Settembre 5, 2014 Giacomo Rocchi
«Ma che legittimazione abbiamo noi?». La risposta di Giacomo Rocchi, consigliere del Csm, alla lettera del collega che celebra le «decisioni innovative» dei giudici «coraggiosi» sui nuovi diritti
Pubblichiamo la lettera di Giacomo Rocchi, magistrato e consigliere della Corte di Cassazione, inviata a Repubblica (e per conoscenza a Tempi) in risposta all’intervento del collega Mario Fresa su nuovi diritti e «decisioni giurisprudenziali innovative», apparso sempre su Repubblica mercoledì 3 settembre.
Gentile Direttore, mi permetta una replica alla lettera del collega Mario Fresa apparsa sul suo quotidiano.
Cerco sempre di ricordare perché e come lo Stato mi ha assunto come magistrato: dopo quattro anni di studi di giurisprudenza, nel concorso ho affrontato tre scritti di diritto (civile, penale e amministrativo) e poi una prova orale su innumerevoli materie giuridiche; ho dimostrato di conoscerle e di saper scrivere un dignitoso trattato su specifici quesiti: e questo è bastato. Il vaglio della mia persona si è fermato lì, mentre durante il periodo di tirocinio è stato sufficiente dimostrare di essere disposti a faticare e di non essere affetti da qualche malattia mentale.
Dopo due anni, chiedevo ed ottenevo la custodia in carcere o la condanna (o l’assoluzione) per tante persone, mentre altri neo magistrati condannavano soggetti o società al pagamento di ingenti somme di denaro, pronunciavano fallimenti, affidavano figli minori alla madre o al padre e così via: insomma, prendevano (come me) decisioni che incidevano pesantemente sulla vita delle persone.
Ma noi magistrati che legittimazione abbiamo? Come facciamo a pronunciare sentenze “in nome del popolo italiano” se questo popolo non ci conosce e non ci ha scelto? Nella mia esperienza lavorativa ho cercato di darmi qualche risposta.
“Professionalità”, certo: che significa conoscenza approfondita della materia, esercizio adeguato delle nostre capacità interpretative, ma anche studio approfondito degli atti – di tutti gli atti – e ascolto attento delle ragioni delle parti, e infine esposizione sincera e completa delle ragioni della decisione.
“Impegno”: lavorare tanto – pur senza confondere vita e professione – ricordando che siamo decentemente retribuiti.
“Responsabilità”: il nostro lavoro è fatto di continue decisioni, spesso pesantissime per chi le riceve, e non possiamo né dobbiamo evitarle.
“Prevedibilità”: sì, qui emerge la mia perplessità rispetto al “coraggio” evocato da Fresa, alla sua indicazione un po’ sprezzante dei magistrati “conformisti” che si appoggiano alla più “agevole” interpretazione letterale (e che quindi sono anche un po’ pigri). Io il coraggio lo riserverei ad altre situazioni (che talvolta possono capitare), soprattutto osservando che la sua manifestazione da parte dei colleghi che “hanno spostato verso orizzonti più lontani le frontiere dei diritti fondamentali dell’uomo”, per dirla con Fresa, è accompagnato da incondizionato plauso dei commentatori, del resto spesso tenacemente cercato dagli estensori delle sentenze “coraggiose”. Mi sono convinto che un indice abbastanza sicuro della giustizia della decisione – del resto noi dobbiamo fare giustizia nel caso singolo, no?, dobbiamo dire al rapinatore a quale pena lo condanniamo o quantificare l’assegno di mantenimento per il coniuge separato – è che le parti sappiano prevederla, a prescindere da quello che hanno sostenuto nella discussione finale, orale o scritta. Questa prevedibilità nasce dal rispetto della legge e dell’insegnamento di legittimità (ovviamente quest’ultimo superabile con adeguata motivazione).
“Evitare la notorietà”: la massima parte del nostro lavoro riguarda casi banali, persone sconosciute (spesso disgraziate), decisioni di non enorme rilievo oppure scontate. Certo: capisco che per taluno ciò provoca una certa agitazione, ma questi sono i nostri “clienti”…
Concludo: non credo affatto che il compito dei magistrati sia quello di “scoprire” nuovi diritti fondamentali e di censurare il legislatore inerte “sempre meno disponibile al perseguimento del bene comune”: una visione del genere, oltre ad essere (quasi) esplicitamente antidemocratica, presuppone una magistratura che sia “punta di diamante” della società, pronta a guidarla e ad accompagnarla nella sua evoluzione.
Non ci illudiamo: non lo siamo affatto. Molte delle decisioni ricordate da Fresa sono frutto di forzature, di violazioni di legge, di cancellazione di una delle parti (un solo esempio: l’embrione che la legge riconosce “soggetto di diritto” totalmente ignorato nelle decisioni che ne hanno permesso il vivisezionamento mediante la diagnosi genetica preimpianto); soprattutto sono perfettamente conformi – mi verrebbe da dire: “conformiste” – all’individualismo diffuso che trasforma in “diritto fondamentale” qualsiasi aspirazione – legittima o talvolta nemmeno – degli adulti benestanti adeguatamente assistiti da ottimi avvocati.
Forse non sarò “coraggioso”, ma ci illudiamo se pensiamo che si tratti davvero della “garanzia più autentica della difesa dei diritti umani”.
Grazie per l’attenzione,
Giacomo Rocchi consigliere della Corte di Cassazione
Fonte: visto su TEMPI del 5 settembre 2014