti più caratteristici della cultura delle maestranze veronesi che raggiunsero soluzioni di capzioso classicismo nell’esibizione di modanature classiche, quali gole, scozie, dentelli.
Sul fianco meridionale si apre un portale con protiro che presenta alcune sculture avvicinate a un arco scolpito, proveniente dalla cattedrale (Verona, Mus. di Castelvecchio, Civ. Mus. d’Arte), con iscrizione sottoscritta dallo stesso scultore entrato nella storiografia veronese con il nome di Peregrino: “Sum Pele / grinus ego / qui talia / sic bene sculp(t)o / quem Deus in / altum faciat / conscendere celi(um)”.
All’artista, attivo nel cantiere del duomo, è riferibile un corpus di sculture contraddistinte da stilemi ben individualizzati, tra cui i capitelli del portico del palazzo del Vescovado e i fregi dell’abside settentrionale di S. Giovanni in Valle (Arslan, 1943, p. 89).
Dirompente fu senz’altro l’effetto della scultura di Nicolò (v.), che realizzò per la cattedrale il portale occidentale racchiuso dal protiro a due piani, l’unico integralmente conservato di quelli progettati e realizzati dall’artista.
Con l’ingombrante presenza di Nicolò nel capoluogo veronese, gli scultori cresciuti all’ombra di Peregrino diffusero il loro linguaggio in alcune chiese del territorio, come il santuario della Bastia di Isola della Scala, la pieve di San Floriano in Valpolicella o S. Pietro Apostolo di Villanova.
Nicolò lavorò, oltre che per il protiro della cattedrale, anche per la ristrutturazione della chiesa del monastero benedettino più importante della città, fondato nell’area cimiteriale romana, dove era stato innalzato un sacello ad corpus per conservare i resti di s. Zeno (m. nel 380), a opera del vescovo Ratoldo (803-840) e del re d’Italia Pipino (m. nell’810), figlio di Carlo Magno. La costruzione del complesso monastico rilanciò il culto di s. Zeno.
Alla crescita del monastero contribuì lo stretto legame tra il cenobio e gli imperatori, che vi fissarono la loro residenza abituale nelle soste a V., passaggio obbligato per scendere verso la penisola italiana. Ottone I il Grande (m. nel 973), in una di queste visite, accordò un dono al vescovo Raterio per promuovere la ricostruzione della chiesa di S. Zeno Maggiore.
Seguirono altre importanti donazioni e privilegi che costituirono la base dell’incremento patrimoniale che permise a sua volta l’intensificazione dello sfruttamento economico dei beni territoriali.
Le alte rendite accumulate consentirono la promozione degli importanti interventi costruttivi che si susseguirono nel corso di questi secoli.
Nel corso del sec. 12° fu riedificato anche il campanile, mantenendo la base fino al primo livello della costruzione iniziata nel 1045 e completato con l’innalzamento, promosso dall’abate Gerardo (come recita la lunga iscrizione incisa lungo il fianco sud), “delle logge nuove sopra quelle vecchie e facendo costruire la pigna, realizzata in modo straordinario.
In questa realizzazione fu aiutato da altri valenti uomini religiosi, in primo luogo dai suoi fratelli Salomone e Rainaldo (Valenzano, 1993, pp. 215-218), indicati con il termine di operis massarii, vale a dire responsabili economici, con funzioni parzialmente assimilabili a quelle dei moderni impresari.
Tale opera fu eseguita dal magister Martino, che sembra assommare in sé le competenze di un architetto e di un ingegnere strutturista, data l’enfasi con cui è menzionato il peso della costruzione, che risulta di più di 500 libbre (Costruire, 1993, p. 27).
Nel 1138 fu ampliata e ricostruita la chiesa, conservando le testate delle navatelle con le absidiole e qualche tratto di muro dell’edificio precedente. Si tratta di una basilica a tre navate con archi trasversi e soffittatura lignea, dotata di un’ampia cripta, frutto di un’ulteriore trasformazione. L’avvio del cantiere avvenne dalla facciata progredendo verso E, per collegarsi con la chiesa precedente, che venne conservata per evidenti ragioni liturgiche. Nella stessa campagna fu demolito l’edificio preesistente, a eccezione della zona orientale, e si procedette alla costruzione, settore murario per settore, fino al collegamento con le strutture preesistenti, che furono rialzate (Valenzano, 1993).
