RISORGIMENTO. L’ALTRA VERITA’
Quando l’erede al trono austriaco, Francesco Ferdinando, venne assassinato, il ministro degli Esteri italiano scrisse di aver tirato un sospiro di sollievo: infatti l’arciduca era coinvolto in una grossa, speculazione immobiliare e il Governo di Roma doveva pagare
La corsa agli armamenti e al conflitto avvenne in un contesto anticostituzionale, con una stragrande maggioranza che venne ignorata perché pochi industriali e pochissimi politici avevano deciso che il Paese, del tutto impreparato, dovesse imbarcarsi in quell’ avventura bellica
Durante tutta la guerra, le corti marziali lavorarono a pieno ritmo, spedendo davanti al plotone d’esecuzione una quantità di poveracci analfabeti che il fango delle trincee aveva mutilato: mentre sarebbero stati i generali e gli alti ufficiali a dover rispondere d’inefficienza
«Buone notizie dai Balcani… Forse, ci siamo liberati di quella noiosa faccenda di villa d’ Este….»
Pur con una doverosa premessa dubitativa, fu proprio questo il commento del ministro degli esteri, Antonino di san Giuliano, quando lo informarono che, a Sarajevo, un fanatico nazionalista aveva fulminato a rivoltellate Francesco Ferdinando, l’erede al trono d’Austria.
Immediatamente dopo l’attentato di Gavrilo Princip – già dalle prime ore del pomeriggio del 28 giugno 1914 – evidentemente immaginando in quale trambusto diplomatico sarebbero precipitate, le cancellerie d’Europa si trovarono in preda a un’eccitazione prossima alla frenesia.
Ogni paese ebbe la necessità di rimodulare le proprie alleanze. Venne messa in scena una rincorsa dai toni affannosi, allo scopo di non perdere antiche amicizie e nel tentativo di accaparrarsene delle nuove. Una girandola di messaggi – talora sornioni e persino, melensi, talaltra più disinvolti e, addirittura, minacciosi – dettero la misura della posta in palio.
MOBILlTATI GLI 007
In uno scacchiere, complicato dalla prima globalizzazione moderna, erano stati mobilitati gli 007 sparsi dagli Urali fino all’isola di Malta, che ricevevano e inviavano dispacci per aggiornarsi reciprocamente anche sui flebili singulti dei potenti della terra di allora. Non trascurarono nulla. Le minuscole circostanze – anche quelle apparentemente banali – potevano diventare utili perché rivelatrici di un disegno più complessivo. Ognuno comprendeva di essere la pedina di un gioco assai tortuoso, destinato a ipotecare il futuro politico del mondo e, dunque, proprio per quello, si sentiva impegnato a offrire il meglio di se in termini di impegno e di attenzione ai dettagli. Furono giorni e settimane crudeli per l’affanno che comportarono e per la tragedia che ne derivò.
Nel panorama del mondo conosciuto, il Governo di Roma fu l’unico a non perdere la calma. Ma solo perché riteneva che quell’assassinio, nel cuore della Bosnia, fosse arrivato per risolvergli una piccola bega di condominio. Quasi-quasi: benvenuto!
Per via di madre, l’arciduca Francesco Ferdinando aveva ereditato una proprietà a Tivoli che riteneva di alienare, vendendola direttamente al Governo italiano. Nella sua testa albergavano almeno un paio di cattivi pensieri.
UN’OFFERTA ULTIMATIVA
Intanto, rivolgendosi al ministero degli Esteri, presentava un’offerta d’acquisto che appariva piuttosto, una pretesa: tanto era ultimativa nei contenuti e priva della possibilità di un’autentica trattativa. L’Austria era legata all’Italia da un trattato commerciale e militare che era stato più volte rinnovato. Ma, a dispetto delle formule burocratiche utilizzate per la definizione del documento, non si trattava di un’alleanza con pari dignità. Nei fatti, il socio più potente si assumeva anche le funzioni dell’amministratore delegato, in grado di dare disposizioni, decidere e ottenere obbedienza. Perciò l’erede al trono di Vienna faceva la voce grossa. Si sentiva autorizzato a rivolgersi ai ministri di Roma in modo anche troppo spiccio. Riteneva che avessero l’obbligo di accontentarlo e si era convinto che dovessero farlo anche in fretta.
