Feb 25 2009

Pena di morte nello Stato del Vaticano:Annotazioni delle Giustizie eseguite da Gio. Battista Bugatti e da Vincenzo Balducci (1796-1870)

Category: Chiesa Cattolica,Italia storia e dintornigiorgio @ 16:44

Mastro Titta mostra alla folla una testa femminile recisa

 

Nella Città del Vaticano invece la pena di morte è stata legale dal 1929 al 1969 ed era prevista solo in caso di tentato omicidio del papa. Non è tuttavia mai stata applicata. Nel 1967 su iniziativa di papa Paolo VI non più prevista  per  alcun reato.  Venne rimossa dalla Legge fondamentale solo il 12 febbraio 2001, su iniziativa di Giovanni Paolo II. 

Mastro Titta offre una presa di tabacco a un condannato prima dell’esecuzione.

 

Pena di morte nello Stato del Vaticano: Annotazioni delle Giustizie eseguite da Gio. Battista Bugatti (detto “Mastro Titta” ) e dal suo successore Vincenzo Balducci (1796 -1870).


Sono qui riportate le note redatte dal Bugatti, il quale aveva l’abitudine di registrare le esecuzioni compiute. Si deve ad Alessandro Ademollo il ritrovamento di questo documento che venne pubblicato per la prima volta da Lapi in Città di Castello nel 1886.



1 Nicola Gentilucci, «impiccato e squartato» in Fuligno li 22 marzo 1796, per avere ammazzato un sacerdote, un vetturino e grassato due frati.


2 Sabatino Caramina, «impiccato» in Melia li 14 gennaio 1797, per omicidio 


3 Marco Rossi, «mazzolato e squartato» in Valentano li 28 marzo 1797, per avere ucciso suo zio e suo fratello cugino. 


4 Giacomo dell’Ascensione, «impiccato» al Popolo li 7 agosto 1797, per avere sfasciato molte botteghe. 


5 Pacifico Sentinelli, «impiccato» in Jesi li 30 ottobre 1797, per avere ucciso il carceriere con la sua moglie.


6 Gregorio Silvestri, «impiccato» al Popolo li 18 gennaio 1800, reo convinto di cospirazione.


7 Antonio Felici

8 Gio. Antonio Marinucci

9 Antonio Russo, «Impiccati» a Ponte li 20 gennaio 1800, per grassazione. 


10 Pietro Zanelli, «impiccato» a Ponte li 22 gennaio 1800, per monetario falso. 


11 Francesco Gropaldi, «impiccato» a Ponte il dopo pranzo li 22 gennaio 1800, per grassazione. 


12 Ottavio Cappello, «impiccato» a Ponte li 29 gennaio 1800, per aver tentato nuova rivoluzione per arme proibita. 


13 Alessandro d’Andrea, «impiccato» a Ponte il primo febbraio 1800, per aver rubato un orologio. 


14 Gio. Batta Genovesi, «impiccato, squartato e bruciato il corpo» a Ponte li 27 febbraio 1800; la testa fu portata all’Arco di S. Spirito, per aver rubato due pissidi. 


15 Gioacchino Lucarelli 


16 Luigi de Angelis

17 Lorenzo Robotti


18 Giovanni Rocchi 


19 Antonio Mauro, «Impiccati e tagliate le teste e braccia», e messe a Porta Angelica li 6 maggio 1800, e due furono bruciati» a Ponte, per avere strozzato e assassinato un prete. 


20 Bernardino Bernardi, della medesima causa, «impiccato e tagliato la testa e braccia» e messe a Porta S. Sebastiano, li… anno suddetto.


21 Giuseppe Zuccherini 


22 Giuseppe Sfreddi

23 Giacomo d’Andrea, «Impiccati e squartati» al Popolo li 19 gennaio 1801, per avere assassinato il Corriere di Venezia. 


24 Luigi Puerio

25 Ermenegildo Scani


26 Gaetano Lideri 


27 Leonardo Ferranti «Impiccati e squartati» in Camerino li 27 gennaio 1801, per avere assassinata una principessa spagnola. 


28 Teodoro Cacciona, «impiccato e squartato» al Popolo li 9 febbraio 1801, per avere rubato un ferraiolo, un paio di stivali e L. 60. 


29 Fabio Valeri, «mazzolato e squartato» in Albano li 14 febbraio 1801, per avere grassato il pizzicagnolo dell’Ariccia. 


30 Francesco Pretolani, «impiccato e squartato» in Viterbo li 21 febbraio 1801, per avere grassato e ucciso un oste con sua moglie. 


31 Giovanni Fabrini, «impiccato» al Popolo li 6 giugno 1801, per omicidio sotto la Pace. 


32 Domenico Treca, «impiccato» a Subiaco li 4 luglio 1801, per avere uccisa la moglie, un prete ed un’altra persona. 


33 Benedetto Nobili, «mazzolato» al Popolo il primo settembre 1801, per avere ucciso sua moglie, sua comare ed incendiato la casa. 


34 Antonio Neri, «impiccato» in Ancona li 26 settembre 1801, per avere rubato con chiave falsa ad un orefice due mila scudi in oro e argento.


35 Domenico de Cesare, «impiccato» a Ponte li 8 febbraio 1802, per avere grassato uno spazzino. 


36 Ascenzo Rocchi 


37 Gio. Batta Limiti, «Impiccati e squartati» a Ponte li 20 febbraio 1802, per avere grassato li carrettieri.


38 Gio. Francesco Pace di Venanzio, «mazzolato, scannato e squartato» a Ponte li 15 marzo 1802, per avere ucciso un ebreo e grassato. 


39 Domenico Zeri, «mazzolato e scannato» in Fermo li 3 aprile 1802, per avere ucciso il padre.


40 Salvatore Bozzi

41 Giuseppe Flacidi, «Impiccati e squartati» a Ponte li 28 aprile 1802, per grassazione.


42 Agostina Paglialonga, «impiccata» in Orvieto li 5 maggio 1802, per avere fatto tre fanticidi.


43 Antonio Nucci, «mazzolato e squartato» in Perugia li 8 maggio 1802, per avere ucciso e grassato un frate. 


44 Luigi Fantusati, «mazzolato e squartato» in Perugia li 8 maggio 1802, per avere ucciso e grassato il suo padrone. 


45 Giovanni Ferri 
46 Fortunato Ferri 


47 Nicola Ferri Fratelli carnali, «impiccati e squartati» in Terracina, per avere grassato il corriere di Napoli, li 25 maggio 1802. 


48 Gio. Batta Germani, «impiccato» in Ceccano li 29 maggio 1802, per omicidio volontario.


49 Cosimo Moronti, «impiccato» in Genazzano il primo giugno 1802, per omicidio, a caso pensato. 


50 Filippo Cataletti, «impiccato» in Frosinone li 18 giugno 1802, per omicidio. 


51 Felice Rovina, «impiccato» in Collevecchio li 7 luglio 1802, per avere strozzato un eremita.


52 Bernardino Palamantelli, «impiccato» a Ponte li 13 settembre 1802, per omicidio e grassazione. 


53 Stefano Viotti, «mazzolato» in Subiaco li 23 novembre 1802, per avere ucciso il padre. 


54 Francesco Angelo Sorelli, «impiccato» in Ronciglione li 15 dicembre 1802, per avere ucciso una donna.


55 Giacomo Balletti, «mazzolato» in Ronciglione li 15 dicembre 1802, per avere ucciso il padre. 


56 Domenico Guidi, «impiccato» in Viterbo li 18 dicembre 1802, per omicidio, con avergli intimato la morte 22 per le 23. 


57 Antonio Lavagnini, «impiccato e squartato» in Zagarola li 5 febbraio 1803, per aver grassato un uomo avendogli levato 27 paoli.


58 Gio. Domenico Raggi

59 Giuseppe Cioneo, «Impiccati» in Viterbo li 5 marzo 1803, per omicidj e grassazioni. 


60 Antonio Boracocoli, «impiccato» in Ancona li 15 marzo 1803, per aver dato più coltellate ad un marinaro, lo gettò nel mare ma non restò estinto, e gli levò 200 scudi.


