Gen 26 2009

Intervista all’archeologo inglese Peter Hudson, veronese di adozione.

 

Archeologia come contributo importante alla conoscenza della storia di Verona antica.

Ho recuperato questa intervista al dott. Peter Hudson, archeologo inglese, veronese di adozione: la migliore mente archeologica che negli ultimi decenni Verona abbia avuto.

Intervista all’archeologo Peter Hudson che da vent’anni conduce importanti campagne a Verona

di Antonio Felice

Da Shakespeare in giù, gli inglesi sembrano portar bene a Verona. 

Al “gran bardo” dobbiamo il mito di Giulietta, che ai veronesi più snob fa arricciare il naso, ma che costituisce il richiamo turistico principale della città. 

All’archeologo Peter Hudson – alto, robusto e rosso come un antico guerriero normanno – e ai suoi scavi ventennali, dobbiamo la conoscenza di aspetti fondamentali della storia di Verona e una tale quantitità di reperti archeologici in grado da soli di costituire la base di un museo della città degno di tal nome. Il progetto langue, così come vivono un momento di stasi le ricerche che potrebbero svelare in via definitiva i segreti dell’origine di Verona. 

Per questo, assume un certo significato l’intervista di questa pagina, che testimonia, con una certa ampiezza, quanto la ricerca archeologica abbia fatto fino ad oggi. 

Peter Hudson ha consegnato agli storici e ai responsabili del patrimonio artistico antico una messe di dati e reperti impressionante.


La città – è stato dimostrato in modo inoppugnabile – si è sviluppata per quasi un secolo in epoca romana fuori dall’ansa del fiume; è nata in sinistra Adige ed è entrata nell’ansa solo quando i romani sono stati in grado di realizzare argini sicuri e mura robuste. 
La Verona di Catullo, dove il poeta ebbe i natali nell’84 avanti Cristo, cinque anni dopo l’ingresso della città nel sistema amministrativo romano come colonia e ben 64 anni dopo l’arrivo delle legioni al seguito dei costruttori della via Postumia, non si sviluppava dunque ancora dentro l’ansa, ma solo nella zona intorno al colle San Pietro, sulla pendice del teatro romano (non ancora costruito) e nella zona della futura chiesa di Santo Stefano. Ciò smonta molti luoghi comuni. 

La ricerca archeologica, che ha messo ordine nell’evoluzione della città dalla sua fondazione entro l’ansa fino all’alto Medioevo, avrebbe bisogno oggi di ricevere slancio per salire sul colle dove Verona è nata e per togliere l’ultimo velo alla nascita di una città storica tra le più ammirate d’Europa.



Lei è stato protagonista delle principali campagne di scavo degli ultimi vent’anni. Quali sono i risultati principali e cosa rimane da fare?



“È stata fatta una grande operazione di acquisizione di materiali e di dati sulla storia della città. Rispetto a vent’anni fa, oggi si sa molto di più sull’evoluzione di Verona. Sappiamo che il periodo romano non può essere considerato come una specie di monolite, come una lunga epoca d’oro. La città ha raggiunto la sua massima espansione nel II secolo dopo Cristo e in seguito ha iniziato a ritirarsi. Abbiamo scoperto case suburbane, al di fuori delle mura, presto sostituite da necropoli che con l’avanzare degli anni si avvicinano progressivamente alla città. Sono stati a tal proposito molto importanti alcuni scavi recentemente compiuti in occasione del rifacimento dei sottoservizi. È il caso di via Mazzini, dove siamo riusciti a ricostruire tracce romane fondamentali, raccogliendo dati da piazza Bra a piazza Erbe. Ciò ha permesso di trovare le mura di Gallieno, che non erano fino ad allora state documentate nel loro braccio settentrionale, quello che chiudeva l’anello tra l’Arena e via Alberto Mario. Si è notato che la costruzione di queste mura ha comportato l’abbandono e lo smantellamento di certi monumenti, come nel caso di un tempio posto all’altezza della farmacia Due Campane. Molte strade furono seppellite e interrotte dalle stesse mura, che furono costruite con materiali sottratti ad altre strutture e riutilizzati. Poi si è riusciti a documentare la storia della basilica romana, l’edificio pubblico che faceva parte dei monumenti attorno al foro, compreso nell’isolato tra via Mazzini, via Quintino Sella e via Pellicciai. Parliamo di una struttura datata 220-230 d.C., quando fu aggiunta un’abside ad una struttura che fino ad allora era più semplice, rettangolare”.