Un’ipotesi ricostruttiva diversa era stata avanzata da Arslan (1939, pp. 192, 199-201) che individuava nelle parti orientali più antiche una realizzazione degli inizi del sec. 12°, ampliata nel 1138 con la costruzione dei settori caratterizzati dalla tessitura muraria a filari alternati di cotto e tufo, ulteriormente prolungata e innalzata a opera di Brioloto e Adamino da San Giorgio (v.) con la costruzione del corpo occidentale e della nuova facciata, in cui sarebbe stato rimontato il materiale scolpito dalla fronte precedente.
Il fitto dibattito storiografico si è incentrato sulla realizzazione delle formelle bronzee, opera di due diversi ateliers, comunque ascritte unanimemente al sec. 12° (Mende, 1983; Zuliani, 1990), e sul ruolo svolto da Nicolò nella ricostruzione del 1138 (Peroni, 1985; Quintavalle, 1985; Gädeke, 1988).
Nicolò firmò la lunetta con S. Zeno che benedice il popolo veronese, rappresentato dai milites e i pedites, consacrando l’istituzione comunale. Realizzò il protiro con l’architrave con le raffigurazioni dei Mesi e ripeté la sua firma sulla lastra della Creazione dell’uomo tra le scene veterotestamentarie.
A S. Zeno Maggiore Nicolò approfondì il rapporto con l’Antico (Valenzano, 1995) e accompagnò le sculture con esametri leonini, in cui sono rintracciabili riferimenti a poeti classici e carolingi, dettatigli dall’ideatore del programma, probabilmente un dotto monaco benedettino.
I rilievi di sinistra, con scene del Nuovo Testamento, sono firmati da Guglielmo (Valenzano, 1993, pp. 126, 233-234), un collaboratore di Nicolò, individuabile già a Ferrara.
I rilievi inferiori con le scene dei duelli, l’enigmatica e sconosciuta Mataliana scolpita nel blocco entro il contrafforte a sperone e la leggenda di Teodorico, giudicati non pertinenti al programma originario della facciata e ritenuti parte di un pontile o di un monumento sepolcrale, sono invece da considerarsi parte integrante e strettamente collegati sia dal punto di vista esecutivo sia da quello simbolico: richiamano infatti alla necessità di mondarsi dall’ira e dall’omicidio, che portano alla dannazione, prima di entrare in chiesa. Sono riconducibili a Nicolò anche i capitelli.
Un altro argomento di discussione è costituito dalla determinazione delle modalità di intervento sull’edificio del sec. 12° da parte di Adamino da San Giorgio e di Brioloto, documentato dal 1181 al 1215, risultante già morto nel gennaio del 1226 (Valenzano, 1993, pp. 220-221; Costruire, 1993, pp. 27-28), esaltato nell’epigrafe, oggi immurata entro la parete sud all’interno della chiesa, per aver realizzato la ruota della Fortuna.
Nella parte centrale del rosone corre, incisa, la seguente iscrizione: “En ego fortuna moderor mortalibus una / elevo depono bona cunctis vel mala dono”. All’interno della chiesa, nella zona corrispondente, il testo prosegue così: “induo nudatos denudo veste paratos / in me confidit si quis derisus adibit”. Il soggetto costituisce un imprescindibile corollario al programma della facciata e del protiro, contrapponendo al tempo divino quello in cui sono costretti a vivere gli uomini. Il programma figurativo della facciata era completato dal Giudizio universale inciso, un tempo dipinto.
Lacerti di pitture con episodi della Genesi sono conservati entro gli archetti del coronamento dei primi due settori occidentali della navata centrale, a coronamento del sovralzamento della facciata e dell’edificio a opera di Brioloto e di Adamino da San Giorgio.
In tali anni lavorarono anche altri muratori, come un Mustus murarius con il figlio Benedetto, ricordati nei registri di documenti (Verona, Arch. di Stato; Valenzano, 1993, p. 223).