61 Francesco Conti, «impiccato» in Città di Castello li 26 aprile 1803, per avere levato la verginità a forza ad una zitella in casa del padre con altri cinque compagni, e gli levarono un valsente di 30 scudi. 


62 Angiolo Rossi, «impiccato» in Gubbio li 2 maggio 1803, per omicidio bestiale e irragionevole. 


63 Giovanni Tranquilli

64 Vincenzo Pellicciari, «Impiccati e squartati» a Ponte li 21maggio 1803, per grassazione e furti.


65 Nicola Rossi, «mazzolato e squartato» in Terracina li 7 giugno 1803, per avere ucciso il Cancelliere di Terracina e la sua testa fu posta in Cisterna. 


66 Giuseppe delle Broccole, «impiccato» in Frosinone li 8 agosto 1803, per omicidio e furti. 


67 Vincenzo Bianchi, «mazzolato e squartato» in Orvieto li 10 dicembre 1803, per omicidio e grassazioni. 


68 Giuseppe Ceci, «impiccato» in Frosinone li 8 marzo 1804, per omicidio e grassazioni.


69 Crescenzio, ossia Vincenzo Imondi, «impiccato» in Frosinone li 12 luglio 1804, per omicidio volontario. 


70 Mattia Ricci, «impiccato» al Popolo li 22 settembre 1804, per omicidio e resistenza alla Corte. 


71 Angiolo di Pietro di Agostini, «impiccato e squartato» in Cascia li 10 ottobre 1804, per omicidio e sgrasso. 


72 Gregorio Pinto

73 Paolo Bimbo, «Impiccati e squartati» in Iesi li 17 ottobre 1805, per grassazione. 


74 Giuseppe Gatti

75 Mattia Gatti 


76 Valentino Margheri, «Impiccati e squartati» al Popolo li 12febbraio 1805, per grassatori. 


77 Domenico Civitella, «impiccato» il dì suddetto, per grassatore.


78 Luigi Masi, «impiccato» a Fermo li 30 marzo 1805 per avere sverginato una zitella, datile diversi colpi e ucciso il padre della suddetta. 


79 Filippo Mazzocchi

80 Giuseppe Guglia, «Impiccati e squartati» a Ponte li 10 giugno 1805, per grassatori. 


81 Sebastiano Spadoni, «impiccato» a Iesi li 4 settembre 1805, per avere ucciso il fratello carnale e gettato nel pozzo. 


82 Luigi Giovansanti, forzato, «impiccato» in Civitavecchia li 23 settembre 1805, per avere ucciso un forzato. 


83 Niccola Alicolis, «impiccato e squartato» alla Merluzza il primo ottobre 1805, per assassinj.

84 Santi Moretti, «impiccato e squartato» al Ponticello fuori di Porta San Paolo 1805 dall’aiutante, per grassazione. 


85 Gioacchino q.m Bernardino Rinaldi, «mazzolato e squartato» in Campo di Fiore li 9 ottobre 1805, per avere ucciso la moglie gravida di due figli ed il garzone. 


86 Paolo Salvati, «impiccato e squartato» in Macerata li 11 dicembre 1805, per avere grassato il corriere del Papa ed un forastiere.


87 Bernardo Fortuna, «impiccato e squartato» a Ponte Felice li 22 aprile 1806, per avere grassato il corriere di Francia. 


88 Pasquale Rastelli, «impiccato e squartato» in Amelia li 20 maggio 1806, per omicidio e grassazione. 


89 Tommaso Rotiliesi, «impiccato» a Ponte li 9 giugno 1806, per avere ferito leggermente un ufficiale francese. 


90 Bernardino Salvati, «impiccato» in Rieti li 12 luglio 1806, per avere ucciso un suo compare.


91 Giuseppe Pistillo detto Fatino, «impiccato e squartato» in Terracina li 13 agosto1806, per grassatore. 


92 Giuseppe Agnone, «impiccato e squartato» in Terracina li 13 agosto 1806, per grassazione.


93 Giuseppe Chiappa, «mazzolato e squartato» in Macerata li 25 settembre 1806, per sicario, cioè fu incombensato di uccidere il padre di un giovane per scudi 50 di premio ed il giovane fu condannato alla galera perpetua.


94 Gioacchino Cellini, «impiccato» in Frosinone li 27 gennaio 1807, per omicidj e grassazioni.


95 Tommaso Grassi, «impiccato» a Ponte li 15 aprile 1807, per avere ucciso il cognato, ed il suo compagno stette sotto le forche. 


96 Luigi Tomeucci, «impiccato» in Frosinone li 21 aprile 1807, per più omicidj. 


97 Cesare di Giulio

98 Bernardino Troiani, «Impiccati e squartati» in Campo Vaccino li 2 maggio 1807, per grassatori. 


99 Giuseppe Brunelli

100 Agostino Paoletti, «Impiccati» a Gubbio li 6 luglio 1807, per omicidio a caso pensato per gelosia di donna. 


101 Giuseppe Romiti, «impiccato» a Narni li 12 dicembre 1807, per omicidio barbaro. 


102 Angiolo Caratelli e il fratello 


103 Paolo Caratelli 


104 Antonio Scarinei

105 Rosa Ruggeri, «Impiccati» a Todi li 6 luglio 1808, perché la donna fece ammazzare il marito dai suddetti. 

Seguono le giustizie eseguite nel nuovo edilizio per il taglio della testa nel Governo Francese.



106 Tommaso Tintori, reo di omicidio, li 28 febbraio 1810.


107 Saverio Ricca «alias» Principe 


108 Giuseppe Loi rei di grassazione, li 5 marzo 1810. 


109 Giuseppe Giandomenico, reo di omicidio e grassazione li 12 marzo 1810. 


110 Anna Morotti vedova Renzi 


111 Vincenzo Gentili


112 Alessandro Valeri rei di omicidio, li 12 aprile 1810. 


113 Domenico Dichilo

114 Antonio Talucci rei di omicidj, li 2 aprile 1810. 


115 Raffaele Mori, per omicidio volontario, li 8 maggio 1810. 


116 Giovanni Scipioni, per omicidio, li 28 maggio 1810. 


117 Pasquale Masi, per grassazione, li 27 giugno 1810. 


118 Andrea Dagiuni, per omicidio, li 3 luglio 1810. 


119 Michele Filippi, per avere tentato la morte del zio, li 7 luglio 1810.


120 Niccola Quintarelli, per omicidio premeditato, li 30 luglio 1810. 


121 Lorenzo Bellucci


122 Francesco Teatini per omicidio e grassazioni, li 21 agosto1810. 


123 Domenico q.m Gaspero Germagnoli, per uccisione del padre ed una donna, li 10 settembre 1810. 


124 Evangelista Bufalieri, per omicidio, li 14 detto. 


125 Severio Iaunardi «alias» Sfacona, per omicidi premeditati e assassini, li 25 suddetto. 


126 Giovanni Cusciè, per omicidi premeditati, li 14 novembre 1810. 


127 Celio Lanciani, per omicidio premeditato, detto. 


128 Clemente D’Angelis, per omicidio premeditato con assassinio verso lo zio, li 19 novembre 1810. 


129 Camillo Cerini

130 Caterina Tranquilli omicidio e assassinio, li 26 suddetto. 


131 Antonio Grepi, per omicidi premeditati, li 9 febbraio 1811.


132 Giovanni Croce, per omicidio con assassinio, li 2 maggio 1811. 


133 Gaspero Bacciarelli, per assassinio, li 18 maggio 1811.


134 Domenico Brucchioni


135 Gradigliano Patricelli per assassinio, li 25 giugno 1811.


136 Bartolomeo Andreozzi, per assassinio, li 4 luglio 1811.


137 Gio. Domenico Pensierosi

138 Nicola Reali per assassinio, li 13 luglio 1811. 


139 Silverio Patrizi, per omicidio ed assassinio, li 22 detto. 


140 Prospero Montagna, per omicidio con premeditazione, li 6 novembre 1811. 


141 Luigi Matocci, per omicidio con premeditazione, li 31, dicembre 1811. 


142 Francesco del q.m Pietro Paolo Mattia, per assassinio, li 3 febbraio 1812. 


143 Domenico Cracciani, per omicidio con premeditazione, li 22 suddetto. 


144 Lorenzo Tiberi, per omicidio in persona del zio, eseguita la giustizia in Poggio S. Lorenzo li 18 marzo 1812. 


145 Giuseppe Trombetti, per omicidio premeditato, e 


146 Pasquale De Sartis, per assassinio, li 30 marzo 1812. 


147 Luigi Lombardi, per assassinio, li 2 ottobre 1812. 


148 Maria Antonia Tarducci, per infanticidio, li 10 novembre 1812. 
149 Emanuel Calvi, per omicidio ed assassinio, li 10 novembre 1812. 