Siamo entrati subito nello specifico della ricerca archeologica. La data citata corrisponde al periodo dei Severi, noto per la turbolenza politica dell’impero romano. In quegli anni Verona era ancora in espansione?


”Direi di no. C’era semmai una certa attenzione a riqualificare i monumenti attorno al foro. I lavori compiuti in via Mazzini ci hanno permesso anche di monitorare il pianale del foro di piazza Erbe. Abbiamo documentato una parte del portico attorno al foro e una casa alto-medievale del VII secolo costruita sul lastricato del foro. Questa costruzione dimostra un forte arretramento delle tecniche edilizie. L’edificio fu costruito con materiale romano riutilizzato, non più legato da malte, ma solo da terra”. Perché nel III secolo inizia il degrado di Verona? “Hanno pesato fattori economici e politici. Si può pensare a una crisi economica e ai timori legati alla sicurezza dell’impero e quindi anche di alcune città. Se infatti all’interno delle mura l’assetto urbano si mantiene su ottimi livelli, all’esterno le case vengono progressivamente abbandonate. È il segnale di un inizio di decadenza”. Ha parlato della decadenza prima ancora che della nascita della Verona romana. Che indicazioni ha tratto sulla formazione del centro storico e sull’origine stessa della città, all’epoca dei suoi primi scavi, quelli al cortile del Tribunale? “Si è potuto stabilire innanzitutto che non c’era stata una fase preromana in quella zona. È molto difficile pensare ad una presenza umana organizzata precedente alla fondazione romana all’interno dell’ansa dell’Adige. La storia di colle San Pietro è completamente diversa. É sul colle e attorno al colle che va cercata l’origine sia della Verona preromana che della stessa città romana”.



All’arrivo dei romani, nel 148 avanti Cristo, anno della costruzione della strada Postumia, dentro l’ansa dell’Adige dunque non c’era niente?



”C’è qualche reperto da qualche altra parte che potrebbe anche ipotizzare frequentazioni stagionali, ma sarebbe stato comunque difficile creare un insediamento nell’ansa dell’Adige senza creare argini al fiume. Vi sarebbero state alluvioni più volte all’anno e questo avrebbe reso la vita difficile a tutti. Una delle prime cose che i romani fecero, furono proprio gli argini per prevenire le piene. Ma il fatto più importante dello scavo al Tribunale stava nella sua vastità. Si trattò dello scavo urbano più esteso mai fatto prima in una città italiana. Abbiamo lavorato su circa 1500 metri quadrati e ciò permise di poter vedere la fisionomia del costruito in tutta la sua interezza. Non c’era solo grande quantità di materiale, ma grande qualità di dati da rilevare. Abbiamo così potuto scavare tre aree con caratteristiche diverse. Abbiamo visto che l’interno del cortile del Tribunale era ad esempio al centro di un isolato romano e non confinava con alcuna strada. Via Dante e una parte del Mercato Vecchio presentavano invece monumenti collegati al foro. Il cortile del Tribunale era in sostanza una zona di abitazioni private. Molti storici, osservando le fotografie aeree di Verona, hanno notato che ancora oggi si riesce a ricalcare l’attuale edificato sul tracciato romano preesistente. Questo significa che c’è stata continuità di insediamento fino a un certo punto, e che le strade sono state mantenute. In via Dante siamo riusciti a vedere come le strade si sono conservate. Non è una conservazione perfetta: è l’insieme di diversi momenti storici. La strada rimane, ma viene ristretta alla fine del periodo romano a sette metri dai 12 precedenti e viene costruito un muro che è la facciata di più case che rimarranno in uso dal VI secolo fino alla fine del XII, quando viene costruito il palazzo del Mercato Vecchio, il primo palazzo comunale. Per la prima volta abbiamo verificato lì come si conserva l’allineamento di una strada attraverso i secoli. Una conservazione molto dinamica, perché ci sono stati più momenti di intervento. Il muro cui ho accennato è uno dei fronti più vasti di case alto medievali mai trovati in Europa ed è un muro molto leggibile”.



