Mar 16 2009

Il giallo del libro che anticipava la scoperta delle tombe etrusche

Category: Archeologia e paleontologia,Cultura e dintornigiorgio @ 09:17

Un libro, nel lontano 1995, anticipava l’ubicazsi è ione delle tombe etrusche in una vasta area che va da Chiusi a Sarteano. Tra queste, rientra anche la ormai mitica “Tomba della Quadriga Infernale”, il cui rinvenimento venne ufficializzato solo nell’ottobre del 2003.

A rendere nota questa “versione” della vicenda è l’autore del libro, Stefano Romagnoli (nella foto), appassionato archeologo che, accortosi di aver scritto un libro pieno di indicazioni di siti archeologici, decise di non dare alle stampe l’opera, ma ne affidò l’analisi alla Procura della Repubblica di Montepulciano. Da allora, l’uomo cerca di vedersi riconoscere la paternità delle scoperte avvenute alle Pianacce.

 

SARTEANO – Ivan Meacci

La storia dell’Archeologia è costellata di scoperte la cui “paternità” resta contesa tra più studiosi. E non mancano neppure – anzi pullulano -esempi di grandi scoperte fatte da “dilettanti” non accademici che, spinti dalla pura passione, sono riusciti a risolvere complicatissime sciarade: alla maniera dell’italiano Giovanni Battista Belzoni, saltimbanco degli inizi dell’800, il cui nome resta impresso all’interno della piramide di Chefren. Ci sono entrambi questi ingredienti nella controversa vicenda che vede contrapposti i sarteanesi Stefano Romagnoli. Vito De leso e Giancarlo Pellegrini, celebrati da molti come i veri scopritori della “Tomba della Quadriga Infernale”, (in un punto all’epoca indicato da loro come “presunto Sepolcro del Re Porsenna”) alle Soprintendenze locali e allo staff dell’archeologa Alessandra Minetti che, invece, ne ha annunciato l’avvenuto ritrovamento. La vicenda ha assunto i contorni di un giallo, degno della migliore tradizione di Indiana Jones, e rischia di avere strascichi dal difficile dissolvimento.

«La passione per l’archeologia mi è stata trasmessa da mio padre è da mio nonno, contadini nei poderi di Sarteano. Posso vantarmi di conoscere ogni metro di questa zona, e di aver raccolto le storie e le leggende che i sarteanesi si tramandavano sugli Etruschi». Il racconto di Stefano Romagnoli inizia così, lasciando intendere la passione alla base delle sue intuizioni. E proprio queste intuizioni sono state la molla per la stesura di un libro sull’archeologia locale dal titolo “Io citto tu citta – i segreti nascosti sulle terre del Re Porsenna”. «In questo libro, concluso nel 1995 – racconta Romagnoli – ho descritto le strutture portate alla luce, e quelle che ancora non sono state riportate alle luce».

Un dettaglio, quest’ultimo che mette in allarme lo studioso: molte delle informazioni trascritte, se cadute nelle mani sbagliate, avrebbero potuto mettere in pericolo il patrimonio storico e archeologico dell’area…

«Questo libro non poteva essere pubblicato – spiega Romagnoli – perché avrebbe rilevato a tutti, anche ai malintenzionati, la locazione esatta delle tombe ancora nascoste. Decidemmo di consegnare tutto il materiale, insieme ad un esposto che denunciava le scoperte, alla Procura della Repubblica di Montepulciano. L’esposto che descriveva le nostre scoperte fu anche inviato al Ministero dei Beni Culturali, alla Soprintendenza per la Toscana, agli enti preposti, ed anche al Presidente della Repubblica». L’allora Soprintendente della Toscana, denunciò per millanteria e probabili ricerche non autorizzate il signor Romagnoli ed i suoi due amici. La Procura avviò delle indagini per accertare se quello era stato scritto avesse una qualche validità:  se Romagnoli, De leso e Pellegrini, avessero eseguito ricerche abusive; e se avevano eseguito scavi non autorizzati.

Una commissione – guidata dal Procuratore della Repubblica. Federico Longobardi, dal Ctu della Procura Angelo Vittorio Mira Bonomi dall’Ispettore Onorario per i Beni Archeologici, Giulio Paolucci, da altre autorità della Tutela del Patrimonio, dai Carabinieri e da i tre personaggi che rivendicavano la scoperta della “Tomba della quadriga infernale” (allora presunta tomba del Re Porsenna) – fece dei sopralluoghi in tutte le 14 zone che erano indicate nel libro e nell’esposto, compresa la zona numero 8 (le Pianacce). Un’area, quest’ultima, che dopo la scoperta della tomba effettuata negli anni 50 da Metzh. era stata ignorata “al punto da permettere la costruzione di edifici industriali e privati. Per ogni presunta struttura sepolta, indicata nel libro di Romagnoli, vennero presi appunti A misure (dati completi di oltre 300 fotografie che ritraggono Romagnoli o i suoi soci, che indicano con il dito il punto preciso dove si sarebbe dovuto scavare per portare alla luce le presunte sepolture). I rappresentanti della Soprintendenza, dichiararono a verbale che non poteva esserci nulla in nessuno di quei 14 punti, compreso il numero 8. Al contrario, la relazione della Procura redatta da Angelo Mira Bonomi diede come attendibili alcune delle scoperte citate nel libro. La Procura, dopo aver redatto un verbale per ognuno dei 14 siti (compreso il numero 8, dove veniva perfettamente indicato come accedere alla Tomba del Re Porsenna – risultata poi in superficie quella denominata Quadriga Infernale) archiviò il caso perché : il libro era attendibile; non era stata commessa millantazione e non era stato messo a rischio il patrimonio culturale, dal momento che era stata denunciata la scoperta delle aree archeologiche prima della pubblicazione del volume che ne avrebbe rivelalo l’ubicazione; non erano stati eseguiti scavi o ricerche non autorizzate, ma solo ricerche storico/scientifiche. «Risolti i problemi legali – spiega Romagnoli – offrimmo la nostra collaborazione alla Soprintendenza anche per farci riconoscere le scoperte. Contattammo il Ministero, La Soprintendenza di Firenze e quella di Chiusi. Il Soprintendente Nicosia ci rispose che quelle tombe non esistevano, oppure ci eravamo sbagliati con tombe già aperte da loro e poi con il tempo riempite di terra: perché i siti indicati nel libro erano già ampliamente conosciuti ed esplorati. Quindi, il mio manoscritto non era di nessun interesse». Dopo incontri con l’allora Soprintendente di Chiusi, Rastrelli, con la dottoressa Minetti (ad oggi direttrice del Museo di Sarteano) e con suo marito , Giulio Paolucci (ad oggi direttore del Museo di Chianciano ed allora Ispettore onorario della Sovrintendenza) andati non a buon fine, i tre amici decidono di rivolgersi alla stampa. Da Rai 3 Toscana ai quotidiani locali; dal Corriere della Sera al Sole 24 Ore. si interessarono dei caso sarteanese. «La notizia arrivò fino in Giappone – dice Romagnoli – da dove un mecenate offrì al Comune di Sarteano di finanziare le ricerche ma, il Comune declinò l’offerta». Nel 2000, il gruppo archeologico, di cui Fabio Dionori (attuale Sindaco) era Presidente e Alessandra Minetti. Direttrice degli Scavi, cominciò a scavare il famoso pianoro delle Pianacce. A questa azione corrisponde una reazione di Romagnoli che riprende a scrivere al Ministero dei Beni Culturali, al Presidente della Repubblica ed alle agenzie giornalistiche nazionali. «Appena entrarono nella prima tomba feci degli esposti a tutti gli organi competenti, dove dicevo che stavano scavando nei punti da me indicati, e senza che io ne fossi stato informato – continua Romagnoli – Mi rispose il nuovo Soprintendente di Firenze  Angelo Bottini, affermando che gli scavi non erano stati eseguiti sulla base delle mie indicazioni, ma su una nuova ricerca di scavo». «A tutt’oggi – conclude Romagnoli  hanno riscoperto circa nove delle oltre 100 tombe da me perfettamente indicate durante i sopralluoghi nelle 14 zone, compresi quelli in località Pianacce». Il Tg di Rai 3 Toscana, quando fu ritrovata la prima tomba, diede il merito a Stefano Romagnoli e non al gruppo dell’archeologa Alessandra Minetti, così come fecero Discovery Channel e tutti i mezzi di informazione che riportarono la notizia. Informazioni quasi sempre smentite all’indomani della pubblicazione, sebbene nessuno abbia mai direttamente denunciato Romagnoli ed i suoi amici.