150 David Troia

151 Domenica Senese per omicidio demandato, li 9 dicembre 1812.


152 Giuseppe Padovani, per assassinio con furto, li 12 dicembre 1812.


153 Benedetto Canale, per assassinio, e


154 Giuseppe Sprega, per omicidio con premeditazione, li 25 gennaio 1813. 


155 Pompeo Greco, per assassinio con premeditazione di omicidio, li 29 gennaio 1813. 


156 Germano Franchi, per tentativo d’uccisione con premeditazione; accaduta la esecuzione in Supino li 15 febbraio 1813.


157 Gio. Crisostomo Martini, per assassinio, li 2 aprile 1813. 
158 Angiolo Maria Parisella 


159 Antonio Gasparoni per assassinio con premeditazione, li 15 novembre 1813.


160 Francesco Grossi, per omicidio con premeditazione, li 24 novembre 1813. 


161 Luigi Bellaria, per omicidio con premeditazione, li 28 dicembre 1813. 

Governo Pontificio.



162 Gio. Antonio Antonelli 


163 Pietro Proietto, «Forca e squarto», per grassatori, li 22 ottobre 1814. 


164 Vincenzo Zaghetti, per omicidio con grassazione, «alla forca», e 


165 Sebastiano Tirelli, per grassazione, «forca e squarto», li 3 dicembre 1814. 


166 Francesco Quagliani

167 Mariano Bonotti

168 Gaetano Giordani 


169 Angiolo Pozzi Per grassatori, «forca e squarto», li 13 marzo 1815.


170 Antonio Cipriani, «mazzola e squarto», per omicidio e ladrocinio; eseguita la giustizia in Norcia li 14 agosto 1815. 


171 Francesco Perelli, per omicidio appensato, «alla forca», e


172 Carlo Castri, «forca e squarto» per grassazioni, li 17 febbraio 1816, al Popolo.


173 Domenico Posati, «forca» per omicidj con premeditazione, eseguita in Narni li 7 marzo 1816. 


174 Giuseppe Fiacchi, «forca» per omicidio premeditato in odio di Liti Civili in Spoleto, li 9 marzo 1816. 


175 Giuseppe Micozzi, per omicidio proditorio con ladrocinio, «mazzola e squarto» al Popolo, li 6 aprile 1816. 


176 Vincenzo Bellini

177 Pietro Celestini

178 Domenico Pascucci

179 Francesco Formichetti

180 Michele Galletti Rei di più grassazioni; eseguita in Roma li 18 maggio 1816, di «forca e squarto», al Popolo.


181 Gioacchino de Simoni, «mazzola e squarto» in Collevecchio li 27 maggio 1816, per omicidio barbaro in persona della moglie. 


182 Giuseppe Tomei, «forca» a Ponte, per omicidio con premeditazione, li 17 agosto 1816. 


183 Antonio Antoniani, «forca» a Ponte, per omicidio con premeditazione, li 7 settembre 1816. 


184 Tommaso Borzoni, «taglio della testa» al Popolo, per omicidi appesati e ladrocini, li 2 ottobre 1816. 


185 Pietro Spallotta

186 Benedetto Piccinini


187 Carlo Antonio Montagna, «Taglio della testa e squarto» al Popolo, per grassazione, li 10 ottobre 1816. 


188 Carlo Desideri

189 Luigi Brugiaferro

190 Giovanni Mora, «Forca e squarto» in Viterbo per grassazioni, li 16 ottobre 1816. 


191 Paolo Antonini

192 Francesco Di Pietro, «Taglio della testa» al Popolo, per grassazioni, li 14 dicembre 1816. 


193 Saverio Gattofoni, «taglio della testa» in Macerata, per avere ucciso sua moglie, li 20 gennaio 1817. 


194 Antonio Guazzini, «impiccato» in Firenze, per omicidio e grassazione, li 22 febbraio 1817. 


195 Gio. Francesco Trani 


196 Felice Rocchi

197 Felice De Simoni «Decapitati» al Popolo, per omicidi e grassazioni, li 19 maggio 1817. 


198 Agostino Del Vescovo, «decapitato» al Popolo, per omicidio e ladrocinio in persona di un prete, li 19 luglio 1817. 


199 Antonio Casagrande, «decapitato e squartato» in Gubbio, e la testa posta alla porta della città, per avere ucciso tre ragazzi, due maschi e una femmina, con ladrocinio, li 28 agosto 1817. 


200 Angiolo Conti, «decapitato» al Popolo, per omicidio in persona della moglie, li 9 settembre 1817. 


201 Alessandro Papini, «decapitato» al Popolo, per ladrocini e grassazione, li 30 settembre 1817. 


202 Domenico q.m. Giacomo Gigli, romano, «decapitato» al Popolo, per omicidio irragionevole, il primo dicembre 1817. 


203 (da ebreo) Angelo Camerino, (da cristiano) Giuseppe-Angiolo, «impiccato» in Ancona, per omicidio, li 13 gennaio 1818. 


204 Ambrogio Piscini, «decapitato» in Loreto, per omicidio e grassazione, li 14 gennaio 1818.


205 Antonio Galeotti, «decapitato» in Perugia, per omicidio proditorio e furto, li 23 febbraio 1818. 


206 Andrea Emili, «decapitato» al Popolo, li 13 aprile 1818, per avere ucciso il padre; la sua testa trasportata e messa sulla porta di Rocca Priora. 


207 Martino Sabatini

208 Andrea Ridolfi, «Forca e squarto» in Viterbo, li 22 aprile 1818, per più grassazioni, e trasportati detti quarti. 


209 Antonio Cicolono

210 Luigi Renzi, «Forca» in Rieti, per grassazione ed omicidio, li 21 novembre 1818. 


211 Angiolo Antonio Piccini, «forca» in Viterbo, li 12 dicembre 1818, per più delitti e grassazioni, e per il barbaro omicidio in Civitella in persona della signora Bonfiglioli, con derubamento in sua casa. 


212 Domenico Fontana, «decapitato» al Popolo, per più omicidj, li 10 marzo 1819. 


213 Andrea q.m Giuseppe Dolfi, romano, «decapitato» al Popolo, per omicidio irragionevole, essendo forzato al Colosseo, li 2 agosto 1819. 


214 Raffaele Vattani, romano, «decapitato» al Popolo, per veneficio in persona della moglie, li 15 settembre 1819. 


215 Pasquale q.m Vincenzo Ferrini, regnicolo, per grassazione, «decapitato» al Popolo, li 2 dicembre 1819. 
216 Elia Sauve, per ladrocinio, «decapitato» al Popolo, li 16 settembre 1820. 


217 Leonardo Narducci del fu Bartolommeo, d’Ischia, per omicidj e grassazioni, «appiccato e squartato» a Viterbo, li 26 ottobre 1820. 


218 Gio. Batta Clementi di Giuseppe, da Rotella nella delegazione d’Ascoli, «decapitato» al Popolo, per omicidio e ferite qualificate, li 27 gennaio 1821. 


219 Carmine q.m Pietro Scaccia di Torrici, diocesi di Frosinone, di anni 23, reo di più grassazioni, «decapitato» al Popolo, li 7 aprlie 1821. 