Il complesso edile di Tivoli era semplicemente stupendo. Originariamente era stato un convento benedettino che, poco oltre la metà del 1500, il cardinale Ippolito II decise di trasformare in una lussuosa residenza. Del progetto venne incaricato l’architetto Pino Ligorio che era considerato il meglio dell’epoca ma che, in quella circostanza, superò addirittura se stesso. La residenza conservò il respiro della storia secolare che aveva attraversato e aggiunse lo sfarzo delicato che il Rinascimento rappresentava. Intorno, un centinaio di ettari di giardini con fontane, e giochi d’acqua, capaci di lasciare a bocca aperta anche i visitatori più sofisticati. Tuttavia – riconosciuto il giusto merito alla raffinatezza del luogo – i due milioni tondi-tondi che l’arciduca voleva incassare sembravano un’enormità. Il bilancio statale abbondava soltanto di debiti e di cambiali in scadenza: dove prendere tanto contante? E come giustificare un’operazione finanziaria, da scrivere esclusivamente nella colonna delle passività?
RELAZIONI BASATE SUGLI EQUIVOCI
Oltre all’aspetto economico, contava il clima politico che si era instaurato nel rapporto fra queste due potenze. Nonostante gli accordi internazionali formalmente affabili, le relazioni erano state costruite più sugli equivoci che sulla correttezza diplomatica. Per gli italiani, gli austro-ungarici restavano gli avversari di sempre che armavano la frontiera orientale del Paese e la minacciavano con una forza militare incommensurabilmente superiore. Gli austriaci ricambiavano la diffidenza dell’alleato con un atteggiamento altezzoso, a mala pena mascherato da una patina di cordialità. Giudicavano l’accordo di Roma con un sospetto che sconfinava abbondantemente nella sfiducia. Gli italiani non piacevano loro: erano considerati poco sinceri e, dunque inaffidabili, sleali, bugiardi ed eccessivamente maneggioni anche in questioni moralmente importanti.
Certo, il retaggio culturale che, nei cinquant’anni dell’Ottocento, li aveva visti schierati come fieri nemici, contava anche per loro e, talora, l’avversione si trasformava in ostilità.
Francesco Ferdinando pensava che la “questione italiana” andava risolta con la forza. Un colpo di mano, ben assestato, poteva spazzare via l’intera classe dirigente e il suo esercito, consentendo a Vienna di riprendersi le terre che, fino a poco tempo prima, aveva governato. Lo stato maggiore austriaco aveva già elaborato alcuni progetti che prevedevano un’invasione delle regioni settentrionali e la loro occupazione. Impadronitisi dei centri produttivi più efficienti. L’Italia non avrebbe avuto possibilità di resistere e avrebbe dovuto accettare una soluzione di compromesso, secondo regole e decisioni definite unilateralmente. Un golpe che fosse stato, contemporaneamente, fulmineo per il poco tempo che occorreva per realizzarlo e devastante sul terreno delle conseguenze sociali, non era affatto considerato un esercizio di fanta-politica.
IL TERREMOTO DI MESSINA
Fu anche individuato il momento più opportuno. Si trattava di aggredire l’Italia mentre era impegnata nella gigantesca opera di soccorso alle popolazioni appena colpite dallo spaventoso terremoto di Messina. Il capo di stato maggiore Franz Conrad von Hoetzendorff era assolutamente certo del risultato militare. «Poi – commentò – ci pensino i politici a trovare le giustificazioni.»
Le colombe lo temevano e i falchi ne incoraggiavano l’attuazione.
L’erede al trono degli Asburgo era convinto che una spedizione punitiva anti-italiana sarebbe stata attuata abbastanza presto e, dunque, riteneva che, vendendo Villa d’Este al Governo di Roma, poteva realizzare due ottimi affari. Avrebbe riscosso una quantità di denaro rilevante per una vendita super-valutata. E poi – in seguito all’invasione già pianificata – si sarebbe ripreso la proprietà (con tutto il resto).