 

LA VERITA’ DI ROMAGNOLI                          

ROMAGNOLI CONSEGNA IL SUO LIBRO ALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA             1995

SOPRALLUOGHI NELL’AREA INDICATA COME SEDE DELLA TOMBA DEL PORSENNA  1995

INIZIANO GLI SCAVI ALLE PIANACCE NEI PUNTI INDICATI DA ROMAGNOLI         2000

 

Fonte: IL Cittadino Oggi- data: 05.07.05; La porta del tempo

Rassegna stampa sul caso Romagnoli: http://www.romagnolistefano.com/giornali.htm


Mar 16 2009

Il caso Porsenna

Category: Archeologia e paleontologia,Cultura e dintornigiorgio @ 07:28

 

La storia infinita del caso continua e va avanti, ma dei riconoscimenti ancora nemmeno l’ombra. Nonostante la nostra imperterrita tenacia, non siamo ancora stati in grado di far valere i nostri diritti, ci rendiamo conto di essere “pesci troppo piccoli” per poter abbattere il muro del potere, dietro il quale si nascondono alcuni elementi molto più potenti e ben piazzati di noi, normali ed onesti cittadini. Vito De Ieso; StefanoRomagnoli; Giancarlo Pellegrini. 

 

Immagine scannerizzata dal Volume in nostro possesso (regolarmente acquistato). Sabato 25 Novembre 2006, a Sarteano presso il Teatro degli Arrischianti, Alessandra Minetti (Direttrice del Museo Civico Archeologico di Sarteano), ha presentato in pubblico la sua opera sulla Quadriga Infernale.

Noi abbiamo partecipato con molto entusiasmo, ed abbiamo acquistato anche il volume in questione. Alla presentazione vi erano in oltre: Il Prof. Mario Torelli; Il Sindaco Dionori Fabio (Comune di Sarteano); ecc ecc.

L’opera è ben fatta, scorrevole, uniforme nel tema, e dettagliata nella parte tecnica.  Le immagini rendono in maniera molto reale, l’idea di cosa si può vedere visitando di persona la Tomba della Quadriga.

Il volume descrive oltre alle immagini parietali, anche i reperti trovati all’interno, riportandone ottime immagini, con l’apporto di grafica prospettiva, i termini tecnici specifici sono alla portata di chiunque abbia una modesta dimestichezza con la nomenclatura, e l’etimologia di Archeologica classica.

Nell’insieme l’opera ci è piaciuta molto, non possiamo far altro che fare i nostri sinceri complimenti alla Autrice Alessandra Minetti, ed ai collaboratori che hanno partecipato alla realizzazione di questo volume.

C’è da dire che nel nostro Paese, sono ben rare scoperte così uniche come questa, altrettanto rari sono i ritrovamenti di reperti (UNICI), così ben descritti e relazionati da volumi fatti come quello in questione.

Noi siamo ben lieti, di contribuire alla divulgazione di tutto ciò, parlandone in questo nostro “sito internet“, il quale ha 65.000 riferimenti di visibilità, ed è conosciuto da tutti i motori di ricerca, e dai principali portali Archeologici Nazionali ed esteri, così facendo l’indice di visibilità della (Quadriga Infernale, e del suo Volume omonimo), verrà notevolmente incrementato, in quanto questa pagina è visitabile direttamente nella Home Page del nostro Sito, e di riflesso, sarà visibile e rintracciabile facilmente in tutto il mondo.

 

Purtroppo, in conclusione, c’è (l’unica ed inevitabile “critica”) alla quale noi non potevamo rinunciare:

Si tratta della pagina dei “ringraziamenti”, dove è scritta la frase: “Si ringraziano in primo luogo i Membri del Gruppo Archeologico Etruria, a cui di deve la scoperta”.

 

Secondo il nostro parere, sarebbe stato più onesto usare la parola “ritrovamento o recupero “, al posto della parola “scoperta”, e di seguito spiegheremo il motivo di tale affermazione: Dal dizionario della lingua Italiana “sco|pèr|ta = lo scoprire, il rinvenire qcs. di sconosciuto o di nascosto: la scoperta  delle sorgenti del Nilo, la scoperta di una particella subatomica, la scoperta di un bene (nascosto), ecc ecc.

Quindi lo scopritore è considerato tale, quando scopre qualcosa di “nascosto”, cioè: il punto in cui, la posizione ove, si trova il bene (ancora nascosto), ma solamente dopo il recupero di tale bene si potrà stabilire se si trattava di una vera scoperta, o se trattasi di (supposizione).

Lo scopritore ha il dovere, di segnalare alle autorità competenti, (dove suppone di aver scoperto “anche se ancora nascosti”, i beni importanti, da portare alla luce, in oltre (lo scopritore), deve rendere noto in quale modo è arrivato alla supposizione, che in quel punto si possano trovare reperti o strutture Archeologiche di elevata importanza.

 

Noi: (Pellegrini Giancarlo, Vito De Ieso, e Romagnoli Stefano), nel 1995, lavorando al nostro libro che parlava di “segreti nascosti sulle terre del Re Porsenna), ci rendemmo conto che indicavamo in tale libro parecchie strutture Archeologiche (ancora nascoste).