220 Giuseppe Morioni e 


221 Benedetto De Carolis, «Decapitati» al Popolo, per grassazioni, li 7 giugno 1821. 


222 Carlo Samuelli e 


223 Salvatore Torricelli, di Tivoli, «Decapitati» al Popolo, per grassazioni, li 14 giugno 1821.


224 Francesco Monti


225 Domenico Taschini

226 Luigi Onelli, «Decapitati» al Popolo, per grassazioni, li 28 luglio 1821. 


227 Vincenzo Zaccarelli

228 Vincenzo Moretti «Decapitati» a Ponte S. Angelo, per omicidj irragionevoli, li 6 agosto 1821. 


229 Francesco q.m Niccola Ferri, «fucilato» alla Bocca della Verità li 23 marzo 1822, e la sua testa portata a Collepiccolo, distante miglia 46 da Roma.


230 Giuseppe Bartolini, «decapitato» in Viterbo, per più grassazioni ed omicidi barbari, li 30 aprile 1822. 


231 Angiolo Antonio fu Giuseppe Monterubianesi

232 Pietro Antonio fu Giovanni Profeta 


233 Angiolo fu Giorgio Mannelli, «Decapitati» a Ponte Sant’Angelo, per grassazioni, li 8 giugno 1822.


234 Domenico Piciconi di Caprarola, reo di omicidio, assassinio ed altro, «decapitato» in Viterbo, li 24 maggio 1823. 


235 Giovanni Binzaglia, «decapitato» in Perugia, li 13 agosto 1823, reo di omicidio in persona di una ragazza di anni 16. 


236 Francesco Venturi in Castel Raimondo, per grassazioni ed altri delitti, li 18 dicembre 1823.


237 Antonio Capriotti, «decapitato» in Fermo, per omicidio volontario e grassazioni, li 10 luglio 1824.


238 Niccola Sebastianelli, «decapitato» alla Bocca della Verità, per grassazioni a mano armata, li 15 luglio 1824. 


239 Domenico Maggi

240 Girolamo Candelori, «Decapitati» alla Bocca della Verità per grassazioni e latrocinio, li 24 luglio 1824. 


241 Pasquale Ciavarra, «decapitato» in Frascati, per omicidio e grassazioni, li 6 ottobre 1824. 


242 Giuseppe Panecascio, «decapitato» in Frascati, per omicidio e grassazioni, li 6 ottobre 1824. 


243 Michele Farelli


244 Camillo Pistoia,«Forca» in Pisterzo per aderenza all’assassini briganti, li 26 ottobre 1824.


245 Tommaso Transerini, «forca» in Propeli, per aderenza agli assassini briganti, li 27 detto. 


246 Marco Quattrociocchi, «forca» a S. Francesco, per i suddetti motivi, li 17 novembre suddetto.


247 Giuseppe Sebastianelli, «forca» a Vallecorsa, per aderenza agli assassini briganti, li 20 novembre 1824. 


248 Francesco Cerquozzi, «forca» a S. Lorenzo, come sopra, li 22 novembre 1824. 


249 Giovanni Pietrantoni 


250 Biagio Cloggi 


251 Vincenzo Bovi, «Forca» in Giuliano come sopra, il primo dicembre 1824. 


252 Cesare Menta, «forca» a Supino, come sopra, li 2 dicembre 1824.


253 Giovanni Montini, «forca» a Pratica, come sopra, li 19 gennaio 1825.


254 Domenico Avoletti, «forca» in Frosinone, per omicidi con premeditazione, li 14 aprile 1825. 


255 Lorenzo Maniconi, «forca» in Supino, per assassino brigante, li 18 aprile 1825.


256 Giovanni Gasbarroni,

257 Angiolo Gasbarroni, «Forca» in Supino, per aderenza agli assassini briganti; li 18 suddetto.


258 Casimirro Rainoni, «decapitato» in Ancona, per omicidio irragionevole, li 19 luglio 1825. 


259 Leonida Montanari


260 Angiolo Targhini, «Decapitati» al Popolo li 23 novembre 1825, rei di lesa maestà e per ferite con pericolo. 


261 Giuseppe q.m Vincenzo Franconi, «mazzolato» al Popolo li 24 gennaio 1826, reo di omicidio e ladrocinio in persona di un prelato. 


262 Luigi Ponetti, «decapitato» al Popolo, il primo marzo 1826, per omicidio con qualità gravanti. 


263 Pietro Antonio q.m Felice Tanucelli, «decapitato» al Popolo, li 15 marzo 1826, per omicidio irragionevole. 


264 Lorenzo Raspante, «decapitato» in Viterbo, li 6 maggio 1826, per omicidio barbaro e qualità gravanti. 


265 Giuseppe q.m Biagio Macchia, macellaro reo di omicidio in persona della moglie, «decapitato» li 16 settembre 1826. 


266 Luigi Zanoli 


267 Angiolo Ortolani 


268 Gaetano Montanari

269 Gaetano Rambelli 
Per omicidj ed attentato di omicidio verso dell’E.mo Rivarola, «forca» in Ravenna li 13 maggio 1828.


270 Abramo Isacco Forti, detto Marchino — ed avvelenamento. (sic) 


271 Luigi Borgia del fu Camillo da Montoro Romano, per omicidio qualificato e resistenza alla forza con ferite con qualche pericolo, «decapitato» alla Bocca della Verità li 17 gennaio 1829.


272 Filippo di Pietro Cavaterra, «decapitato» in Genzano li 13 luglio 1829, per avere ucciso il zio. 


273 Antonio Vichi, «decapitato» in Ancona li 5 gennaio 1830, per avere ucciso due creature con assassinio. 


274 Angiolo Pasquali e


275 Giuliano, fratello di S. Benedetto, diocesi di Rieti, rei di barbaro omicidio premeditato in odio di lite civile «decapitati» in Rieti li 30 gennaio 1830. 


276 Domenico Valeri, «decapitato» in Tolentino, per avere ucciso la moglie, li 15 febbraio 1830. 


277 Luigi De Simoni, per grassazioni e più delinquenze, «decapitato» in Albano, li 22 maggio 1830. 


278 Vincenzo Bagliega di Chiaravalle, per grassazioni, «decapitato» in Ancona li 12 giugno 1830.


279 Giacomo Martucci, reo di barbaro omicidio, «decapitato» a Codescipoli, li 28 luglio 1830.


280 Francesco di Tommaso Battistini, romano, «decapitato» alla piazza di Ponte S. Angelo, per omicidio qualificato con vendetta traversale, li 18 agosto 1830.


281 Felice di Francesco Teatini di Frascati, «decapitato» a Ponte S. Angelo, per omicidio irragionevole, li 11 settembre 1830. 


282 Mattia Marinelli 


283 Giovanni Canulli rei di più grassazioni, «decapitati» li 25 settembre 1830 sulla Piazza di Ponte S. Angiolo. 


284 Antonio Ascolani, reo di omicidio nella persona del zio, «decapitato» in S. Benedetto, diocesi di Fermo, li 23 ottobre 1830. 


285 Massimo Testa del Serrone, reo di barbaro omicidio, «decapitato» in Paliano, li 12 luglio 1831. 


286 Prospero Ciolli di Francesco da Olevano, per prodizione e ladrocinio, «decapitato» a Ponte S. Angelo, li 22 settembre 1832.


287 Francesco Pazzaglia di Colmurano di Tolentino, delegazione di Macerata, «decapitato» in Via de’ Cerchi, li 4 febbraio 1833. 


288 Antonio Majani della Granciolla

289 Francesco Massarini di Falconara «Decapitati» in Falconara, diocesi di Ancona per rapina notturna ed assassinio, li 30 marzo 1833. 


290 Luigi Gambaccini d’Arcevia, «decapitato» in Ancona, per grassazione con omicidio, li 7 maggio 1833. 


291 Giuseppe Balzani della Mendola, delegazione di Rimini, reo di lesa maestà, e 


292 Giovanni Antonelli romano, carrettiere, per aver ucciso la moglie, «decapitati» ambedue in Via de’ Cerchi, li 14 maggio 1833.