Il ministro degli Esteri, Antonino di san Giuliano, parlando con il presidente del Consiglio di allora, Antonio Salandra, ritenne perciò di esprimersi con motivata soddisfazione. Non c’era più niente da vendere e niente da comprare. E, prima che gli eredi di Francesco Ferdinando potessero mettersi in movimento per riprendere quella trattativa, sarebbe trascorso un tempo, sufficientemente lungo per inventarsi altri motivi di rinvio della questione e altre vie per negarsi all’accordo, senza compromettersi troppo.
L’Italia restava un paese di piccoli imbrogli politici e di piccole truffe internazionali. In Europa, non poteva certo competere con colossi come Inghilterra, Francia, Russia, Germania. Il suo destino rimaneva quello di occupare il ruolo di una potenza di seconda fila. Eppure, sgomitava per sedersi nel salotto buono dei padroni del mondo, con il risultato di vedersi destinata all’ultimo posto, appena oltre l’androne della porta, incapace di attirarsi le simpatie che si attribuiscono alle mascotte e, al contrario, con la fama d’inadeguata, impicciona, pretenziosa oltre misura e, soprattutto, poco seria in fatto di impegni da mantenere.
Il Paese non disponeva di una classe dirigente solida. Vantava tradizioni militari che apparivano grandiose soltanto sulla carta. La storia si era incaricata di ridimensionarne le velleità, ogni volta che si era trattato di scendere in campo aperto contro qualche nemico. Il re restava un signore poco più alto di un metro e mezzo – e perciò piccolo – con un complesso di inferiorità che metteva a dura prova il suo stato di salute mentale e che, per la legge del contrappasso, gli suggeriva azioni gladiatorie del tutto immotivate.
IL TRADIMENTO DEGLI ALLEATI
La corsa agli armamenti e alla guerra avvenne in un contesto confuso, contraddittorio e persino anti-costituzionale, con una stragrande maggioranza che venne ignorata perché pochi industriali e pochissimi politici avevano deciso che l’Italia doveva imbarcarsi in quell’avventura bellica.
L’Italia entrò nel conflitto quando si stava già combattendo da un anno. Giusto il tempo di voltare le spalle agli Stati con i quali aveva firmato trattati solenni di collaborazione per accordarsi con gli avversari. Ma, per qualche settimana, l’ltalia si trovò vincolata, contemporaneamente, con entrambi gli schieramenti che già si combattevano in campo aperto.
Niente di nuovo, da questo punto di vista. Sembrava che il Paese non potesse mantenere fede a un impegno per l’intera durata di una crisi politica. Se capitava di arrivare alla fine con gli alleati che c’erano fin dall’inizio, era perché, nel frattempo, era riuscita a fare due giravolte che l’avevano riportata al punto di partenza. Alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale, i più immorali pensavano soltanto di ricavare dei guadagni per potersi adeguatamente arricchire.
Gli idealisti, invece, credevano di offrire all’Italia l’opportunità di conquistare peso e prestigio internazionale, in modo da restituirle quel ruolo che vagheggiavano ma che, dopo i fasti della Roma dei Cesari, era rimasto incartato nei libri della storia classica.
Masse sempre maggiori di operai e contadini furono strappate alle fabbriche e ai campi per essere avviate al fronte, a sopportare le fatiche di un mestiere che non conoscevano e per il quale non erano state preparate.
Gli alti comandi militari erano rimasti al mito di Napoleone: strategia e tattica moderne, oltre ai progressi tecnologici, non erano considerate
Chi percorre la selva di memoriali – diari, studi, epistolari, saggi, fonti d’archivio e documenti giornalistici dell’epoca – s’imbatte a ogni passo nella questione dei cappotti che non c’erano: per dire che non c’era equipaggiamento di alcun genere. Mancavano gli elmetti, mancavano i fucili, mancavano le strategie per ottenere qualche risultato. Un esercito che, nel corso dell’ultimo secolo, aveva rimediato sconfitte su tutti i campi, facendosele suonare anche da Menelik, non era nelle condizioni di affrontare una guerra moderna.