L’opera di trasformazione della chiesa, con la ricostruzione della parte alta della navata centrale e l’inserimento di ampie bifore nelle pareti delle navatelle, iniziata nel Duecento, fu interrotta per essere ripresa nella seconda metà del Trecento e terminata con la completa ricostruzione dell’abside, a opera di Giovanni da Ferrara e del figlio Nicola, tra il 1386 e il 1398, e con la realizzazione del soffitto a carena di nave sulla navata centrale.
Adamino da San Giorgio, documentato nel 1215, firma un capitello su cui si impostano gli arconi settentrionali scolpiti, di accesso alla cripta.
È stato pertanto ritenuto responsabile della sensibile trasformazione dell’area presbiteriale, che doveva essere completata da un pontile in muratura (l’od. balaustra è frutto del restauro progettato da Giacomo Franco nel 1870), eliminato nelle trasformazioni cinquecentesche.
È stato ipotizzato che i resti di affreschi sulla fronte dei tre arconi centrali della cripta, con la scritta Imperator, siano da mettere in relazione con la raffigurazione dell’Incredulità di s. Tommaso del gruppo di notevoli statue, con allusione all’eresia catara, contro cui l’imperatore Federico II di Svevia attuò nel 1238, anche a V., severi provvedimenti (Zuliani, 1992, p. 38).
Le sculture sono state attribuite, senza fondamento, a Brioloto (Neumann, 1979), insieme ad altre sculture duecentesche veronesi da tempo note (Arslan, 1943).
In una loggia del palazzo abbaziale fu affrescata una scena di omaggio a Federico II, che venne accolto con grandi onori nel 1212 e che assistette davanti alla basilica alla lettura del bando contro i nemici dell’impero, promulgato da Pier delle Vigne (Zuliani, 1992).
Nella chiesa di S. Zeno Maggiore furono inoltre celebrate le nozze tra la figlia naturale dell’imperatore, Selvaggia, ed Ezzelino da Romano (1194-1259).
Nel corso del sec. 13° furono realizzate molte opere che però non presentano, dal punto di vista progettuale e strutturale, elementi di grande novità.
Il palazzo della Ragione (od. palazzo del Comune), eretto a ridosso del 1193-1196, se riprende in forme più pausate e preordinate l’articolazione parietale elaborata nel cantiere zenoniano, costituì un modello per l’edilizia civile.
Delle numerose case-torri, attestate dai documenti, rimangono alcuni esempi: tra i più significativi quella di vicolo del Moro o le due di palazzo Pellegrini Bissoni Trabucchi.
Lo sviluppo urbanistico medievale ha privilegiato l’impianto a corte, a differenza di altri centri medievali (Ambienti, 1987, p. 23). Discontinua era inoltre la conformazione dei perimetri altimetrici; case a un solo solaio si alternavano a vere e proprie torri, come documentano le strutture abitative di fondazione duecentesca in via S. Giovanni in Valle a corte del Duca.
Negli edifici è presente la struttura a capanna dell’ultimo piano, sottolineata all’interno da decorazioni pittoriche che seguivano l’inclinazione della falda del tetto.
I materiali usati nell’edilizia privata sono gli stessi di quella religiosa: tufo, laterizio, quasi sempre di reimpiego, almeno fino al sec. 13° inoltrato, quando si assiste a una maggiore regolarità del paramento in cotto, realizzato appositamente da nuove fornaci.
Gli interni degli edifici di prestigio erano decorati da pitture, come mostrano alcuni significativi ritrovamenti (Ambienti, 1987; Cozzi, 1992, p. 203), a cui si aggiungono gli affreschi duecenteschi del chiostro capitolare.
Verso la fine del sec. 13°, con l’elezione di Alberto I Della Scala (1277-1301) a capitano del popolo a vita, iniziò la signoria scaligera (v. Scaligeri), venute meno le esigenze di difesa privata con la fine delle lotte di fazione, si assistette a un rinnovato fervore edilizio, che portò a un radicale rinnovamento delle tipologie abitative, in cui compare frequentemente il motivo della loggia murata o del ballatoio in legno. Ad Alberto si devono importanti imprese edilizie.