Cos’altro uscì da quello scavo?


”Potemmo monitorare l’evoluzione delle case romane. In certi punti abbiamo trovato quattro o cinque pavimenti romani, uno sull’altro. Questo dimostra la grande vivacità edilizia dell’epoca romana. Le cose tesero invece a fossilizzarsi nel IV secolo, già prima della caduta dell’impero. Si nota che in quell’epoca certi ambienti vengono abbandonati e che diverse strutture mostrano problemi di staticità. Si passa dai pavimenti in mosaico alla terra battuta, dal riscaldamento centralizzato al focolare. In quello scavo c’è la storia della città romana fino al suo declino inesorabile”.


Ma ci sarà anche la storia successiva. L’arrivo dei barbari. E su, lungo i secoli, fino agli Scaligeri…



“Il declino edilizio testimonia un ripetersi di crisi economiche, ma direi anche un generale peggioramento della situazione sanitaria, che ridimensiona la popolazione. Pestilenze e malattie sono documentate. È chiaro che in questa zona, dal V secolo fino alla fine del VI, abita molta meno gente, anche per problemi di sicurezza. Va poi rilevato l’enorme incendio, datato intorno al 590 d.C., che ha distrutto la maggior parte di Verona. I longobardi governavano da poco sulla città. Ci sono testimonianze archeologiche di questo incendio sia in via Dante che nel cortile del Tribunale. Dopo quell’incendio, quasi tutte le strutture romane vengono abbandonate e si passa a situazioni completamente diverse. Quella del cortile del Tribunale diviene ad esempio zona di sepolture: abbiamo trovato qui due tombe longobarde e oggetti di corredo. In seguito qui non verranno costruite più strutture fino alla prima metà del IX secolo. Poi verrà la ripresa; attorno al X secolo si costruirà qui una casa piuttosto fragile, probabilmente metà in legno e metà in muratura. E verrà costruito il cimitero collegato a Santa Maria Antica, all’interno del cortile, attorno al XII secolo. Verrà in seguito abbandonato. Una parte sembra diventare un grosso cortile aperto, una parte sembra diventare un laboratorio artigiano per metalli e il resto diviene una piazza che appartiene ad una delle arti dei Tetili. Nello scavo si vede poi l’arrivo degli Scaligeri, che in un primo momento si insediano in un angolo dell’isolato, edificando l’attuale palazzo nel 1363, con tanto di giardino, l’attuale piazza Viviani”.



Quindi quello scavo riassume la storia della città.


”Certo, documenta la storia di Verona dal primo insediamento romano nell’ansa del fiume, intorno al 50 a.C., agli scaligeri”.



Un altro grande scavo è quello fatto in occasione dei lavori per i Mondiali di calcio del ’90. Quale fu il risultato?



“Gli scavi furono più d’uno. A Porta Nuova non abbiamo trovato nulla. Sotto, c’è solo ghiaia. A Porta Palio abbiamo trovato quasi 600 tombe romane, il 90 per cento di defunti cremati, il resto inumati. Le tombe sono datate tra le fine del primo secolo a.C. e il IV secolo d.C. A cavallo della via Postumia, all’esterno della porta, è stata rinvenuta una superficie in ciottoli poco prima di via Albere. Da Porta Palio sono emersi corredi notevoli, oggetti di ceramica di tutto il periodo romano, vetri intatti, cosa rara in uno scavo”.


Che impressione ebbe da quelle tombe?


”La cosa strana è che non c’erano tanti monumenti funebri. Forse le tombe più importanti erano più vicine alla città. Ma è anche vero che i monumenti sono stati asportati nel tempo, già nello stesso periodo romano, per essere riutilizzati in altre strutture della città. La necropoli era molto vasta e si trovava nei pressi di una zona produttiva. Da Porta Palio all’attuale area del Lux c’erano tombe, oltre abbiamo documentato la presenza di una fornace romana. Altre attività artigianali dovevano svilupparsi lungo la Postumia che entrava in città da lì”.


