Stefano Lorenzetto Cuor di Veneto, Anatomia di un popolo che fu nazione
(Marsilio, 304 pagine, 19 euro)
Per capire davvero un luogo bisognerebbe esserci nati.
Stefano Lorenzetto è veneto, figlio orgoglioso di un popolo che fu per 1.100 anni nazione, e in questo libro ci racconta la controversa regione d’Italia attraverso le storie dei suoi poliedrici abitanti, eredi della repubblica più longeva mai apparsa sulla faccia della Terra:
il Beppe Grillo dei poveri, l’imprenditore che fa lavorare i matti, l’ultimo cicisbeo, la donna che lo faceva per soldi, il nuovo Marco Polo, il cercatore di ossa, lo sposo di Venezia, fino al Grande Vècio dei Serenissimi e al presidente dello Stato veneto.
Partendo dalla sua esperienza personale di povertà e fatica, l’autore smonta molti stereotipi giornalistici, per arrivare alla conclusione che non l’Italia, bensì il Veneto, è una repubblica fondata sul lavoro:
«Il lavoro non è nemmeno un dovere, per i veneti: è il senso stesso del vivere».
Per due secoli confinati nell’orto concluso della miseria, condannati a una marginalità geografica prim’ancora che culturale, carico di terza classe sulle rotte dell’emigrazione, carne da macello per i fronti di guerra, bestie da soma per l’industrializzazione d’Italia, balie per la prole dei nobili, servette per i capricci dei sióri romani e milanesi, sembrava che il destino di questo popolo di zotici, tonti, alcolizzati e baciapile potesse essere uno solo: estinguersi per miseria.
I veneti che mugugnano ma sgobbano, che protestano contro la rapacità dello Stato ma pagano le tasse, che sognano l’indipendenza ma non si appellano mai a vallate in armi, che si mostrano sospettosi con gli stranieri ma ne accolgono più di qualsiasi altra regione d’Italia dopo la Lombardia, che non sono ancora pronti a fondere il bianco col nero ma continuano a mandare i missionari a morire in Africa sulle orme di monsignor Daniele Comboni, che sembrano aridi ma vantano un’impressionante fioritura di opere buone, che tirano su capannoni ma si struggono di nostalgia per le ville palladiane, hanno ancora quest’enorme fortuna di ricordare da quali sacrifici è scaturita la loro ricchezza e di vivere come se tutto fosse in prestito, come se l’incantesimo potesse rompersi da un momento all’altro.
Stefano Lorenzetto, veronese, è editorialista del «Giornale», dov’è stato vicedirettore vicario, e collaboratore di «Panorama» e «Monsieur».
In 35 anni di professione giornalistica ha scritto per una quarantina di testate e ha vinto il premio Saint-Vincent.
Ha pubblicato Fatti in casa, Dimenticati (premio Estense), Italiani per bene, Tipi italiani, Dizionario del buon senso, Vita morte miracoli, Baldus e Si ringrazia per le amorevoli cure prestate.
Come autore televisivo ha realizzato Internet café per Rai Educational. Le 500 puntate della rubrica Tipi italiani, uscite sul Giornale a partire dal 1999, lo hanno fatto entrare nel Guinness World Records per un singolare primato: la più lunga serie di interviste da un’intera pagina che sia mai apparsa fino a oggi sulla stampa mondiale.
CUOR DI VENETO: RITRATTI TRA LA GENTE CHE NON È SOLO QUELLA DEGLI «SCHEI»
Stefano Lorenzetto
IL LIBRO. Le interviste di Stefano Lorenzetto. «Cuor di veneto»: i vizi e le virtù di protagonisti e tipi sorprendenti
Un libro scritto con il cuore da un cronista che racconta la sua gente, i veneti, senza pregiudizi, moralismi o luoghi comuni. I vizi e le virtù vengono messi a nudo da lunghe interviste a personaggi contemporanei.
Protagonisti dell’arte, della politica, del lavoro. Ma anche della cronaca nera e del marciapiede. Racconti di vita, a volte confessioni, che dicono di un Veneto operoso e tenace, ma forse incapace di far comprendere appieno il suo cuore.
Cuor di veneto è il titolo dell’ultimo libro di Stefano Lorenzetto, giornalista veronese, edito da Marsilio.
Un libro divertente, ironico, pungente. Un libro contro una certa immagine ormai di maniera: il Veneto dei palancai, dei razzisti, dei violenti. Stereotipi che i media hanno regalato a questa regione.
Lorenzetto racconta un’altra realtà. Quella di uomini senza studi e senza mezzi, che si sono inventati, con tenacia e fatica, un lavoro, e sono diventati capitani d’industria, conosciuti in tutto il mondo.
Quella di una regione sospettosa verso gli stranieri, ma che ha, dopo la Lombardia, il più alto numero di immigrati. Quella che, prima ancora degli «schei», considera il lavoro la sua vera religione.
«Sono veneto. Il lavoro innanzitutto» è il motto di un intervistato.
«La parte peggiore del lavoro è ciò che ti capita quando smetti di lavorare», dichiara un altro.
«Il lavoro non è nemmeno un dovere per i veneti», sostiene l’autore,
«è il senso stesso del vivere. Ed è attraverso il lavoro che si misurano con la realtà».
Il libro racconta anche i lati oscuri: casi giudiziari, morti sospette, personaggi che vivono ai margini, per scelta o per forza. Ritratti intensi e leggeri, drammatici e ironici. Un mondo variegato che mette a nudo i propri sentimenti.
«Anatomia di un popolo che fu nazione», recita il sottotitolo del libro. Perché il Veneto fu la repubblica in assoluto più longeva. Terra di splendori e di miseria. Terra d’emigranti, di serve per i «siori», lombardi e romani. Gente per cui la solidarietà tra poveri era una sicurezza e il risparmio, anche nell’indigenza, un dovere. Ma senza illusioni.
«Siamo solo di passaggio, lasceremo tutto qui, ai nostri figli, con la speranza che almeno si ricordino di noi».
Un Veneto «pitocco e scalzo, che, se anche raccontato, non può essere capito dalle generazioni attuali», scrive l’autore. Un Veneto che ha perso qualcosa dell’antica nobiltà d’animo.
«Lo ripeto sempre ai miei figli», dice un intervistato. «Avete tutto e non avete niente».
E un altro: «Viviamo nell’epoca del cinismo assoluto. I giovani li ammazziamo con la delusione preventiva».
Sono 25 le interviste. Personaggi famosi e meno: Tinto Brass e Milo Manara, Ranieri da Mosto e Carla Corso, Fulvio Roiter e Gino Seguso, Giancarlo de Bortoli e Vittorio Selmo, Massimo Colomban e Giulio Tamassia. Dietro le parole ci sono i luoghi: le lagune, i casoni da pesca, le osterie, gli argini, le fabbriche. E quel languore che ti mette in corpo la voglia di casa, di un amico, di un bicchiere di vino.
Fonte: srs di Delia Allegretti; da L’Arena di Verona del 06 ottobre 2010, CULTURA, pagina 48
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