GENERALI FERMI A NAPOLEONE
Negli ultimi dieci anni, prima di quel 1914, i soldati erano cresciuti alle direttive del generale Paolo Spingardi, ottimo oratore parlamentare e del generale Alberto Pollio, ottimo scrittore. L’uno e l’altro – con tutto lo stato maggiore – coltivavano il mito di Napoleone del quale leggevano con avidità biografie, recensioni, commenti strategici e valutazioni tattiche. Anche culturalmente, gli ufficiali erano rimasti con i piedi e con la testa nelle pastoie del secolo precedente. Come se il tempo fosse trascorso senza lasciare traccia. Le delegazioni dell’esercito italiano partecipavano ai corsi di aggiornamento internazionale, passavano in rassegna le forze dei paesi amici e di quelli alleati, si scambiavano informazioni e scrivevano chilometrici rapporti. Ma, evidentemente, non c’era nessuno in grado di tradurre in pratica quello che vedeva e quello di cui riferiva. I progressi tecnologici degli armamenti non erano considerati. Gli sviluppi tattici passavano inosservati. E le elaborazioni strategiche consistevano in piccoli ritocchi – non sempre migliorativi – delle scelte che il grande Napoleone aveva realizzato come comandante dei francesi.
CADORNA AL COMANDO
Il comandante in capo, Luigi Cadorna, riuscì solo a trasformare le sue prime linee in un lager dove i soldati morivano
Al momento dell’entrata in guerra, l’esercito italiano venne affidato a Luigi Cadoma che, se avesse ottenuto risultati proporzionali alla sua presunzione, avrebbe conquistato il globo terracqueo. In realtà riuscì soltanto a trasformare le sue prime linee in un lager dove gli uomini ai suoi ordini furono sottoposti a ogni genere di prevaricazioni anche psicologiche. I soldati potevano soltanto soffrire, dannarsi e morire.
Verrebbe da sostenere che il conflitto vero e proprio – contro gli austroungarici – sarebbe stato una passeggiata, se non ci fossero stati i comandanti italiani. Il nemico, con le crudeltà implicite in una contesa dove si regolava la vita e la morte, era prevedibile: al di là della frontiera, visibile, identificato, scontato anche nella violenza.
I guai maggiori di chi combatteva per l’Italia vennero dagli stessi italiani che dimostrarono di non aver maturato alcuna idea e che, tuttavia, a quel nulla, si aggrapparono con convinzioni incrollabili. Si armarono di ordini assurdi. Pretesero di mandare le truppe all’assalto anche quando ogni logica l’avrebbe sconsigliato. Insistettero nello sfidare le leggi della fisica per fortificare posizioni insostenibili. Per ottenere un’ubbidienza supina, fucilarono quelli che apparvero più riottosi o anche solo meno pronti a sacrificarsi. Instaurarono un regime di oppressione che sarebbe risultato odioso per una qualunque dittatura, pur spietata. E provocarono la morte di un numero imprecisato di loro uomini, piazzando le mitragliatrici dei carabinieri dietro le file destinate all’assalto, con la disposizione di aprire il fuoco alla schiena dei soldati, se avessero appena ritardato a lanciarsi fuori dalle trincee.
CORTI MARZIALI A PIENO RITMO
Le corti marziali lavorarono a pieno ritmo e i magistrati, seduti sulle stufe arroventate dal fuoco per paura di prendersi un raffreddore, spedirono davanti al plotone di esecuzione una quantità di poveracci analfabeti che il fango delle trincee aveva mutilato.
Gli imbecilli mostravano il coraggio che cresce negli imbecilli, quando sanno di agire senza che nessuno li giudichi.
La giustizia del senno di poi avrebbe suggerito di fucilare direttamente Cadorna e di mettere al muro anche Badoglio. Forse, era l’unica opportunità che l’Italia poteva giocarsi per evitare l’otto settembre 1943.
Eppure, anche a distanza di tanti anni, sedimentate le passioni e resi più neutri i ricordi, una verità sulle debolezze e sulle deficienze dell’Italia nel primo conflitto mondiale stenta a prendere corpo.
