Marina Perlato, alla sua sinistra Andrea Conti
Sei anni fa, quando io e altri amici fondammo il GSC GIAMBENINI, non avevamo idee ben chiare su quello che stavamo facendo. Eravamo un gruppo che condivideva un passatempo, un hobby diverso dalla lettura, dalle chiacchiere al bar, e uno sponsor generoso e appassionato come noi di sport e bicicletta.
Con l’handbike abbiamo scoperto una disciplina accessibile a tutti, uno sport paritario, bastavano questo mezzo, simile ad una bicicletta, e un po’ di voglia di muoversi, per permetterei di percorrere le strade del nostro paese, poi della città, della nazione e infine dell’Europa, così i nostri orizzonti si sono allargati, e conoscere un sacco di gente di ogni nazionalità… Gente tosta, che non si piange addosso, che non molla mai, fino al traguardo, spalle incassate, gente che non si lamenta di diritti negati, di barriere architettoniche, di servizi inesistenti, di persone maleducate che non ti aiutano abbastanza, di soldi non sufficienti. Gente che ha fede in se stessa e dentro di se trova tutte le risorse per far fronte alle difficoltà della vita, più presenti per chi è in carrozzina, ma fondamentalmente difficoltà che prima o poi tutti incontrano.
In questi anni, tutti noi abbiamo imparato a stringere i denti, a non lamentarci e affrontare i problemi di petto, cercando di non deviare e tanto meno abbatterei. Il team, i compagni di viaggio, erano lì, pronti a cogliere il minimo segno di scoraggiamento, di “fatica”, pronti a spronarci e a darei una “spinta” in senso lato. Nessuno di noi è stato lasciato indietro.
In questi anni di agonismo l’impegno per prepararsi alle gare è stato piuttosto intenso, quasi ogni giorno sulle strade per l’allenamento, il fine settimana in giro per l’Italia.
Un vortice di emozioni, di fatica, tanta voglia di migliorarsi per essere più “forti”, un impegno totalizzante che ha assorbito tutte le nostre energie. Siamo riconoscenti e consapevoli che non potremmo essere quello che siamo, fare quello che desideriamo se non esistessero persone che dedicano le loro capacità, il loro tempo agli altri, alla società, per far sì che ognuno in questo paese, l’Italia, abbia un posto non solo dove vivere o sopravvivere ma realizzarsi come persona, come cittadino, e sto parlando di senso civico, di cittadinanza partecipe e protagonista nella comunità.
“Che cosa devo dare alla mia comunità, come posso dare il mio contributo per migliorarla, quali sono le doti personali che posso spendere? ”
Fino a qualche anno fa avremmo risposto “già faccio il mio lavoro, pago le tasse, quando è richiesto vado a votare, osservo le leggi, ho tutto il diritto di pensare a me stessa, alla mia famiglia, e gli altri hanno quello che si meritano “.
Ma non è detto che è così che debbano andare sempre le cose.
Questa società italiana se confrontata con quella di altri paesi è rimasta piuttosto indietro, un po’ anche per demerito mio, per cui devo provare a migliorarla.
Da non molto, casualmente da quando ho cominciato ad andare in bici, non accetto più discriminazioni, ingiustizie, arroganza o indifferenza quando mi devo confrontare con i problemi del vivere quotidiano.
Non mi faccio più mettere sotto le scarpe da chicchessia, ma non per questo mi sento incoraggiata ad essere quello che non sono mai stata, villana o prepotente. Mi sento abbastanza forte per essere sempre gentile anche con i più maleducati.
Dunque, dicevo, che posso fare per la mia comunità?
Beh, c’è la mia storia personale, prova reale di quanto le persone siano fragili e allo stesso tempo forti, di come “attrezzandoci” con le motivazioni giuste possiamo reagire ed affrontare i nostri e gli altrui problemi.
Qual’ è il pubblico giusto per questa/e storie se non i ragazzi di età scolare, ai quali è ancora possibile insegnare, da educare a modelli culturali e comportamentali diversi da quelli in auge, proposti quotidianamente e agognati dai nostri teenager?
Così io e i miei amici accettiamo il pressante invito di Claudio Guardini, artefice da 15 anni del “Trofeo Tommasi” a Pedemonte. Si tratta di visitare le scuole secondarie e superiori della Valpolicella, parlare a questi ragazzi della gara, della bici, dello sport, della disabilità.
Un compito arduo per chi non ha mai parlato di queste cose, di se stesso davanti a decine, a centinaia di ragazzi che ti guardano, che si chiedono che ci fai, che ci fate voi lì, contenti più che altro di saltare qualche ora di lezione.
Superando la grande emozione, l’imbarazzo di parlare di cose nostre personali, riusciamo a comunicare il nostro disagio, le difficoltà e la gioia di poter di nuovo vivere dopo la batosta dell’incidente, della diagnosi di lesione midollare, termine allora sconosciuto.
Grande conquista quella di salire su una carrozzina e ritornare a vivere, ed è proprio strano che chi vi sta seduto la veda come uno strumento di libertà e chi cammina la veda come un ostacolo, come dire che è la prospettiva di come uno guarda le cose che fa la differenza.
Ecco, questo, in questi anni, è quello che ci hanno insegnato i ragazzi che abbiamo conosciuto, imparare a vedere la gente e le cose che essa fa da una prospettiva più chiara, più responsabile. Mi auguro che i miei compagni di percorso di tutti questi anni, sia sulle strade che nelle scuole, possano condividere e sottoscrivere queste parole.
So che alcuni di loro si sono sentiti fuori posto davanti a questi ragazzi, ma la vita è o non è una sfida? E lo sport questo ci ha insegnato.
Noi le sfide le accettiamo tutte, anche se non tutte possiamo vincerle.
Fonte: srs di Marina Perlato, da L’informatore numero 154 di luglio agosto 2010