Strutture da noi ipotizzate, durante la ricerca storico/scientifica fatta appositamente per strutturare ed arricchire il contenuto del libro, le quali non potevano assolutamente essere rese pubbliche in tale libro, senza prima averne denunciata la scoperta in modo regolamentare.

Così facemmo, compilando ed inviando un esposto che denunciava le scoperte avvenute durante la scrittura del libro, a tutte le Autorità competenti, compreso l’allora in carica Presidente della Repubblica.

La notizia trapelò anche all’Ansa e quindi a tutti i quotidiani Nazionali, creando una confusione forse un po’ troppo esagerata di tale notizia, al punto che la Procura della Repubblica di Montepulciano, aprì una indagine sulla nostra vicenda, “forse su denuncia esposta dalla Soprintendenza nei nostri confronti”.

Su ordine del Procuratore in carica, vennero effettuati sopralluoghi, ai quali parteciparono Persone di inconfutabile affidabilità, tra i quali il rappresentante della Soprintendenza locale, ed un perito, incaricato dallo Stato, al quale era dato il compito di fare relazione, e valutazione, sulla attendibilità nelle nostre affermazioni di scoperte fortuite.

Durante il sopralluogo avvenuto il località “Pianacce”, indicammo dove secondo noi si nascondeva una importante sepoltura, consegnando alle Autorità presenti anche un

disegno del pianoro con le rispettive sepolture ancora nascoste, e le loro precise locazioni.

Il nostro caso venne poi archiviato, e nel decreto venne scritto:”non essendo emersi durante le indagini, fatti di natura penale, ne trasgressioni alle leggi sui beni culturali, il caso viene archiviato”

Ciò vale a dire che durante il nostro operato per la scrittura del libro, non commettemmo ne reati ne inflazioni alle leggi vigenti sulla tutela del patrimonio, ed altro, non avendo quindi effettuato ricerche non autorizzate, in quanto le ricerche furono del tipo storico/scientifiche, fatte quasi esclusivamente a “tavolino”, e non sul posto, e quindi non necessitavano neppure del permesso dal padrone del terreno.

Nella parte centrale del nostro disegno avevamo supposto una sepoltura molto importante, risultata poi anni dopo essere quella della “Quadriga infernale”.

Per quanto ci riguarda, considerata (la mole di documentazione che conferma inequivocabilmente tutto ciò che abbiamo scritto in precedenza), noi fummo i primi a denunciare ufficialmente la scoperta, di una sepoltura importante in quel preciso punto dove poi si è concretizzata l’esistenza della tomba in questione, quella della

“Quadriga Infernale”.

C’è da dire in oltre che nell’arco di questi anni chiedemmo varie volte l’autorizzazione al Ministero dei Beni Culturali, per poter eseguire noi stessi gli scavi, e quindi poter portare alla luce le sepolture da noi indicate.  Tale opportunità ci venne sempre negata categoricamente, forse a causa dei contrasti che si erano venuti a creare tra noi, ed alcune sedi competenti alla materia in questione.

Di seguito, in fine, riportiamo alcuni documenti a conferma della nostra veritiera lamentela, sentendoci in un certo qual modo “derubati” di una  scoperta anticipatamente enunciata alcuni anni prima, da noi non portata alla luce, in quanto cene vennero negati i permessi.

Fonte: La porta del Tempo//2006// http://www.romagnolistefano.com//


Mar 13 2009

Robespierre: Discorso contro la pena di morte

Category: Cultura e dintorni,Giustizia Legula e Leguleigiorgio @ 10:47

Questo testo è un bellissimo esempio di umorismo involontario che, di fronte al Terrore che Robespierre scatenerà poco dopo, assurge ai vertici del tragicomico. Credo che non ci sia migliore argomento di questo discorso per dimostrare la stupidità di certe posizioni ideali, tutte fatte di belle, ma vuote parole, di concetti astratti privi di ogni contenuto, di fantasticherie filosofiche di buoni a nulla, convinti di poter spiegare e dirigere il mondo solo perché parlano. Poi la realtà, molto dura e molto cruda, prevale e ci costringe a constatare che i problemi non si risolvono con le chiacchiere, che il male si vince solo col male, che il buonismo serve solo a far prevalere i prepotenti e gli sfruttatori.


Robespierre fa il paio con Cesare Beccaria, a cui di certo si è ispirato, il quale (come racconta il Foscolo nella lettera 7-5-1887 alla Albrizzi, sulla base di quanto dettogli dalla sorella, dal fratello e dalla figlia dello stesso Beccaria, e come riferisce anche Byron) dopo aver scritto cose altamente ideali sulla pena di morte, quando sospettò un servo di avergli rubato un orologio, pretendeva che gli venissero dati “i tratti di corda” per farlo confessare.


Cose del tutto normali quando il filosofo ispiratore è quel gran farabutto che fu Rousseau.


Che le grandi professioni di ideali di taluni siano solo un tentativo di mascherare la propria ignominia interiore dietro belle parole e buoni propositi, utili per adescare o confondere sciocchi?


Nella discussione sul Codice penale, l’Assemblea Costituente si era fermata a una domanda della filosofia e del diritto: la pena di morte doveva essere conservata o abolita?


Lepelletier di Saint-Fargeau aveva presentato un rapporto nel quale si dichiarava partigiano dell’abolizione della pena di morte; nondimeno però egli la manteneva in un solo caso: contro un capo di partito dichiarato ribelle da un decreto del Corpo Legislativo. 


Lepelletier di Saint-Fargeau aggiungeva: “Questo cittadino deve cessare di vivere, non tanto per espiare il suo delitto, quanto per la sicurezza dello Stato. ” 


Robespierre, il 30 maggio 1791 parlò su questo fatto nella seduta del 30 maggio 1791. E fu per chiedere la soppressione assoluta della pena di morte.


Non fu che nella seduta di mercoledì 10 giugno che l’Assemblea si pronunciò.  Si decise, e quasi all’unanimità, di non abrogare la pena di morte.


Nota: Questo testo è stato pubblicato nella “Raccolta di Breviari Intellettuali ” dell’UTET, nella traduzione di Alberto Blanche.

 

“Essendo stata portata ad Atene la notizia che nella città di Argo erano stati condannati a morte alcuni cittadini, il popolo si recò nei templi per scongiurare gli dei onde distogliessero gli Ateniesi da pensieri così crudeli e così funesti.

Io vengo a pregare non gli dei, ma i legislatori, che debbono, essere gli organi e gli interpreti delle leggi eterne che la Divinità ha dettate agli uomini, di cancellare dal Codice dei Francesi le leggi di sangue che comandano i delitti giuridici, e che vanno contro le loro nuove abitudini e la loro nuova costituzione. Io voglio provàr loro: 1° che la pena di morte è essenzialmente ingiusta; 2° che essa non è la più reprimente delle pene, e, più che impedire i delitti li moltiplica.