293 Antonio Urbinati di Paterno, per omicidio premeditato, «decapitato» in Ancona, li 19 giugno 1833. 


294 Benedetto Mazio del fu Giuseppe, romano, per omicidj turpi con premeditazione, «decapitato» a Ponte S. Angelo, li 13 luglio 1833. 


295 Luigi Cesaroni di Monte Giuducci, legazione di Urbino e Pesaro, «decapitato» in Urbino, per omicidio qualificato in persona di Luigi Costantini, li 22 febbraio 1834. 


296 Filippo Risi di Albano, reo convinto d’omicidio in causa turpe, «decapitato» in Albano, li 14 giugno 1834. 


297 Tommaso Centra di Rocca Gorga, per omicidio nella darsena di Civitavecchia in persona del cuoco dell’ospedale, «decapitato» in darsena, li 18 giugno 1834. 


298 Mariano Caroli di S. Alberto di Ravenna, e 


299 Stefano Montanari da Cesena, rei ambedue di omicidio nella darsena di Civitavecchia in persona del capo infermiere, «decapitati» in detta darsena come sopra. 


300 Giovanni Amicozzi di Monteleone, reo di omicidio con premeditazione, «decapitato» in Rieti, li 30 giugno 1834. 


301 Michele Bianchi di Osimo, reo di uccisione della moglie, «decapitato» in Osimo, li 19 agosto 1834. 


302 Domenico Egidi, detto Nino, d’Ancona, per omicidio deliberato, «decapitato» in Ancona, li 11 febbraio 1835. 


303 Francesco Lucarini «alias» Botticelli, per omicidio barbaro, «decapitato» in S. Stefano, provincia di Frosinone, li 24 marzo 1835. 


304 Giovanni Orioli di Lugo, «decapitato» in Roma, li 11 luglio 1835 a Ponte S. Angelo. 
305 Francesco Grossi di S. Severino, «decapitato» in detto, per parricidio, li 17 ottobre 1835.


306 Antonio Rongelli di Belvedere, per omicidio deliberato, «decapitato» in Ancona, li 20 febbraio 1836. 


307 Antonio Sordini di Spoleto, per omicidio deliberato, «decapitato» in Spoleto, li 26 marzo 1836. 


308 Antonio Pianesi di Monte Casciano, per più omicidj, «decapitato» in Macerata, li 27 ottobre 1836. 


309 Luigi Galassi di Pofi, per omicidio e grassazione, «decapitato» in Civitavecchia, li 21 dicembre 1837. 


310 Paolo Ceccarelli di Poggio Nativo, per omicidio premeditato, «decapitato» in Rieti, li 3 gennaio 1838. 


311 Geltrude Pellegrini di Monteguidone, per parricidio in persona del proprio marito, «decapitata» in Via dei Cerchi, li 9 gennaio 1838. 


312 Giuseppe Venturini di Albano per omicidio con prevenzione e pensamento, «decapitato» in Via de’ Cerchi, li 25 gennaio 1838.


313 Giuseppe Conti di Mangiano

314 Santi Moretti di Castello per omicidio premeditato per gelosia di donne, «decollati» in Perugia, li 10 febbraio 1838.


315 Domenico Bombardieri di Filettino, per omicidio in persona della madre, «decapitato» in Frosinone, li 8 marzo 1838.


316 Ilario Ilari di Stefano; di Corneto 


317 Pietro Paolo Panci di Domenico Antonio; di Corneto 
318 Domenico Caratelli 


319 Giuseppe Bianchi di Viterbo, per grassatori «decapitati» in Viterbo, li 17 aprile 1838. 


320 Antonio Piero da Jesi, per omicidio barbaro, «decapitato» in Jesi li, 26 aprile 1838. 


321 Luigi Martelli 


322 Niccola Guadagnoli Di Manno, «decapitati» in Manno, li 24 luglio 1838, per omicidio e grassazione 


323 Luigi Perugini del fu Vincenzo, di Montolono, «decapitato» alla Madonna de’ Cerchi, li 4 settembre 1838, per ladrocinio. 


324 Domenico Antonio Bellini di S. Angelo in Capoccia, «decapitato» in Tivoli, li 27 settembre 1838, per barbaro omicidio qualificato. 


325 Dionisio Prudenzi di Camerino «decapitato» in detto, li 27 ottobre 1838 per ussoricidio in persona della moglie (sic.). 


326 Francesco Ferretti di Anagni reo di omicidio premeditato, «decapitato» in Anagni, li 3 luglio 1839. 


327 Pietro Pieroni, per omicidio e ladrocinio, «decapitato» a Ponte S. Angelo, li 15 ottobre 1839. 


328 Luigi Quattrociocchi, reo di omicidio con animo deliberato, «decapitato» in Veroli, li 5 novembre 1839. 


329 Girolamo Mazza del fu Lorenzo di S. Marino, per parricidio in persona di Antonio Celli come demandato, «decapitato» in Via de’ Cocchi, (Cerchi?) dell’età di anni 29, li 19 febbraio 1840. 


330 Anna Tomasi-Celli, «decapitata» nello stesso giorno e luogo, dell’età di anni 40. 


331 Pietro Bidei, per omicidio e grassazione, «decapitato» a Civitacastellana, li primo aprile 1840. 


332 Mariano Laura romano di anni 30 per omicidio deliberato, «decapitato» in Via de Cerchi, li 13 maggio 1840. 


333 Luigi Scopigno di Rieti, «decapitato» a Ponte S. Angelo, li 21 luglio 1840, per furto sacrilego della sacrosanta pisside con la dispersione delle sacrosante particole. 


334 Bernardo Coticone, reo di omicidio, di Rosano, con premeditazione, in Tivoli, li 28 luglio 1840. 


335 Tommaso Brunori di S. Giovanni Rietino 


336 Pasquale Priori di Segni Per omicidj nel Bagno di Spoleto, ambedue «decapitati», li 6 agosto 1840 nella Rocca di Spoleto.


337 Angelo Crivelli «alias» Epifani di Terni, per vari omicidj in persona del diacono Valentino bevilacqua, e chierico Basilio Luciani, ed secolare Raimondo Trippa, «decapitato», li 8 agosto 1840 in Terni. 


338 Pacifico Maccioni di Cingoli di anni 26, e 


339 Filippo Duranti di Golignano, Delegazione di Ancona, di anni 25, ambedue rei di grassazione, ed omicidio in persona d’uno Svizzero fuor di Porta S. Pancrazio, «decapitati» a Ponte, li 22 agosto 1840. 


340 Baldassarre Fortunati di Torri in Salina e 


341 Vincenzo Stefanini di Torri in Salina, di anni 29, ambedue rei di omicidio con animo di rubare, «decapitati» in Rieti alla Piazza del Mercato, li 21 settembre 1840.


342 Angelo De Angelis

343 Antonio De Angelis: fratelli,


344 Giuseppe De Benedetti, tutti e tre «decapitati» in Tivoli per omicidio e grassazione, li 13 gennaio 1841.


345 Vincenzo Morbiducci di Albacina, «decapitato» in Macerata il primo marzo 1841 per omicidio premeditato nella sua età di anni 61.


346 Pacifico Lezzerini di Cingoli, per omicidio premeditato e grassazione, «decapitato», li 4 marzo 1841 in Cingoli nella sua età di anni 25. 


347 Damiano Marconi, figlio di Nicola, di anni 29, di Capranica;


348 Antonio Demassini, del fu Pietro, della Fratta, di anni 35; 


349 Angelo Casini, d’Eugenio, di Carbognano, di anni 25; tutti e tre in causa di omicidio nella Galera di Civitavecchia, in cui erano forzati, in persona dell’infermiere, condannati alla «decapitazione» in Civitavecchia nella Darsena, li 27 marzo 1841.


350 Pasquale Carbone, del fu Saverio, d’anni 40, di Cresciano nell’Abruzzo, Regno di Napoli, per omicidio in persona di un forzato per nome De Angelis nella Darsena di Civitavecchia, «decapitato», li 27 marzo 1841: e morto impenitente. 