A proposito di Postumia, cosa è emerso dagli scavi in corso Cavour?


”Corso Cavour fu scavato nel ’98 per conto dell’Agsm. Fu un lavoro di documentazione meticolosa della strada romana e delle piccole zone poste ai suoi fianchi che riuscimmo a indagare. Fino ad allora eravamo abituati a vedere due o tre lastre alla volta. In questo caso, grazie alla grandezza dello scavo, potemmo invece osservare tutto il lastricato. Sono così state confermate certe tecniche costruttive; la parte centrale della carreggiata era in pietra molto più dura rispetto a quella dei marciapiedi”. È vero che era larga ben 14 metri?
”Sì, era più larga delle altre strade e del normale. Aveva 14 metri verso Porta Borsari, circa 16 metri all’altezza di Castelvecchio, quasi un’autostrada dell’antichità”.



Se lei potesse decidere, dove scaverebbe in questo momento a Verona?


”Mi piacerebbe indagare su un sito nella parte bassa di colle San Pietro, per vedere l’origine e lo sviluppo di quella parte di città. È molto difficile trovare qualcosa; bisogna aver fortuna per trovare il punto adatto nel quale scavare. Uno scavo lì potrebbe darci un’idea di quanto è vecchio l’insediamento umano a Verona. La città è nata sicuramente lì. Potrebbero arrivare molte conferme o molte smentite sulla Verona di Catullo, che è vissuto prima dell’urbanizzazione interna all’ansa. Sarebbe interessante capire qualcosa sui lavori di terrazzamento del colle per la costruzione del Teatro romano, che bene o male sconvolsero la zona”.


La zona del Teatro romano e di Santo Stefano è dunque la culla di Verona preromana e dei primi cento anni di storia romana della città. È così?



”Direi di sì. Un insediamento organizzato era presente sul colle parecchi anni prima dell’edificazione della Postumia. E i romani avrebbero costruito la loro Verona dapprima solo sul colle. La prima data che testimonia la presenza romana dentro l’ansa del fiume è attorno al 45 a.C., quindi quasi un secolo dopo la costruzione della Postumia. Le campagne di scavo eseguite dentro le mura testimoniano quindi abbastanza bene la storia romana. La città, qui, non ha più tanti segreti. Se si riuscisse a sfruttare, a studiare fino in fondo, tutto ciò che abbiamo già acquisito si arriverebbe ad un ottimo risultato. Vicino a Santo Stefano c’è però ancora una porta da scoprire, dopo porta Leoni, porta Borsari e la porta di via Redentore. E non sappiano praticamente nulla su eventuali mura di epoca romana sul colle San Pietro”.



Insomma, resta da svelare il segreto dell’origine della città.



“In un certo senso è così, ma ci sono diversi indizi. Villaggi e capanne seminterrate scavate nella roccia, ad esempio. Ma non è ancora stato trovato nulla di fondamentale”.



Cosa può dire un archeologo ai politici e ai responsabili dei musei veronesi perché il risultato degli scavi di cui abbiamo parlato sia usufruibile?



“Ci sono grandi quantità di materia già usufruibili per mostre ed esposizioni. Per esempio, i corredi delle tombe romane, tutti restaurati. Questo materiale è nei magazzini della Soprintendenza, qui a Verona”.



Le piace l’idea di un museo della città?



“Mi piace, ma bisognerà vedere chi lo farà e come. Vorrei non parlarne, perché l’argomento non mi compete. 
Tuttavia credo sarebbe opportuna una buona discussione tra tutti gli enti che si occupano della materia, ossia Comune e Soprintendenza, tra Musei civici e mondo accademico, sul taglio da dare ad un ipotetico museo della città. A Verona c’è poi un problema: i temi sarebbero infiniti. 
Ho spesso l’impressione che la città non rifletta abbastanza sull’enorme importanza del suo patrimonio storico. O forse ci riflette troppo. E così non succede niente”. 



 


Fonte: srs di Antonio Felice/l’Arena di Verona, settembre 2002

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