I libri di scuola che i ragazzini studiano, per prepararsi agli esami non la raccontano giusta.
Nelle pagine di testo è un affannarsi a dimostrare l’indimostrabile, con un ricorso alla retorica più posticcia e più insincera.
Intanto – secondo gli aedi della storia patria – la prima guerra mondiale sarebbe da considerarsi come l’ultima “guerra d’indipendenza”, destinata a restituire al Paese “i sacri confini” ai quali il Popolo anelava e di cui aveva maturato diritti evidentissimi.
Fu un correre, anzi un precipitarsi alle armi. Ognuno aveva così voglia di farsi ammazzare, al fronte, che si offriva volontario per le azioni più pericolose, contento soltanto di spedire una cartolina alla famiglia per imporre ai propri cari di non piangere per lui, assicurando di aver fatto il proprio dovere. Chi si ricordava il, latino aveva a portata di penna una citazione celebre: «Dulcis est pro Patria mori».
LA SCONFITTA DI CAPORETTO
Le terre “irredente”, soggiogate dalla secolare tirannia austriaca, fremevano per passare sotto il dominio della corona italiana. Invocavano a gran voce la liberazione da quel retaggio autoritario al quale erano state costrette per troppo tempo; E offrirono un contributo poderoso e determinante per vincere la guerra.
«Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il ventiquattro maggio»
Per la verità, l’esercito incappò anche in una sconfitta – a Caporetto – ma non risultano comprensibili ne le cause remote ne quelle più immediate.
Capitò… come capita che la terra si squarci per un terremoto, che l’aria diventi fradicia per un temporale o che la montagna lasci precipitare una slavina a valle. Sembrò quasi il risultato di una congiunzione astrale, come se una bizzarria del destino avesse maturato l’idea di mettere a prova la solidità del Paese. Certo, se il Fato questo decise a nostro riguardo, bene ha fatto: perché le istituzioni dell’Italia erano giovani ma già ben strutturate e reagirono con una compostezza e una coesione esemplari.
« Il Piave mormorò: non passa lo straniero!».
Non c’è libro di testo scolastico che, da qualche parte, non riproduca la fotografia di un messaggio scritto a caratteri cubitali sulla parete di una casa: «O il Piave o tutti coppati».
Il patriottismo, esibito in quelle settimane difficili, fu esemplare. Non solo consentì di contenere la furia del nemico – naturalmente molto superiore per uomini e per mezzi – ma pose le premesse per una riscossa che, a distanza di un anno dal tracollo, travolse gli austro-ungarici e li costrinse a scappare a casa con la coda in mezzo alle gambe.
«Risalgono in disordine le valli che discesero con orgogliosa sicurezza».
I giovani che si vorrebbe avviare allo studio della storia ci credono? Vicende, tramandate in modo così zuccheroso, risultano accettabili a generazioni di ragazzi, abituati a dubitare di tutto e più propensi a diffidare che a fidarsi?
TERRE IRREDENTE BEN GOVERNATE
Intanto è dimostrabile che le regioni trentine e friulane, amministrate dall’Austria, in quel periodo, stavano bene e persino meglio. Le generazioni di leva di quelle terre ingrossarono le compagnie di Vienna nella misura del 90 per cento, a fronte di un dieci che scelse di combattere per l’Italia. La loro presenza venne strombazzata.
Cesare Battisti e Nazario Sauro si meritarono una citazione su tutti i manuali accademici, l’intitolazione di una quantità di scuole e la dedica di un numero incalcolabile di vie e di arterie urbane ma restano fra i pochi che, messi di fronte alla scelta se stare dov’erano o cercarsi un nuovo padrone, preferirono abbandonare la vecchia strada per la nuova.
La guerra fu una carneficina il cui abisso, forse, non può essere compiutamente raccontato. Gli atti di eroismo che innegabilmente ci furono rappresentarono l’eccezione, rispetto alla regola delle sofferenze inutili e prolungate cui vennero sottoposti fantaccini inconsapevoli, alpini coraggiosi e bersagli eri d’assalto.
