di ROMANO BRACALINI
Un lettore di origini calabresi, Franco Scarola, residente in Brasile, scrive a Mario Cervi del Giornale che i suoi genitori furono costretti a lasciare la loro terra che, essendo “nelle mani degli antichi i baroni”, dava poche speranze di vita. Terre, scrive ancora il lettore, in cui vigeva il feudalesimo, i contadini non contavano nulla ed erano costretti all’emigrazione, mentre l’Europa era avviata verso la modernità.
La lettera si chiude con la domanda: perché mai personaggi come Garibaldi, Vittorio Emanuele II, Cavour e Mazzini, i cui nomi si trovano nelle principali piazze e vie d’Italia, sono onorati dal popolo che da loro è stato sfruttato e massacrato?
Finalmente un lettore meridionale che non ci rifila la solita solfa di un Sud prospero e ricco prima che venissero i “piemontesi” a depredarlo. Non può essere né evoluto né ricco un paese rimasto feudale fino al 1860 e dove l’economia era basata sul latifondo.
Del resto una monarchia vincente come quella sabauda non poteva non glorificare nelle piazze gli uomini che si erano battuti per la causa italiana. Perfino Mazzini, condannato due volte a morte in contumacia dai Savoia, entrò nel Pantheon degli eroi.
Fu così che si costruì la mitologia risorgimentale, alla quale, si badi, contribuirono anche parecchi “patrioti” e scrittori meridionali, da Crispi a Settembrini. Avessero vinto i Borbone avremmo assistito al fenomeno opposto: con la beatificazione di re Nasone, Franceschiello, don Liborio, Dio ci scampi. Così va la storia.
Ma una osservazione si impone. Se i meridionali sono convinti di essere stati sfruttati e massacrati dai Savoia, come si spiega che nel referendum del 1946 fu la maggioranza degli elettori meridionali a votare per Stella e Corona?
Si disse, e ci credo, che la monarchia sabauda, dopo la conquista, avesse distribuito al Sud regalie, sussidi, pensioni (come faceva Lauro distribuendo scarpe e pasta), e il voto per Casa Savoia era stato il ringraziamento per i benefici ricevuti. In fondo anche il risultato del 2 giugno 1946 era un sintomo dell’arretratezza culturale e civile del meridione che con quel voto clientelare manifestava la propria vocazione subalterna e coloniale.
In 150 anni di storia unitaria le parti si sono invertite: è stato il Sud a sfruttare il resto del Paese dando alla società italiana solo burocrati e questurini. Ed è il lettore, che non può certo essere accusato di partigianeria nordista, a sgombrare il campo dagli inganni e dalle menzogne diffuse ad arte della propaganda neoborbonica.
Ma un’altra domanda si impone. La struttura feudale della società meridionale, la miseria dei contadini, l’analfabetismo diffuso, furono una creazione “piemontese” o non furono piuttosto plaghe che caratterizzavano il Sud della penisola ancora prima dell’unità?
Credo che la risposta giusta sia la seconda. Del resto fino al ’60 il meridione era privo di strade; e le ferrovie, tutte intorno a Napoli, non superavano i 90 chilometri di estensione.
Non c’erano industrie perché non c’erano strade per trasportare le merci.
La prima ferrovia, la Napoli-Portici, del 1839, vantata come la prima d’Italia, era stata costruita da imprese straniere: il materiale rotabile era francese, la locomotiva era inglese, tutto il resto era napoletano.
Il disordine delle città meridionali è tuttora un segno di scarsa educazione civica. Una società ricca e prospera si basa su ben altre regole. Napoli già allora era invasa da mucchi di spazzatura, e ogni tanto scoppiava il colera. La città, per dirla con Raffaele De Cesare, scrittore meridionale, ”era un letamaio”. Napoli era una “grottesca città parassita”, i cui abitanti erano in gran parte dipendenti della casa reale, preti, domestici, mendicanti.
Le poche cifre disponibili riguardanti la popolazione napoletana nel 1845 danno 284 impiegati nelle banche e 298 nell’industria, contro 92 professori di legge, 3.900 cocchieri, 8.610 ecclesiastici e 10.048 servitori. Milano, nello stesso periodo, presentava un quadro ben diverso.
L’abisso tra sudditi e signori era reso più drammatico dal fatto che tutte le dinastie che si succedettero al Sud erano straniere. Dal 1504 al 1860, l’Italia meridionale passò dal dominio spagnolo a quello dei Borboni i quali, con un sistema d’arbitrio e di corruzione, diffusero la convinzione che si potessero conseguire incarichi e onori solo con la furbizia, l’inganno e la piaggeria. Le elezioni al Sud sono ancora oggi la prova che poco o nulla è cambiato.
Nel dibattito sulle nuove province meridionali, che si era svolto dal 2 al 6 aprile 1861, Giuseppe Massari, barese, vissuto a Napoli e poi riparato a Torino, disse che “il meridione era una piaga che faceva sangue e per guarirla occorreva un ferro rovente per cauterizzare la ferita aperta”. Nessuno dei presenti ritenne la metafora eccessiva. Anzi, Luigi Carlo Farini disse di temere che la cancrena avrebbe contagiato l’Italia intera.
Bettino Ricasoli, successore di Cavour, uomo rigoroso e di specchiata onestà – aveva rinunciato allo stipendio di Primo ministro -, non era particolarmente ottimista, ma fece capire che le “piaghe” del meridione sarebbero state guarite col tempo, con le azioni di governo e l’efficacia delle leggi.
Dopo un secolo e mezzo il vaticinio di Ricasoli deve ancora compiersi.
Fonte: da L’Indipendenza del 21 novembre 2016
Link: http://www.lindipendenzanuova.com/sud-arretrato-anche-prima-dellunita-perche-il-nord-non-pagava-2/