Fuori della società civile, se un nemico accanito viene ad attentare ai miei giorni, e, respinto venti volte, ritorna a distruggere il campo che le mie mani hanno coltivato, poiché io non posso che opporre le mie forze individuali alle sue, bisogna che io perisca o che uccida, e la legge della difesa naturale mi giustifica e mi approva.

Ma nella società, quando la forza generale è armata contro un solo individuo, qual principio di giustizia può autorizzare a dar la morte? Quale necessità può assolverla? Un vincitore che fa morire i suoi nemici, presi prigionieri è chiamato barbaro! Un uomo che fa sgozzare un bambino, ch’egli può disarmare e punire, parrebbe un mostro! Un accusato che la società condanna non è per essa che un nemico vinto ed impotente; le è dinanzi un uomo adulto, ma più debole di un fanciullo.

Così agli occhi della verità e della giustizia, queste scene di morte che essa ordina con tanto d’apparecchio, non sono altro che vili assassinii, che dei delitti solenni, commessi, non dagli individui, ma dalle nazioni intiere, con delle forme legali.

Per quanto crudeli, per quanto stravaganti sieno queste leggi, non meravigliatevi più. Sono l’opera di qualche tiranno; sono le catene che opprimono la specie umana; sono le armi con le quali la soggiogano; esse furono scritte col sangue. “Non è, affatto permesso dare la morte a un cittadino romano. ” Tale era la legge che il popolo aveva sostenuto: ma Silla vinse e disse: Tutti coloro che si sono armati contro di me sono degni di morte. Ottavio ed i compagni suoi di delitti confermarono questa legge. Sotto Tiberio, aver lodato Bruto fu un delitto degno di morte. Caligola condannò a morte coloro che erano tanto sacrileghi da svestirsi dinanzi all’immagine dell’Imperatore. Quando la tirannia ebbe inventato i delitti di lesa maestà, che erano o delle azioni indifferenti o degli atti eroici, chi avrebbe osato pensare che potevano meritare una pena più dolce della morte, a meno di render sé stesso colpevole di lesa maestà?

Il fanatismo, nato dall’unione mostruosa dell’ignoranza col despotismo, allorché inventò a sua volta i delitti di lesa maestà divina, quando concepì nel suo delirio di vendicare Iddio, volle esso pure offrire del sangue, mettendosi al livello dei mostri.

La pena di morte è necessaria, dicono i partigiani degli antichi barbari usi; senza di essa non ci sono freni abbastanza potenti contro i delitti. Chi ve lo ha detto? Avete calcolato tutte le specie di mezzi con i quali le leggi penali possono agire sulla sensibilità umana? Ahimè! prima della morte, quanti dolori fisici e morali l’uomo deve soffrire! Il desiderio di vivere si inchina davanti all’orgoglio, la più imperiosa delle passioni che il cuore umano; la più terribile di tutte per l’uomo sociale, è l’obbrobrio, la schiacciante testimonianza dell’esecuzione pubblica.

Quando il legislatore può colpire i cittadini in tanti lati ed in tanti modi, come può credersi ridotto ad impiegare la pena di morte? Le pene non sono fatte per tormentare i colpevoli; ma per impedire il delitto, il quale teme appunto di incorrere nelle pene. Il legislatore che preferisce la orte e le pene atroci ai mezzi più dolci che sono in suo potere, oltraggia la delicatezza pubblica, affievolisce il senso morale nel popolo ch’egli governa, come un poco abile precettore che, coll’uso frequente di modi crudeli abbrutisce e degrada l’animo del suo allievo, il legislatore abusa ed indebolisce le energie del governo, volendo troppo piegare l’arco del potere. Il legislatore che stabilisce questa pena rinuncia a quel principio salutare, che ” il mezzo più efficace per reprimere i delitti è quello di adattare le pene al carattere delle differenti passioni che causano il delitto”, e di punirle, per così dire. per sé stesse. Esso confonde tutte le idee, turba tutti i rapporti e contraria apertamente lo scopo delle leggi penali.

La pena di morte è necessaria, dite voi! Se è così, perché parecchi popoli hanno saputo farne a meno? Per quale fatalità questi popoli sono stati i più saggi, i più felici, i più liberi? Se la pena di morte è la più appropriata per prevenire i grandi delitti, bisogna dunque che essi sieno stati molto rari presso i popoli che l’hanno adottata e prodigata. Invece accade precisamente tutto il contrario.

Guardate il Giappone: in nessuna parte del mondo si è tanto prodighi della pena di morte, si è tanto prodighi di supplizi; in nessuna parte del mondo i delitti sono così frequenti e cosi atroci. Si direbbe che i Giapponesi vogliono disputare di ferocia con le leggi barbare che oltraggiano e che irritano. Le repubbliche della Grecia, ove le pene erano molto moderate, e dove la pena di morte era infinitamente rara o sconosciuta, forse che avevano più delitti e meno virtù dei paesi governati da leggi sanguinarie? Credete voi che Roma fosse funestata da un maggior numero di delitti, quando, nei giorni della sua gloria, la legge Porcia ebbe distrutte le pene severe portate dai re e dai decemviri, di quanti se ne consumavano quando Silla le fece rivivere, e sotto gli imperatori che ne elevarono il rigore ad un eccesso degno della loro infame tirannide? La Russia è stata forse sconvolta, dacché il despota che la governa ha intieramente soppressa la pena di morte, come s’egli volesse espiare con questo atto di umanità e di filosofia il delitto di tenere dei milioni di uomini sotto il giogo del potere assoluto?

Ascoltate la voce della giustizia e della ragione; essa ci grida che i giudizi umani non sono mai abbastanza certi, perché la società possa condannare a morte un uomo condannato da altri uomini soggetti ad errare. Se anche voi aveste immaginato il più perfetto ordinamento giudiziario, se aveste trovati i giudici più integri e più illuminati, sarà sempre possibile un errore, non evitereste assolutamente la prevenzione.

Perché impedire il mezzo di riparare? Perché condannate all’impossibilità di tendere una mano soccorritrice all’innocente oppresso? Che importano gli sterili rimpianti, le riparazioni illusorie che voi accordate ad un’ombra vana, ad una cenere insensibile? Essi sono tristi testimonianze della barbara temerità delle vostre leggi penali. Togliere all’uomo la possibilità di espiare il suo malfatto col pentimento o con degli atti di virtù, chiudergli senza pietà il ritorno alla virtù, alla stima di sé stesso, adoperarsi per farlo più presto scendere, per così dire, nel sepolcro ancora tutto avvolto dalla macchia recente del suo delitto, è ai miei occhi una delle più raffinate crudeltà.