351 Lorenzo Jannesi di Arnara, «decapitato», li 22 maggio 1841 in patria per omicidio premeditato.


352 Tommaso Olivieri, romano di anni 24: per omicidio premeditato, «decapitato» in Roma in via de’ Cerchi e morto impenitente, li 3 giugno 1841.


353 Luigi Lodi di anni 30, per omicidio premeditato; li 8 giugno 1841 in Civitavecchia nella Darsena. 


354 Luigi Galletti, di anni 28, idem. 


355 Pietro Firmanti, anni 27, idem. 


356 Vincenzo Orlandi di Collevecchio, anni 47, per omicidio, ed altri delitti.


357 Pietro Antonio Amici di Colle Giove, di anni 33 circa, per delitti, cioè ferite ed omicidio, e


358 Michele Spoliti di Colle Giove, di anni 38, per omicidio di piena deliberazione, li 19 giugno 1841. In Rieti, ambedue «decapitati» per una stessa causa. 


359 Bernardino Carosi del fu Vincenzo, detto Scelletta, di anni 48: coniugato campagnolo e segatore di legname, di Borbone, provincia dell’Aquila; 


360 Michelina Cimini del fu Antonio, moglie di Giuseppe Carosi, di anni 35, filatrice di Cagnano del Regno sud; 


361 Domenico Recchiuti di Nicola, detto Saponaro, celibe di Lama, Provincia di Chieti, di arte Cardalana, tutti e tre rei di latrocinio ed omicidio premeditato in persona di Caterina Iachizzi moglie di Francesco orologiaro agli Uffizi del Vicario e dal Carosi strozzata, ed incinta di sei mesi, ciò accaduto li 28 giugno 1840; «decapitati» sulla piazza di Ponte S. Angelo li 20 luglio 1841. — Gran tumulto popolare e feriti per cagione di alcuni ladri e borsaroli, ma essi morirono rassegnatissimi.


362 Pietro Tagliacozzo di Olevano, reo di aver uccisa la propria genitrice condannato al «taglio della testa», il giorno 19 gennaio 1842 in via de’ Cerchi;


363 Bernardino Mirabelli della Provincia dell’Aquila, reo di parricidio in persona del molinaro di Decima, ambedue di anni quaranta, condannato «al taglio della testa» e successiva esposizione in via de’ Cerchi, li 19 gennaio 1842.


364 Domenico Fiori del fu Giuseppe, da Sirolo, di anni 30, reo di omicidio, condannato li 11 luglio 1842 al «taglio della testa» ad ore 12. 


365 un carabiniere per averli domandato il suo nome. 


366 Gaspare Pierini di Città di Castello, di anni 23, reo di omicidio e sgrasso, «decapitato» il dì 15 ottobre 1842. 


367 Luigi Serenga di anni 24, di Fermo, reo per aver ucciso un prete, «decapitato» infermo, li 24 detto mese ed anno. 


368 Giuseppe Ricci di Caprarola di anni 24, reo di omicidio deliberato, «decapitato» in Ronciglione li 24 gennaio 1843. 


369 Pasquale Boccolini di anni 34, di Loreto, per omicidio premeditato, «decapitato» in Macerata il primo giugno 1843. 


370 Gaetano De Angelis 


371 Luigi De Angelis di Velletri rei di omicidio r grassazione, «decapitati» in Velletri li 12 settembre 1843.


372 Domenico Marcelli di Tivoli di anni 21, per latrocinio, «giustiziato» li 30 settembre 1843 sulla piazza della Madonna de’ Cerchi. 


373 Vincenzo Moresi, romano di anni 22, latrocinio, «giustiziato» come sopra. 


374 Giuseppe Salvatori di Saracinesco, governo di Tivoli, per omicidio proditorio, «giustiziato» li 30 settembre 1843 come sopra. 


375 Domenico Abbo, «condannato al taglio della testa» il giorno 4 ottobre 1843 ne’ Forte di S. Angelo per avere strangolato e sodomizzato il suo nipote carnale con altre brutalità che fanno inorridire.


376 Pietro Rossi, romano di anni 24, pescivendolo per rapine notturne, e ferite di qualche pericolo, in unione di 


377 Luigi Muzi, romano di anni 23, calzolaro, del medesimo delitto, condannati alla «morte» in via de’ Cerchi il giorno 9 gennaio 1844. 


378 Angelo Cece 


379 Antonio Tintisona il primo di anni 21, ed il secondo 25, da Monte Fortino, «decapitati» in Velletri il giorno primo giugno 1844, per grassazione, e ferite, con qualche pericolo.


380 Gio. Battista Rossi di Francesco, di S. Vito, di anni 22 campagnolo, reo di latrocinio, «condannato alla morte esemplare» il giorno 3 agosto 1844. 


381 Bartolomeo di Pietro di anni 28, nativo di Roccantica, e


382 Giovanni Girardi di anni 25, nativo come sopra, rei di omicidio in persona di un Frate Minore Osservante in Roccantica «condannati al taglio della testa» il giorno 16 ottobre 1844 in Poggio Mirteto.


383 Angelo Cesarini di Canistro nel Regno di Napoli, di anni 26, reo di omicidio e grassazione in persona del suo fratello cugino, «decapitato» in Paliano li 21 dicembre 1844. 


384 Giovanni Vagnarelli del fu Agostino da Gubbio, di anni 26, coniugato, campagnolo, per grassazione, ed omicidio in persona di Anna Cotten Bavarese, condannato «al taglio della testa» li 8 marzo 1845 in via de’ Cerchi. 


385 Raffaele Gammardella di Ancona forzato, reo di omicidio deliberato, «giustiziato» in Spoleto li 2 aprile 1845.


386 Giuseppe Micozzi

387 Antonio Raffaelli maceratesi, rei ambedue di omicidio e sgrasso in persona di uno spazzino, «decapitati» in Macerata li 7 aprile 1845.


388 Pietro Bartolini di Ancona, reo di omicidio con animo deliberato contro Berneimer Israelita svizzero, «decapitato» il giorno 10 aprile 1845. 


389 Luigi Percossi, romano, reo di omicidio con animo deliberato in persona di Angelo Bruschi Guardiano, perché il Percossi era forzato; «decapitato» in Roma in via de’ Cerchi li 19 aprile 1845 a ore 15. 


390 Francesco Antonio Bassani da Monte Compatri di anni 23. Reo di omicidio deliberato in persona di altro forzato nella Rocca di Spoleto, ivi «giustiziato» li 3 luglio 1845, e tale omicidio mentre si faceva la comunione nel bagno. 


391 Niccola Trombetta di Patrica nel Lazio, di anni 69, reo di omicidio con animo deliberato in persona del caffettiere di Maenza con furto qualificato; «condannato alla morte» il giorno 12 agosto 1845 in Maenza suddetta. 


392 Vincenzo Mariani di Macerata, di anni 26, reo di omicidio deliberato, di professione calzolaro, condannato al «taglio della testa» in via de’ Cerchi il giorno 30 agosto 1845. 


393 Giuseppe Dragoni di S. Anatolia, Delegazione di Macerata, «decapitato» in Spoleto li 23 ottobre 1845 per omicidio con animo deliberato in persona del Custode della Rocca di Spoleto. 


394 Niccola Ciarrocca di Massignano, di anni 27, reo di omicidio deliberato in persona di una zitella da lui incinta prima di matrimonio, «decapitato» in Massignano sud, li 30 ottobre 1845. 


395 Francesco Meloni del fu Pietro, nativo della Scarpa, di anni 34, capraro, reo di omicidio in persona di Maria Lori sua moglie, avendola strangolata; «condannato alla morte esemplare» li 15 gennaio 1846 ai Cerchi. 


396 Fedele Moretta e il suo fratello 


397 Benedetto Moretta, per grassazioni ed omicidj fatti, ed altre infamità «decapitati» li 4 marzo 1846 in Frosinone. 


398 Francesco Sciarra del fu Francesco, nativo di Ienna diocesi di Subiaco, di anni 24, reo di grassazione ed omicidio; «decapitato» in via de’ Cerchi il giorno 21 marzo 1846. 


