Sabino Acquaviva
Professore Acquaviva, questa settimana in Venerdì di Repubblica dedica un servizio di copertina al dialetto, con la chiave “se lo parliamo tutti, come facciamo a capirei?”. Come risponde?
«All’inizio del Rinascimento esistevano le lingue regionali – veneto, toscano, provenzano, catalano e via dicendo – e una lingua veicolare, comune, che era il latino. Poi in ogni area geografica una lingua regionale si è imposta sulle altre e sono nate le lingue nazionali: il castigliano è diventato lo spagnolo, il francese del Nord è diventato il francese e così via. Sono seguiti tre secoli di guerre violentissime. Ora cosa dovremmo fare: tornare indietro? No, guardare avanti. Noi abbiamo bisogno degli Stati Uniti d’Europa, perché Paesi di 50-60 milioni di abitanti non possono competere con colossi come Cina e India, che hanno ritmi di espansione 8-10 volte superiori».
Ma tutto questo cosa c’entra con le lingue?
«C’entra, perché l’unificazione del continente passa attraverso l’indebolimento delle lingue nazionali e la riscoperta di culture e lingue regionali. Questo lavoro di riscoperta guarda al futuro, non al passato, alla costruzione di una nuova grande Europa. Non ha senso dire: dobbiamo parlare l’italiano, cioè il toscano. Quando l’Italia si troverà di fronte all’India e alla Cina, seguire questa politica tradizionale vorrà dire decretare la nostra fine. Mentre le lingue regionali aiutano a preparare il futuro perche l’unità dell’Europa la faranno i popoli, non gli Stati nazionali»
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Perché la sinistra, anche attraverso i suoi giornali, è cosi ostile nei confronti delle lingue e più in generale delle culture locali?
«Da un certo punto di vista è strano, perché la sinistra era internazionalista, quindi fin dall’inizio avrebbe dovuto essere la prima a non difendere l’italiano – che poi è anch’esso una lingua regionale – ma le diverse lingue regionali. Invece ha sposato l’ideologia liberale partita dal Piemonte, che attraverso il pugno di ferro dei prefetti ha imposto, in nome dell’unificazione, il primato dell’italiano e la cancellazione delle lingue locali».
Eppure in certe regioni è il centrosinistra a tutelare le parlate locali, com’era nel Friuli di Illy e com’è ora nella Campania di Bassolino…
«Proprio non si capisce perché fanno una politica contro la rinascita delle strutture regionali. Non dimentichiamo che l’Italia è stata fatta dai piemontesi con la forza».
Ma c’è anche chi confonde lingue e dialetti, vero?
«Su questo c’è una grande confusione. I dialetti in Italia saranno 140, e può darsi che a parlarli non ci si capisca; ma per contare le lingue regionali è sufficiente una mano».
E all’estero, come dovremmo parlare?
«Siccome non si può recuperare il latino: a scuola occorre insegnare l’inglese a tutti e le lingue regionali nelle loro regioni. Il veneto, per esempio, è stata una lingua internazionale per secoli, tanto che ci venivano scritti i trattati internazionali».
Ha citato la scuola. La salvezza delle parlate locali passa da li?
«È evidente che una lingua che non viene insegnata a scuola è una lingua minoritaria che muore. Com’è successo con il processo di francesizzazione della Corsica, quando i genitori insegnano ai figli a parlare la lingua dell’occupante, per quel popolo è la fine».
Quanto si fa, oggi, a livello politico per difendere questo patrimonio culturale?
«Qualcosa si fa, sia per le culture regionali che con il federalismo fiscale. Ma serve una politica molto precisa, funzionale a costruire il futuro a partire dalla scuola, che secondo me non si è ancora adeguata alla drammaticità della situazione: Tra 20-30 anni, se non insegnate a scuola, le lingue regionali spariranno. C’è ancora tempo per provvedere. Ma bisogna agire subito».
Fonte: srs di Andrea Accorsi; da La Padania di venerdì 25 settembre 2009; pag. 20
(VR 16 dicembre 2009)