Egli munì il ponte della Pietra di una porta fortificata, diede inizio alla costruzione del ponte Nuovo e del castello adiacente, contribuì all’erezione della chiesa domenicana dedicata a s. Pietro Martire (od. S. Anastasia), potenziò la cinta urbana realizzata in età ezzeliniana
Fece edificare le ‘regaste’ (argini fortificati merlati), per controllare le piene dell’Adige, e promosse l’erezione della Domus mercatorum (1301) e della loggia delle Sgarzerie (mercato delle lane).
Con Cangrande I della Scala (1308-1329), che ricevette nel 1311 con Alboino la nomina di vicario imperiale, il dominio scaligero raggiunse il suo apogeo. La nuova cinta muraria, che contava sei porte e ventuno torrette, doveva modificare il profilo di V., assurta a capitale di un esteso dominio territoriale. L’impresa costituisce ancora oggi un forte impatto visivo nei resti imponenti delle mura realizzate nel 1324 sulla riva sinistra, con le diciotto torri ancora esistenti, che si inerpicano lungo le asperità del colle.
La Verona di Cangrande I appare dalle fonti come un grande cantiere di opere civili, militari e religiose. Non stupisce che Vasari, nell’edizione giuntina delle Vite del 1568, aggiornata sulla scorta delle informazioni fornitegli da una fonte veronese, fra Marco de’ Medici, aggiunse nella biografia di Giotto che l’artista fiorentino sarebbe passato “a Verona, dove a messer Cane fece nel suo palazzo alcune pitture, e particolarmente il ritratto di quel signore; e ne’ frati di S. Francesco una tavola” (Vasari, Le Vite, II, 1967, p. 107).
Il senso del panegirico vasariano è stato inteso come ‘memoria indiretta’ di un importante cantiere giottesco per quegli stessi committenti (De Marchi, 2000).
Dopo i primi studi sul giottismo veronese, caratterizzato dall’omissione di qualsiasi fondo architettonico, disegnato piuttosto che dipinto, e quasi privo di modellatura (Sandberg Vavalà, 1926, p. 60) e la puntualizzazione di alcune personalità dai nomi convenzionali come il Primo Maestro di S. Zeno, seguirono importanti precisazioni, come il riconoscimento del Maestro del Redentore (Cuppini, 1965).
Ancora di recente (Cozzi, 1992) è stato ripetuto che la cultura pittorica veronese nella prima metà del Trecento è affidata soprattutto a riquadri votivi isolati, mancando i “grandi cicli narrativi, impalcati dalla spazialità giottesca, come succede, sia pure con risultati alterni, in tutti i centri toccati dal passaggio di Giotto” (Zuliani, 1974, p. 23).
In realtà una precoce e sensibile assimilazione delle conquiste del Giotto della cappella degli Scrovegni è documentata dalla grandiosa decorazione di S. Fermo Maggiore, che, avviata dall’abside, era volta a coinvolgere l’intera chiesa.
I Francescani, insediatisi in città, ricevuta fin dal 1248 la chiesa romanica di S. Fermo Maggiore, dell’Ordine benedettino, che occuparono tra il 1257 e il 1259 (Trevisan, 1999), ne ristrutturarono radicalmente la fabbrica.
Le prime trasformazioni riguardarono il coro e l’abside, elevati nel Duecento, seppure non ancora voltati, come prova la prima decorazione, tipicamente duecentesca, con grandi fregi a girali su fondo nero nelle lunette delle pareti laterali del presbiterio, interrotti dalle volte. L’intervento proseguì con l’eliminazione della tripartizione in navate per creare un’unica aula-granaio, coperta al principio del Trecento dalla carena lignea, dipinta probabilmente dalla stessa bottega del Maestro del Redentore con una serie nutrita di santi a mezzo busto, di fattura assai compendiaria (De Marchi, 2000).
Una formazione del Maestro del Redentore – che trae il nome dal Cristo in maestà raffigurato nella vela centrale dell’abside di S. Fermo Maggiore – nel cantiere padovano della cappella degli Scrovegni è stata ipotizzata per “la tessitura pittorica sfumata, seppur più astrattamente lucente e volutamente sommaria nei profili dal segno grasso, […] straordinaria interpretazione della matura naturalezza del Giotto padovano, riportata a valori di più icastica espressività” (De Marchi, 2000).