399 Michele Pezzana detto Mechelone, di Poggio Renatico, reo di omicidio premeditato, forzato della Rocca di Spoleto, ivi «decapitato» li 26 novembre 1846.


400 Angelo Pecorari, di Poli, di anni 29. Contadino reo di omicidio premeditato in persona di una donna, condannato alla «morte di esemplarità» in Poli li 21 gennaio 1847. 


401 Francesco Pesaresi di Osimo, di anni 30, reo per un omicidio fatto in Ancona nel Bagno in persona di un forzato; condannato al «taglio della testa» li 24 aprile 1847 in Ancona. 


402 Giovanni Ciampicolo


403 Giuseppe Galli 


404 Francesco Pasquali

405 Mauro Franceschelli forzati, per tre omicidj fatti nel Bagno, «condannati a morte» il 1° luglio 1847, morti impenitenti in Spoleto. 


406 Romolo Salvatori di Cisterna, di anni 40, per aver fatto fucilare dai Garibaldini, in tempo di Repubblica, l’Arciprete di Giulianello in Anagni; «decapitato» in quella città li 10 settembre 1851.


407 Gaetano Pettinelli del fu Giovanni, di Monteleone di Fermo, di anni 34, muratore, per omicidj per spirito di parte; «decapitato» in via de’ Cerchi li 27 settembre 1851.


408 Bonaventura Stefanini


409 Benvenuto Cavalieri

410 Pietro Ventroni tutti e tre «decapitati» sulla piazza di Fabriano li 15 novembre 1851 per tentato omicidio con premeditazione, in persona di un Sacerdote.


411 Pietro Giammaiere detto Casciotta, di Terni domiciliato in S. Gemini distretto di Terni delegazione di Spoleto, «decapitato» li 25 settembre 1852 per omicidio e grassazione in piazza di Spoleto. 


412 Sabbatino Proietti di circa anni 25, «decollato» in Rieti per ladrocinio e grassazione li 20 agosto 1853, morto convertito, ed è stata eseguita la giustizia sulla piazza del Ponte.


413 Giacomo Biacetti del fu Carlo, romano, di anni 26, gramiciaro; 


414 Andrea Severi figlio del vivente Antonio, romano, di anni 28, vaccinaro; rei ambedue di grassazioni e furti qualificati ed omicidio, «decapitati» ai Cerchi li 10 settembre 1853. 


415 Vincenzo Iancoli di Ronciglione, reo di grassazione ed omicidio; 


416 Francesco Valentini di Letera; 


417 Francesca Levante vedova Ferruccini, per omicidio: tutti e tre «decapitati» a Viterbo li 8 ottobre 1853. 


418 Francesco Leandri di Marino, condannato a «morte» per omicidio per omicidio premeditato li 12 ottobre 1853.


419 Gustavo Paolo Epaminonda Rambelli del fu Gustavo, di Ravenna, ex finanziere, di anni 28;


420 Gustavo Marioni di Giuseppe, d’anni 29, di Forlì, ex finanziere;


421 Ignazio Mancini di anni 30, di Ascoli, ex finanziere; tutti e tre per omicidj commessi il primo il 30 aprile 1849, in persona del Padre Aquila Domenicano, Parroco alla Croce di Monte Mario; il secondo del Padre Pellicciaio Domenicano, Parrocco della Minerva, li 2 maggio a S. Calisto, per ordine del crudelissimo Zambianchí Capitano de’ Finanzieri, ed altri Sacerdoti uccisero; «condannati al taglio della testa» li 24 gennaio 1854, a Cerchi e morti impenitenti recando scandalo con bestemmie continuate. 


422 Sante Costantini da Fuligno, scapolo, di anni 24, complice nell’assassinio del Commendatore Conte Pellegrino Rossi; condannato il di 15 novembre 1848 al «taglio della testa» in via de’ Cerchi li 22 luglio 1854 alle ore 6 e un quarto. 


423 Pietro Chiappa

424 Landerio Civitella

425 Paolo Dolci


426 Filippo Dolci il primo di anni 22, il secondo di anni 30, il terzo di anni 26, ed il quarto di anni 24, tutti Velletrani e rei di grassazioni ed omicidj, condannati al «taglio della testa», giustizia eseguita li 9 agosto 1854 alla Piazza di S. Carlo in Velletri. 


427 Angelo Racchetti di Gradoli, per omicidio premeditato, «decapitato» nella città di Valentano li 30 settembre 1854. 


428 Giovanni Sabbatini marcheggiano, per omicidio e tentata grassazione «decapitato» in Frascati li 15 novembre 1854. 


429 Giovacchino Leoni di Caprarola, per omicidio ed incendio alla persona dell’ucciso; «decapitato» in Ronciglione li 28 novembre 1854.


430 Pietro Muzi di Trevisano per aver grassato ed ucciso il proprio compare, «decapitato» nella Città d’Acqua Pendente li 16 gennaio 1855, morì impenitente.


431 Giuseppe De Cesaris di Monte Leone di Cascia condannato per grassazione ed omicidio al «taglio della testa» li 6 febbraio 1855 in via de’ Cerchi. 


432 Luigi Scipioni di Petescia, di anni 28, «decapitato» in Rieti li 10 febbraio 1855 per omicidio premeditato. 


433 Domenico Scappoti di Sismano, di anni 46, per omicidio con animo premeditato, condannato all’ultimo «supplizio» li 15 marzo 1855 in Città di Terni. 


434 Bernardino Valeriani del fu Giuseppe da Palombara, di anni 28, bifolco, per omicidio premeditato «decapitato» in via de’ Cerchi li 2 maggio 1855. 


435 Filippo Troncarelli di Ronciglione, avendo ucciso il suo fratello di anni 29, condannato alla «decapitazione» in Ronciglione li 23 giugno 1855.


436 Crispino Bonifazi di Viterbo, per matricidio fatto in Viterbo condannato all’ultimo «supplizio» li 25 giugno 1855.


437 Francesco Bertarelli di Viterbo, per titolo di grassazione condannato all’ultimo «supplizio» li 25 suddetto. 


438 Antonio Moschini dei casali di Viterbo, reo di grassazione condannato all’ultimo «supplizio» li 25 giugno 1855. 


439 Giovanni Cruciani di Rieti, per titolo di grassazione condannato al «taglio della testa» in Viterbo li 25 giugno 1855. 


440 Paolo Moretti di Monte Fiascone, «decapitato» li 26 giugno 1855, per aver ucciso il suo avversario e quindi la sua sorella carnale, morì alle ore 12. 


441 Pietro Antonio Barbero di Grotta di Castro, reo di grassazione, condannato all’ultimo «supplizio» li 27 giugno 1855.


442 Arberto Cicoria di Città di Castello, per ladrocinio e omicidio condannato all’ultimo «supplizio» li 26 giugno 1855.


443 Giosuè Mattioli di Viterbo, per grassazioni condannato all’ultimo «supplizio» in Viterbo.


444 Neri Domenico Vetrella, reo di grassazione; condannato all’ultimo «supplizio» li 30 giugno 1855. 


445 Benedetto Ferri di Casali di Viterbo, reo di grassazione condannato a «morte» a Viterbo li 30 giugno 1855. 


446 Salvatore Tarnalli di Casali di Viterbo, reo di grassazione condannato alla «morte» in Viterbo li 30 giugno 1855. 


447 Antonio del fu Ferdinando De Felici, romano, di anni 35, di professione cappellaro, per attentato commesso in persona dell’Emo. Cardinale Antonelli segretario di Stato,condannato a «morte» li 11 luglio 1855 in via de’ Cerchi.


448 Pietro Ciprini di Viterbo, di anni 19, per grassazione condannato a «morte» in Monte Rosi li 7 agosto 1855.


449 Giacomo Salvatori di Valle Pietra, diocesi di Subiaco, per omicidio, condannato alla «morte» esemplare li 17 agosto 1855 in Subiaco.