La sconfitta di Caporetto fu un disastro che grida vendetta. Poteva essere evitato e, di fatto, si realizzò solo per il concorso determinante della dabbenaggine dei comandanti in capo. Ignoranti con i gradi sulla giubba sacrificarono decine di migliaia di uomini e poi li marchiarono con l’accusa di essere stati dei vigliacchi.
POLEMICHE “SIGILLATE”
In questa occasione, come sempre nella storia tricolore, le polemiche si sprecarono ma restarono rigorosamente sigillate nei palazzi del potere. E alla fine – questa volta ma come sempre – non si riuscì a individuare un colpevole o qualcuno più responsabile degli altri. Anzi – in quella circostanza, come avvenne anche per il passato – si trovò il modo di premiare l’errore e di ricompensare lo sbaglio. Tornarono tutti a casa con le spalle incurvate dal peso delle medaglie che dicevano di aver meritato sul campo. Alamari lucidi e galloni migliorati nel prestigio e nel grado.
Invece di licenziarli e chiedere loro il risarcimento per i disastri commessi, preferirono promuoverli, aumentare loro lo stipendio e accettare che continuassero a far danni, in nome dei traguardi raggiunti.
Dovevano finire, loro, davanti alla corte marziale, a spiegare il perché di tanta insipienza e tanta inumana ferocia e risultarono meritevoli di riconoscimenti: senatori, deputati, ministri, cavalieri di tutte le croci immaginabili.
Il paese dove nacque Badoglio volle aggiustare la toponomastica e pretese che al nome di Grazzano venisse aggiunto quello di Badoglio. Sai che onore! In compenso, Salvia, in Basilicata, si vergogna ancora di come si chiamava perché lì era nato Passanante che tentò di pugnalare quel “re buono” di Umberto. E, per dimostrare quanto grande fosse il dispiacere per essere considerato – anche molto indirettamente – causa di quel dolore principesco, il paese decretò che si sarebbe annientato, cancellandosi, per diventare Savoia di Lucania.
Cadorna ricevette onori che riempirono quattro fogli dattiloscritti (per completarne l’elenco) e quattro bacheche (per esporre i simboli delle patacche acquisite). Il museo di Gorizia, per arredare una sala, dovette acquistare le medaglie del generalissimo dalla famiglia che se le fece pagare un giusto prezzo.
A Milano sembrò che intitolare una piazza a Cadorna fosse un doveroso omaggio al valore del primo soldato d’Italia. E tante città hanno inutilmente sprecato dei soldi per inaugurare monumenti, statue, lapidi, affreschi a tanti eroi da strapazzo che hanno provocato più disastri di quanto la fantasia possa immaginare.
LA RISCOSSA ? SOLO SULLA CARTA
La riscossa di Vittorio Veneto esiste soltanto sulla carta perché, in quella settimana, a cavallo fra la fine d’ottobre e l’inizio di novembre 1918, non ci fu nessun assalto e nessuno sfondamento. Gli italiani avanzarono perché gli austriaci si stavano ritirando: e gli austriaci si ritiravano perché era diventato inutile continuare una guerra che era irrimediabilmente perduta.
Non a caso il comandante in capo di allora, Armando Diaz – informato di una travolgente avanzata italiana che, evidentemente, non aveva ordinato ne che era a conoscenza si stesse sviluppando – tuffò la testa nella cartina geografica, strizzando gli occhi da miope, dietro occhiali con lenti spesse un dito alla ricerca del teatro della sua rivincita. E poiché faticava a individuare il luogo della battaglia, chiese soccorso agli uomini dello Stato Maggiore che affollavano la sua stessa stanza: «Ma ‘sto Vittorio Veneto ‘ndo cazzo stà…?»
(16 – Continua)
Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di martedì 10 novembre 2009, pag. 12- 13 -13.
PS
ERRATA CORRIGE
Il museo di Gorizia, dedicato ai documenti e ai reperti della Prima guerra Mondiale, raccoglie le medaglie e le onorificenze attribuite al generale. Comandante di stato Maggiore, Armando Diaz. Nel numero di martedì dieci novembre, l’esposizione dei cimeli storici è stata erroneamente attribuita ai titoli del generale, Capo di Stato maggiore. Luigi Cadorna.
Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.