Il primo dovere del legislatore è di formare e di conservare gli usi pubblici sorgenti di tutte le libertà, sorgenti di tutta la felicità sociale; allorché per giungere ad uno scopo particolare, egli si allontana da questo scopo generale ed essenziale, commette il più grossolano ed il più funesto degli errori.

Bisogna dunque che le leggi presentino sempre ai popoli il modello più puro della giustizia e della ragione. Se, al posto della severità potente, della calma moderata che deve caratterizzarle, esse mettono la collera e la vendetta; se esse fanno colare del sangue umano che possono risparmiare e che non hanno diritto di spargere; se esse espongono agli occhi del popolo scene crudeli e cadaveri martoriati dalle torture, allora alterano nel cuore dei cittadini le idee del giusto e dell’ingiusto, allora fanno germogliare nel seno della società dei pregiudizi feroci che alla loro volta ne producono degli altri.

L’uomo non è più per l’uomo un oggetto altamente sacro, si ha una idea meno grande della sua dignità, quando l’autorità pubblica si ride della vita umana. L’idea dell’assassinio ispira meno spavento, quando la legge stessa ne dà l’esempio e lo spettacolo; l’orrore del delitto scema, poiché lo si punisce con un altro delitto. Guardatevi bene dal confondere l’efficacia delle pene con l’eccesso della severità; l’una è assolutamente l’opposta dell’altro. Tutto asseconda le leggi moderate, tutto cospira contro le leggi crudeli. 
Si è osservato che nei paesi liberi i delitti erano più rari, perché le leggi penali eran più dolci. I paesi liberi sono quelli nei quali i diritti dell’uomo sono rispettati, e dove di conseguenza le leggi sono giuste.

Dappertutto dove esse offendono l’umanità con un eccesso di rigore, si ha la prova che la dignità dell’uomo non è conosciuta, che quella del cittadino non esiste; si ha la prova che il legislatore non è che un padrone che comanda a degli schiavi, e che li colpisce spietatamente seguendo la sua fantasia.

Io concludo perché la pena di morte sia abrogata.

(Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre)

 

Fonte: http://www.geocities.com/Athens/Olympus/3656/index.htm


Mar 13 2009

Wikipedia cede al diritto d’autore italiota

Roma – Se ancora li avesse, probabilmente anche Fuksas si metterebbe le mani nei capelli. Secondo quanto deciso da amministratori ed utenti di Wikimedia Commons e della Wikipedia italiana, infatti, le fotografie delle sue opere – assieme a quelle di un nutrito numero di colleghi – vanno eliminate dalla nota enciclopedia telematica a causa del diritto d’autore. L’intera architettura contemporanea e moderna italiana, perciò, rischia di non poter essere raffigurata nella più grande enciclopedia del mondo, col pesante danno per i beni culturali italiani che questo comporta.

 

Mentre il Brunelleschi se la rideva dal suo sepolcro in Santa Maria del Fiore, già nel gennaio 2007 la Soprintendenza per il Polo Museale fiorentino pensava bene di diffidare l’uso “in modo non autorizzato di immagini di opere conservate nei musei statali di Firenze”, inviando una lettera formale tramite il sistema OTRS alla Wikimedia Foundation (che gestisce tutti i progetti intorno a Wikipedia).

 

Da allora si è animato un ampio dibattito, fino ad arrivare alla sofferta decisione di eliminare le fotografie raffiguranti opere architettoniche in Italia di progettisti ancora in vita, o morti da meno di 70 anni (come previsto dalla Legge 633/1941 sul diritto d’autore). Questo perché la legislazione italiana, a differenza di molti altri paesi, non contemplerebbe il cosiddetto panorama freedom (libertà di panorama), che permette a chiunque di fotografare e riprodurre quanto pubblicamente visibile senza preoccuparsi di dover trovare il progettista e pagargli i diritti d’autore.

 

La prossima volta che fotografiamo la Stazione Centrale di Milano in una calda sera estiva, quindi, oltre a dover fare attenzione a non essere rapinati, sarà meglio verificare che non ci siano nelle vicinanze funzionari della SIAE. Anche le opere dell’architettura (come quelle della pittura, del disegno, della fonografia…), infatti, sono protette dalla legge sul diritto d’autore (Artt. 2 e 13). Di conseguenza, solo gli autori originali avrebbero il diritto esclusivo di riprodurle, in qualsiasi forma: inclusa quella fotografica. La violazione vera e propria (l’uso per scopo personale è consentito), nasce nel momento in cui la fotografia viene caricata su un sito ad accesso pubblico e dotata di una licenza libera, diventando potenzialmente riproducibile anche con fini commerciali. Questa è esattamente la filosofia Wikipedia.

 

Dello stesso avviso è il prof. Enrico Santarelli, ordinario di Politica Economica ed Economia industriale dell’università di Bologna, a cui abbiamo chiesto un parere in proposito. Secondo Santarelli, “la questione, ovviamente, si pone qualora i titolari del diritto intendano farlo valere”.

 

Punto Informatico: Wikipedia (anche quella italiana) si trova su server posti negli Stati Uniti, ove è in vigore la dottrina del “fair use”. Posto questo, crede sia legale la riproduzione fotografica di un’opera architettonica italiana su quei server?

Enrico Santarelli: È un questione complessa che evidenzia il problema – di cui prima o poi qualcuno dovrà occuparsi – della omogeneizzazione delle normative internazionali. È da tener presente che in materia di brevetti, ad esempio, il mancato completamento delle procedure di definizione di un “brevetto europeo” fa sì che in sede di enforcement (quasi) ciascun paese dell’ Unione europea segua procedure diverse. Tornando al caso specifico, credo che gli aventi diritto possano comunque chiedere di oscurare quel sito estero nel paese in cui la normativa non contempla la dottrina del “fair use”.

 

PI: Il nucleo della Legge sul diritto d’autore in Italia risale addirittura al 1941. Si può affermare che sia sostanzialmente arretrata rispetto al quadro mediatico e tecnologico configuratosi negli ultimi anni?

ES: Le attuali tecnologie dell’informazione e della comunicazione rendono imprescindibile una omogeneizzazione delle normative a livello internazionale. In questo caso, parlerei di una ineluttabilità della globalizzazione delle norme a tutela del copyright.

 

Quindi, a meno di un diretto pronunciamento degli interessati o di un’improbabile modifica della legge sul copyright, il destino dell’architettura moderna italiana su uno dei dieci siti più visitati al mondo, pare segnato. L’Auditorium Parco della Musica di Roma, la Fiera di Milano, la Stazione Centrale, il palazzo del rettorato de La Sapienza di Roma, le stazioni della metropolitana di Napoli, il Pirellone, la nuova chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo… scompariranno a breve dalle Wikipedie internazionali: per la gioia del turismo italico, della promozione dei beni culturali, e di quei 60 milioni di utenti che ogni giorno visitano Wikipedia nelle varie lingue. L’ironia maggiore sta nel fatto che un’opera di un architetto italiano collocata, ad esempio, in Germania, può tranquillamente essere riprodotta, poiché la legge tedesca – come la maggioranza degli stati europei – prevede la succitata “libertà di panorama”.