Responsabile dell’ardito progetto fu il padre guardiano fra Daniele Gusmerio, immortalato nel 1314 sull’arco trionfale, la cui munificenza è celebrata dall’iscrizione sovrastante, per l’offerta delle vetrate, delle pitture, della navata del coro e altro ancora. Sull’altro lato compare Guglielmo Castelbarco, il potente signore della val Lagarina, fedele alleato di Cangrande I Della Scala, che contribuì in maniera decisiva al finanziamento delle stesse imprese.
Che la decorazione sia stata progettata unitariamente è provato dai motivi decorativi architettonico-illusionistici.
I singoli riquadri, dei due transetti e della navata, furono studiati ognuno a sé stante, attribuiti a maestri diversi che si sarebbero caoticamente avvicendati. Merito di De Marchi (2000) è aver proposto una lettura unitaria del complesso figurativo, unico grandioso progetto decorativo realizzato a Verona, e significativamente in un cantiere francescano, prima della metà del Trecento, eseguito dalla bottega del Maestro del Redentore verso il 1330, a eccezione di due interventi: a opera il primo di un atelier giunto da Venezia con una cultura paleologa, responsabile dell’Incoronazione della Vergine e dell’Adorazione dei Magi, e il secondo di un pittore più giovane, emerso in seno alla bottega del Maestro del Redentore, la cui attività matura coincide con quella del Secondo Maestro di S. Zeno (Sandberg Vavalà, 1926), che da solo intraprese a dipingere il transetto sinistro con un ciclo francescano e la Crocifissione della cappella di S. Antonio, conformandosi comunque ai medesimi partiti decorativi.
Non condivisibile è l’idea di individuare in Paolo Veneziano il maestro di cultura veneziana filopaleologa, responsabile per qualche anno dell’orchestrazione delle pitture del fregio.
La decorazione dei due transetti venne quindi affidata al Maestro del Redentore e a un suo giovane seguace.
Il Maestro del Redentore, che aveva inteso la sintesi plastica delle figure del Giotto padovano, estraendola dalla complessa articolazione spaziale sapientemente costruita dal maestro toscano, influenzò con le sue possenti figure uno scultore come il Maestro di S. Anastasia, autore del gruppo della Crocifissione (Verona, Mus. di Castelvecchio, Civ. Mus. d’Arte), di esasperato e intenso realismo nella durezza delle smorfie.
Accanto ai maestri attivi nei numerosi affreschi votivi, la cultura pittorica veronese, nei primi decenni del secolo, è testimoniata dal paliotto detto dei Sette santi (Verona, Mus. di Castelvecchio, Civ. Mus. d’Arte), opera di un anonimo maestro intorno al 1320 ca. (Lucco, 1986, p. 116), e da raffinati codici miniati (Verona, Bibl. Capitolare).
Il pittore che dipinse il Battesimo di Cristo in S. Anastasia, già identificato con lo pseudo-Jacopino – Cozzi (1992) fa sua l’attribuzione di Arcangeli (Pittura bolognese del ‘300, 1978) a Jacopino di Francesco de’ Bavosi, ma in modo poco persuasivo (Lucco, 1986, p. 116; De Marchi, 1999, p. 14) -, per le durezze del panneggio e il giottismo severo e dogmatico nella riproposizione delle rocce scalfite, si caratterizza per i toni aspri e l’intemperanza dei gesti.
Dai documenti (Fainelli, 1910) sono noti i nomi dei pittori Gerardo, Geteno, Tommaso da S. Maria in Organo, detto Macario, Provalo della Beverara e Giovanni da S. Vitale.
Negli anni quaranta e cinquanta a Verona, toccata dall’influenza lombarda e veneziana, sono menzionati numerosi pittori, tra cui Nicolò da S. Eufemia, Rizzardo, Marchesio, e vari maestri, a loro volta figli di pittori, a documentare la tradizione di botteghe familiari (Cenci, 1966).