 

Così, mentre la stessa Germania finanzia lo sviluppo di Wikipedia, l’Italia la diffida dall’uso di fotografie di quadri presenti nei propri musei e si trova senza le immagini di tutte le opere architettoniche moderne presenti nel proprio territorio. In attesa di trovare il classico cavillo legale che risolva la situazione, fra mandolini, pizza e maccheroni.

 

Fonte: srs di Luca Spinelli da Punto informatico lunedì 02 luglio 2007


Mar 13 2009

Fotografare nei musei

 

Fotografare i quadri e le opere d’arti nei  musei italiani è vietato perché “si rovinano”, al Louvre di Parigi invece si può…

Della serie,  vivere   nel paese delle balle.


Mar 12 2009

Legge Urbani, ovvero l’ arte italiana scompare dalla rete

Ecco un bel articolo che spiega le conseguenza  di una delle più belle legge che poteva  partorite questa decadente, confusionaria e incapace  legislazione italiana dove la sapienza  è un’opzione rarissima.

 

Esempio eclatante della totale mancanza di   rispetto  dello stato verso i sui cittadini, visto che è riuscita per i soli meri interessi di potentati economici, culturali e fiscali togliere l’usufrutto  dell’arte  e delle bellezze dell’ Italia agli stessi italiani e non solo.

 

Venerdì  21 dicembre 2007

Roma – Pochi giorni fa il Ministro Rutelli ha annunciato il rientro nel nostro territorio di opere d’arte italiane trafugate e portate illegalmente all’estero. 

Dal 21 dicembre al 2 marzo, sessantotto manufatti d’epoca romana, greco-romana ed etrusca, avranno temporaneamente casa in una mostra al Quirinale, di ritorno dalle teche di prestigiosi musei e gallerie di tutto il mondo (tra i quali il Metropolitan di New York), per poi trovare collocazione nei più importanti musei della penisola.

L’intellighenzia italiana, con in prima fila il ministro Rutelli, si è felicitata e congratulata per quello che rappresenta indubbiamente un notevole successo per i beni culturali nostrani.

Queste opere però – e non solo queste – sono condannate da una misconosciuta legge italiana ad un limbo burocratico dal quale sarà ben difficile tirarle fuori, e che rischia di consegnarle all’oblio più completo.

Il “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (che chiameremo Codice Urbani, dal nome del suo ispiratore), regola tutte le opere gestite da enti pubblici italiani, e sta creando non pochi problemi alla loro promozione nel mondo. 

Tale codice prevede il divieto assoluto di fotografare le opere in mancanza di un’autorizzazione dell’ente che le gestisce (museo, comune, ministero…). Per lo stesso motivo è vietata anche la riproduzione su internet.

Nel silenzio generale dei media, sotto la scure del Codice Urbani sono già passate l’Annunciazione di Leonardo, la Venere di Botticelli, il Bacco di Caravaggio ed altre notissime opere di Raffaello, Tiziano e Rembrandt: tutte scomparse dalla maggiore enciclopedia online del mondo. 

Ma non è tutto: altre decine e decine di fotografie di opere notissime stanno scomparendo proprio in questi giorni a causa della suddetta legge. 

E con loro, chissà quante altre nel silenzio di siti più piccoli spersi per la Rete.

Anche le opere appena recuperate rischiano la stessa sorte, con la tutto sommato piccola aggravante che il tempo per fotografarle è pure più ristretto. I reperti, infatti, dopo il breve periodo di permanenza al Quirinale, partiranno per le loro collocazioni definitive in musei e gallerie italiane. 

A chi volesse fotografarli per inviarne la foto alla nonna che vive in Svizzera, non resta che appostarsi davanti al Quirinale per intercettarli durante il loro ultimo viaggio verso la galera burocratica dei musei italiani (sempre che, com’è ovvio che sia, non siano già ora in gestione a un ente pubblico).

Il governo, interrogato sulla questione, ha recentemente confermato ufficialmente il ruolo e i poteri operativi di questa legge. Nella stessa dichiarazione, il sottosegretario ai beni culturali Andrea Marcucci ha chiarito incontrovertibilmente che anche la “Libertà di panorama” in Italia non esiste. 

Riassumendo: non solo non è possibile fotografare le moderne opere architettoniche pubbliche, non è nemmeno possibile fotografare quadri e sculture di qualsiasi epoca presenti nel territorio italiano.

In una società sempre più pervasa dalla tecnologia e dall’immediatezza di comunicazione, dove la maggioranza delle informazioni viene acquisita online, l’Italia si chiude dietro a leggi burocratiche e farraginose che stanno facendo scomparire tutta la sua arte dal Web: coi danni che questo comporterà nel breve ma soprattutto nel lungo termine.

E ora c’è già chi pensa che le opere trafugate stessero molto meglio nei musei che, fino ad oggi, le hanno esposte molto più liberamente.

 

Fonte Prima comunicazione 21,12,07

Luca Spinelli

luca.spinelli@deandreis.it


Feb 28 2009

La Biblioteca di Alessandria d’Egitto

 

La Biblioteca di Alessandria era non solo una delle glorie dell’antico Egitto, ma si può dire di tutto il Mediterraneo e  del mondo antico.  Storicamente, si può collocare la sua fondazione all’inizio del III Secolo a.C.; voluta da Tolomeo I Sotere con l’idea di custodire l’intero scibile umano

Tolomeo I,  grande cultore delle arti letterarie, intuì quanto fosse importante preservare tutto il sapere dell’umanità, non solo per metterlo a  disposizione dei dotti, ma al fine di tramandarlo ai posteri. Possiamo comprendere quanto fosse difficile l’idea del sovrano. In quel periodo la conservazione dei testi era per lo più affidata a scribi, sacerdoti o a pochi  privati; la diffusione dei testi era molto limitata anche a causa del costo proibitivo di tavolette, papiro e pergamene. 

Il primo a concepire l’idea di una trasmissione dei testi sotto forma di raccolta fu Aristotele, che  tramandò la sua opera letteraria ai propri allievi, tra i quali  vi era Teofrasto, a sua volta amico di Demetrio Falereo.

Per dare vita alla proprio progetto, Tolomeo si avvalse proprio della collaborazione dell’ illustre letterato dell’epoca, il greco Demetrio Falereo che, fuggito da Atene, si era rifugiato  ad Alessandria presso i Tolomei.   La Biblioteca di Alessandria fu pertanto concepita  sul modello di quella  aristotelica, cioè sulla raccolta sistematica dei testi che venivano in seguito messi a disposizione di un più vasto pubblico.

Realizzata nei dieci anni in cui Demetrio Falereo restò nella città,  venne impostata  su due importanti istituzioni: la Biblioteca ed il Museo. Essa si trovava all’interno del palazzo imperiale, che occupava almeno un quarto della città di Alessandria.

La Biblioteca ed il Museo furono costruiti molto vicini l’una all’altro, i testi venivano materialmente raccolti nella Biblioteca, mentre nel Museo venivano redatte le rispettive relazioni critiche; lo scopo iniziale era quello di raccogliere i soli testi greci, ma ben presto la collezione si arricchì di opere che spaziavano in ogni campo e che provenivano da ogni parte del mondo. In virtù della sua enorme popolarità la Biblioteca venne ingrandita, fino ad avere dieci enormi sale e, altre salette più piccole, riservate agli studiosi.

Non solo per la Biblioteca si ricercavano i libri in tutte le città del mondo allora conosciuto, in gara con le altre biblioteche dell’ecumene greca, tra cui quella di Atene del Liceo aristotelico e quella di Pergamo, ma se ne studiavano i testi e si compilavano, attraverso il loro confronto, i commenti e le edizioni critiche.

Si dava la caccia alle edizioni rare e si copiavano le opere ancora mancanti dei grandi filosofi, astronomi, matematici, filologi, grammatici, ecc.  Tutti i libri in possesso delle navi, in transito da Alessandria, erano vagliati e, se non erano presenti  nella Biblioteca, venivano copiati. Questi erano catalogati come «libri delle navi”.

Zenodoto di Efeso fu il primo bibliotecario; il poeta Callimaco che gli successe pose in atto il catalogo, un’opera necessaria per poter consultare i quattrocentomila rotoli di papiro, il cui numero era in continua crescita.  Il terzo bibliotecario fu Eratostene, uno scienziato, poeta e critico letterario, che elaborò la carta geografica della terra abitata e preparò una cronologia universale.

Divenne in breve tappa obbligata per tutti gli studiosi dell’antichità: la frequentarono assiduamente Euclide, il padre della geometria, Aristarco di Samo ed Erone di Alessandria.

Giunta al massimo del proprio splendore accadde però l’imprevedibile. 

Nel 47 a.C., i romani di Giulio Cesare incendiarono una delle sezioni della Biblioteca trasformando in cenere circa quarantamila rotoli; seguirono gli incendi ad opera di Zenobia, sovrana di Paimyra, di Diocleziano nel 295 d.C., fino alla completa distruzione da parte del Generale Amr Ibnel-as, agli ordini del Califfo Omar I.

Ma la tradizione che fosse stato Cesare a provocare l’incendio della Biblioteca potrebbe essere errata: lo ha dimostrato Luciano Canfora ne “La biblioteca scomparsa” (Sellerio Editore), studiando le fonti: essa fu distrutta, o almeno quel che ne rimaneva dopo molti secoli, da parte del Generale Amr Ibnel-as, agli ordini del Califfo Omar I. In quell’occasione il destino della Biblioteca di Alessandria si compì tragicamente e definitivamente. 

Era il 646 d.C. quando Omar I pronunciò le famose parole: 

…….Se i libri non riportano quanto scritto nel Corano allora vanno distrutti, poiché non dicono il vero. Se i libri riportano quanto scritto nel Corano vanno distrutti ugualmente perché sono inutili”.

La Biblioteca, tutto il suo contenuto ed il sogno che essa rappresentava, vennero per sempre avvolti dalle fiamme. I rotoli furono usati anche come combustibile per i bagni di Alessandria, ben quattromila, e sembra che ci siano voluti sei mesi per distruggere tutto il materiale.

Un’ irreparabile  perdita per l’umanità, ma anche un monito per il futuro. 

Questo oggi è quello che rimane della Biblioteca perduta di Alessandria


Feb 24 2009

Liberi ricercatori: studio, storia, archeologia, ricerca di superficie, ovvero; i raccoglioni

Category: Archeologia e paleontologia,Cultura e dintornigiorgio @ 09:46

Un libero ricercatore, ovvero un raccoglione, che annota il reimpiego di un manufatto romano

E’ una attività di ricerca storica ed archeologica che viene praticata non da accademici, ma da normali cittadini che pur essendo impegnati per le loro professioni in attività lavorative diverse, sono animate e legati tutti grandi passioni culturali e intellettuali. 

Passano buona parte del loro tempo libero in studi e ricerche. 
Sono legati soprattutto al proprio territorio di residenza che conoscono e visionano attentamente, registrando e fotografando ogni singolo angolo e  in alcuni casi, raccogliendo e consegnando alle soprintendenze, reperti, che le arature, le bonifiche del territorio, o le costruzioni edilizie, nella loro normale distruzione archeologica, portano in superficie.

 Per questo le istituzione e la scienza ufficiale, con disprezzo, nella loro superbia intellettuale e la loro ignoranza umana, chiama queste persone raccoglioni. 

La leggenda metropolitana dice che il termine sia stato coniato da un professore dell’ovest vicentino docente a Padova.

 Comunque questi raccoglioni sono responsabili della localizzazione e segnalazione del 90 % delle scoperte archeologiche.


Feb 22 2009

Biodiversità umana: tutte le lingue in pericolo nell´Atlante Unesco.

LIVORNO. L´Unesco ha lanciato a Parigi la versione internet del suo nuovo Atlante delle lingue in pericolo nel mondo. Questo strumento interattivo propone dati aggiornati su circa 2.500 lingue in pericolo nel nostro mondo globalizzato e può essere completato, corretto, attualizzato in diretta grazie al contributo dei suoi utilizzatori. L´Atlante è stato presentato alla vigilia del 21 febbraio, giornata internazionale delle lingua materna e permette di ricercare, secondo diversi criteri e classificazioni, le 2.500 lingue in pericolo di estinzione divise in: vulnerabile, in pericolo, sériamente in pericolo, in situazione critica ed estinta dopo il 1950.



«Alcuni di questi dati sono particolarmente inquietanti – spiega la nota di presentazione dell´Unesco – su circa 6.000 lingue esistenti nel mondo, più di 200 lingue si sono estinte nel corso delle ultime tre generazioni, 538 sono in situazione critica, 502 seriamente in pericolo, 632 in pericolo e 607 vulnerabili». 



199 lingue sono ormai parlate da meno si 10 persone, alter 178 hanno ormai tra 10 e 50 locutori. Tre i linguaggi ormai praticamente morti e dimenticati viene citato il Manx, la parlata tradizionale dell´isola di Man, estinto nel 1974 con la scomparsa di Ned Maddrell; l´Aasax della Tanzania, estinto nel 1976, l´Ubykh della Turchia, sparito nel 1992 insieme al signor Tevfik Esenç, l´Eyak dell´Alaska, scomparso nel 2008 con la morte di Marie Smith Jones.