Per Verona fu attivo Lorenzo Veneziano (v.), al quale si deve la Madonna dell’Umiltà, dipinta per S. Anastasia (Guarnieri, 1998, p. 16), un tempo sul tramezzo della medesima chiesa, da cui provengono, dello stesso pittore, anche la Croce, ora in S. Zeno Maggiore, e un dipinto, non più rintracciato, datato 1356, posseduto nel 1731 da Scipione Maffei.
Negli stessi anni si svolse l’attività di Turone (v.), che un documento dice proveniente dalla diocesi milanese (Cuppini, 1965).
Le commissioni della corte viscontea costituirono senz’altro un polo di attrazione per gli artisti più ambiziosi, e da tempo è stata riconosciuta la formazione milanese (Volpe, 1983, pp. 301-302) del pittore Altichiero (v.), che a Verona dipinse la decorazione della sala grande del palazzo di Cansignorio (od. prefettura), compiuto nel 1364, con episodi tratti dalla Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio, di cui rimangono solo alcune teste di imperatori (Verona, Mus. degli Affreschi G.B. Cavalcaselle).
Verso la fine del secolo sono documentati Giacomo da Riva, Bartolomeo Badile, Martino da V., Jacopo da Verona.
Nell’impossibilità di elencare i numerosi affreschi che si dispiegano sulle pareti delle principali chiese di Verona. (S. Fermo Maggiore, S. Zeno Maggiore, S. Anastasia), conviene almeno richiamare la chiesa di S. Giorgio dei Domenicani (od. S. Giorgetto), un raro esempio di arredo interno datato intorno al 1353 (Gerola, 1912, p. 205).
Le cronache rendono edotti sulle opere pubbliche promosse da Cansignorio: tra esse vi è il sistema idrico che portò in città l’acqua dei Lorì di Avesa, convogliandola fino alla fontana, detta di Madonna V., fatta realizzare in piazza delle Erbe. Su di essa fu posta una statua di età imperiale romana, restaurata con l’integrazione di braccia e testa, dorata, a raffigurare la Vergine.
Nel 1370 la città venne dotata di un orologio.
Tra il 1373 e il 1375 fu costruito il ponte delle Navi, munito di torri.
Lo stesso Cansignorio affidò l’edificazione della sua fastosa arca a Bonino da Campione, il celebre scultore attivo in Lombardia, artista prediletto da Bernabò Visconti, il quale la terminò nel 1375; essa era destinata a coronare il complesso monumentale, nato come mausoleo della signoria scaligera, con la realizzazione di sarcofagi non scolpiti, senza un preciso programma, a partire dalla fine del Duecento. Nonostante la cospicua messe di studi, molti aspetti del sepolcreto monumentale rimangono un’incognita.
Recentemente è stata ribadita l’ipotesi, già avanzata da Simeoni (1919) e ripresa da Seiler (1994), che il primo sarcofago figurato – attribuito alla figura documentata solo da testimonianze scritte di Rigino di Enrico (Mellini, 1971) – non fosse stato realizzato per Alberto I (m. nel 1301), bensì fosse destinato a essere la prima tomba di Cangrande I, del 1330 ca., ipotesi avvalorata con la notizia che l’epitaffio sarebbe stato scritto da un Grimani, famiglia di notai attivi per Cangrande I (Varanini, 1995, p. 28).
Il sepolcro di Cangrande I non è mai citato dalle fonti tre-quattrocentesche che descrivono le arche di Mastino II e Cansignorio.
L’arca-mausoleo di Cangrande I, fatta realizzare con la propria da Mastino II, sarebbe opera di Giovanni di Rigino (Melini, 1971), artista di cui non si sono con certezza ritrovate altre opere. Se l’ideologia sottesa a questo programma di celebrazione dinastica, perseguito con scelte tanto monumentali quanto inusuali, è stata ampiamente indagata (Donato, 1995), rimangono ancora da determinare, non solo i nomi degli artisti, ma anche le loro precise caratterizzazioni stilistiche e culturali che possano giustificarne le novità.
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Fonte: Trecani.it
Link: http://www.treccani.it/enciclopedia/verona_(Enciclopedia-dell’-Arte-Medievale)/#