Il direttore dell´Unesco, Koïchiro Matsuura, ha detto che «la scomparsa di una lingua porta alla sparizione di numerose forme del patrimonio culturale immateriale, in particolare della preziosa eredità costituita dalle tradizioni e dalle espressioni orali, dai poemi alle leggende, fino ai proverbi e ai motti di spirito, della comunità che le parla. La perdita delle lingue avviene così a detrimento del rapporto che l´umanità intrattiene con la biodiversità, perche esse veicolano numerose conoscenze sulla natura e l´universo». 



Alla redazione dell´Atlantte hanno collaborato più di 30 linguisti che con questo imponente lavoro dimostrano che il fenomeno della scomparsa delle lingue si manifesta in tutti I continenti e in condizioni economiche molto diverse tra loro. Nell´Africa sub-sahariana, dove vengono parlate circa 2.000 lingue diverse (un terzo del totale mondiale) è probabile che nei prossimi cento anni ne scompaiano il 10%. 



In India, Usa, Brasile, Indonesia e Messico, Paesi con grande diversità linguistica al loro interno, sono anche quelli che contano il maggior numero di lingue in pericolo di estinzione. In Australia l´inglese sta mettendo a rischio o degradando 108 lingue. 

In Italia le lingue a rischio sono 31: 5 sono seriamente in pericolo (Töitschu, Croato del molise, Griko del Salento, Griko della Calabria e Gardiol); 22 in pericolo (Occitano, Franco-provenzale, Piemontese, Ligure, Lombardo. Mocheno, Cimbro, Ladino, Sloveno, Friulano, Emiliano-romagnolo, Faetano, Arbëreshë-Albanese, Gallo-siciliano, Campidanese, Logudorese, Catalano-algherese, Sassarese e Gallurese, Corso), 4 sono vulnerabili (Walzer-Germanico, Veneto, Napoletano-calabrese, Sicilano).



L´Unesco avverte che «La situazione quale presentata nell´Atlante non è però sistematicamente allarmante. Così Papua Nuova Guinea, il Paese che registra la più grande diversità linguistica del pianeta (più di 800 lingue vi sarebbero parlate) è anche quello che ha relativamente meno lingue in pericolo (88)». 



Così come, anche se nell´Atlante vengono classificate come estinte, alcune lingue sono oggetto di un´attività di riscoperta e rivitalizzazione il Cornique (Cornovagliese) o il Sîshëë della Nuova Caledonia ed è possibile che queste lingue morte risorgano a nuova vita. 



Inoltre, grazie a politiche linguistiche favorevoli, diverse lingue autoctone vedono aumentare i loro locutori. E´ il caso dell´Aymara centrale e del Quetchua in Perù, del Maori in Nuova Zelanda, del Guarani in Paraguay e di diverse lingue amerindie (ed inuit) in Canada, negli Usa e in Messico. L´Atlante dimostra anche che una stessa lingua a destini diversi, per ragioni economiche, per le politiche linguistiche e per fenomeni sociologici, a seconda dei Paesi in cui viene parlata la stessa lingua non mantiene la stessa vitalità. 



Per Christopher Moseley, un linguista australiano che ha curato la pubblicazione dell´Atlante, «Sarebbe naif e semplicistico affermare che le grandi lingue che sono state lingue coloniali, come l´Inglese, il Francese e lo Spagnolo) sono dappertutto responsabili dell´estinzione delle altre lingue. Il fenomeno di un sottile equilibrio di forze rilevato in questo Atlante permette ad ognuno di comprendere meglio questo equilibrio».

 

Secondo l’Unesco, quindi le Nazioni Unite, le lingue in pericolo parlate nello Stato italiano sono 31. 

Secondo lo Stato italiano (Legge 482/99), le lingue in pericolo parlate nel suo territorio sono 12.

 Non sarebbe forse ora – anche per lo Stato italiano, così come per gli altri Stati –  di mettersi al passo con la civiltà anche per quanto riguarda questo delicatissimo argomento, sempre più attuale in un periodo come questo, in cui ci troviamo a fare i conti con il più disastroso fallimento della globalizzazione e della sua ideologia culturalmente genocida? Non c’è altro da aggiungere, a questo punto. 

 

Fonte: Linguedialetti.splinder.com


Feb 12 2009

Esempi di Vita – Steve Paul Jobs agli studenti di Stanford: “Non accontentatevi mai”

Category: Cultura e dintorni,Informatica,Scuola e universitàgiorgio @ 17:02

Il 12 giugno 2005 è stata la giornata speciale per i laureandi di Stanford, una delle più famose università al mondo, con sede nel cuore della Silicony Valley. Ma è stata anche la  giornata speciale di Steve Jobs, invitato a tenere il commencement address, il discorso augurale per i neo-laureati.

Il vostro dovere è “non accontentarvi e pensare l’impossibile”. Questo il consiglio di Steve Jobs ai laureati di Stanford ai quali ha parlato nei giorni scorsi. 

Ecco,  l’intervento del fondatore Apple che è un sunto della sua filosofia  per il lavoro e per la vita. 

Continua a leggere”Esempi di Vita – Steve Paul Jobs agli studenti di Stanford: “Non accontentatevi mai””


Feb 03 2009

Solo l’albero che cresce sulle proprie radici può restituire alla terra buoni frutti.

 

L’albero che cresce sulle proprie radici restituisce alla terra buoni frutti” 

L’albero siamo noi e le radici sono la nostra storia. 

La frase è di San Bernardo da Chiaravalle, e rappresenta la convinzione che solo attraverso la conoscenza del proprio passato potremo vivere consapevoli nel presente, producendo frutti per il futuro.


Gen 28 2009

Cultura e coltura

Category: Cultura e dintorni,Lessiniagiorgio @ 16:57

 

Come ribadiva spesso Don Alberto Benedetti di Shere’  (Ceredo) di Sant’Anna d’Alfaedo,  non vi e’ sola la cultura, che si  impara a scuola, all’universita’  quella calata dall’alto, dalla toga accademico, la cultura cosidetta ufficiale;  ma vi  è  soprattutto la coltura che viene dal basso,  quella che deriva dal latino  “colere – coltivare”,  coltivare il proprio cervello dandogli continuamente nuovi stimoli,  farlo crescere con le proprie forze,  dove la volonta’  e il concime principale.  

Questo perche’  la cultura non si apprende solo a scuola,  ma e’ la coltura pratica, quella basata sull’esperienza,  sul lavoro,  sull’ascoltare,  sul toccare,  sull’annusare, sull’apprendere  dai propri errori,  la cultura data dalla vita stessa, una cultura che nessuna universita’ ti puo insegnare.


« Pagina precedente