450 Luigi Sarra nativo di S. Angelo, di anni 29, e


451 Nicola Arrigoli nativo di Treia, di anni 22, «decapitati» in Civitavecchia li 13 ottobre 1855. 


452 Alessandro Guenzi di Sinigaglia, di anni 31, per omicidio; eseguita la giustizia in Toscanella li 15 ottobre 1855.


453 Germano Proietti reo fu «decapitato» in Civita Castellana li 18 ottobre 1855. 


454 Arcangelo Finestraro da S. Buceto, per aver ucciso la propria moglie, «decapitato» in Amelia li 20 ottobre 1855. 


455 Pietro Pace


456 Giuseppe Partenzi

457 Martino Rossi Rei di omicidio di una giovane, «decapitati» in Spoleto li 23 ottobre 1855.


458 Maria Rossetti

459 Serafino Benfatti Rei di omicidio in persona della propria moglie, «decapitati» in Perugia li… 1855.


460 Giovanni Di Giuseppe di Faenza, di anni 36, reo per aver ucciso un ispettore di polizia,«decapitato» li 29 ottobre 1855.


461 Raimondo Bregna, Spagnolo, per omicidio premeditato fatto in Campagnano, «decapitato» li 6 novembre 1855. 


462 Cesare Barzetto, romano, di anni 30, e


463 Giacomo del fu Francesco Mercatelli, romano, di anni 30, per aver ucciso il custode delle carceri di Termini, «decapitati» in Roma li 9 gennaio 1856, impenitenti.


464 Lorenzo Mariani di Terni, per omicidio insidioso, morto in Terni li 5 aprile 1856. 
465 Giuseppe Conti di Terni, per omicidio insidioso, morto in Terni impenitente il giorno sudetto.


466 Filippo Lucchetti della Piaggia, eseguita la giustizia in Trevi il giorno 7 aprile 1856 per omicidio premeditato.


467 Odoardo Baldassarri di Ancona, per omicidio impremeditato in persona di Francesco Cinti; eseguita la giustizia in Trevi li 14 aprile 1856. 


468 Giuseppe Grilli di Albano, di anni 26, per omicidio e grassazione condannato al «taglio della testa» in Albano li 26 aprile 1856.


469 Antonio de Marzi di Albano, di anni 55, per grassazione ed omicidio condannato all’«ultimo supplizio» in Albano il giorno sudetto. 


470 Pio Capolei di Marino di anni 22, per omicidio premeditato in persona del Brigattiere Maccaroni di detta Città, «decapitato» in Marino il giorno 8 maggio 1856. 


471 Giuseppe Terenziani detto Fritella di anni 59, di Todi, per aver ucciso la propria madre condannato alla «decapitazione» in Todi li 18 giugno 1856.


472 Antonio Caprara detto Ciovettolo, romano di anni 27, facocchio, per omicidio premeditato condannato al «taglio della testa» li 6 settembre 1856. 


473 Bartolomeo Oli di Lobo delegazione di Macerata, di anni 36, campagnolo, per omicidio e grassazione «decapitato» in via de’ Cerchi il giorno sudetto. 


474 Nemesio Pelonzi di Palombara, di anni 30, per omicidio premeditato in persona dello speziale di Palombara «decapitato» in Palombara li 13 dicembre 1856. 


475 Francesco Roschini di Marcellina, di anni 27, per omicidio premeditato «decapitato» in Palombara il giorno sudetto. 


476 Nicola De Bonis di Marcellina, di anni 27, per omicidio premeditato «decapitato» come sopra il giorno sudetto. 


477 Antonio De Angelis di Marcellina, di anni 27, per omicidio premeditato «decapitato» come sopra il giorno sudetto. 


478 Achille Malaccari di Ancona di anni 30 per aver ucciso il proprio padre «decapitato» in Ancona li 26 gennaio 1857. 


479 Domenico Carloni di S. Valentino diocesi di Perugia, di anni 40, per omicidio e grassazione «decapitato» in Perugia li 7 marzo 1857.


480 Anacleto Marchetti di Giulianello di anni 35, per omicidio di un uomo ed una donna e poi per aver incendiato una casola di grano «decapitato» in Monte Fortino li 5 maggio 1857. 


481 Domenico Capolei del fu Ottavio, di Marino per aver ucciso il Governatore di Marino, Luigi Giuliani, «decapitato» in Marino li 2 maggio 1857. 


482 Francesco Elisei di Velletri, di anni 23 per omicidio volontario «decapitato» in Civita Castellana li 22 dicembre 1857. 


483 Serafino Ciucci di Subiaco, di anni 34, reo di omicidio con animo deliberato di rubare ed altri delitti, «decapitato» in Subiaco li 23 gennaio 1858.


484 Davidde Foschetti di Bassanello, di anni 32, per omicidio di una donna «decapitato» in Orfe li 16 marzo 1858. 


485 Giuseppe Berfarelli di Viterbo, di anni 22, «decapitato» in Viterbo li 23 giugno 1858 per omicidio e grassazione. 


486 Carlo Camparini di Viterbo, di anni 21, per omicidio e grassazione «morto» in Viterbo il giorno sudetto. 
487 Alpini Giorgio 
488 Sebbastiano Filippo


489 Rossi Pietro di S. Martino, per grassazione, «decapitati» nella Città di Spoleto li 17 agosto 1858.


490 Vincenzo Pagliara di Frosinone, per omicidio con animo deliberato, «decapitato» in Frosinone li 13 ottobre 1858. 


491 Pietro Masciotti, per omicidio e sgrasso «decapitato» in Perugia li 23 ottobre 1858. 


492 Vincenzo Lodovici, di anni 33, per omicidio deliberato «decapitato» li 8 gennaio 1859 nella fortezza di Civita Castellana.


493 Giovanni Cosinia, di anni 26, del fu Nicola, di Carbognano, condannato alla «morte esemplare» per omicidio li 2 marzo 1859. 


494 Gennaro Castellone, di anni 28, di Silvestro, di Cellano, per omicidio alla «morte esemplare» li 2 maggio 1859. 


495 Nazareno Caponi, natio di Monteleone, reo di fratricidio, «decapitato» in Treia li 11 maggio 1859. 


496 Giuseppe Lepri, di anni 30, nativo di Civitella di Agliano, sgrassatore, «morto» in Viterbo li 17 settembre 1859. 


497 Pietro Pompili, di anni 33, nativo di Civitella di Agliano, sgrassatore, «morti» impenitenti in Viterbo il giorno sudetto.


498 Vincenzo Vendetta, velletrano 


499 Antonio di Giacomo, velletrano 


500 Luigi Nardini, velletrano


501 Antonio Vendeta, per grassatori ed omicidj «morti» in Velletri li 29 ottobre 1859.


502 Valentino Antonio di Giacomo, tutti e cinque velletrani. 


503 Luigi Bonci di Gennaro, delegazione di Perugia, alla «morte esemplare» li 14 gennaio 1860. 


504 Serafino Volpi di Orvieto, alla «morte esemplare» li 18 gennaio 1860 in Orvieto. 


505 Antonio Simonetti, per omicidio con animo deliberato «decapitato» nella Darsena di Civitavecchia li 21 gennaio 1860, morto impenitente.


506 Giuseppe Alessandrini di Luigi, di Mosciano di Jesi, di anni 24, condannato dal Tribunale Criminale li 14 marzo 1859 per omicidio alla «morte esemplare». 


507 Lugi Finochi di Corneto, di anni 30, per uxoricidio «decapitato» in Corneto li 21 luglio 1860. 


508 Adamo Mazzanti, di Jesi, per omicidio in persona di padre, madre e figlio;fu eseguita la «giustizia» li 12 settembre 1860. 


509 Luigi Gagliardi, grassatore per assassinio ed omicidio, «decapitato» in Civitavecchia li 12 gennaio 1861. 


510 Nazazreno Gercorini, per omicidio e sgrasso per lo stesso motivo come sopra. 


511 Gaetano Lucarelli, di Marino, di anni 29, per omicidio traversale «morto» in Marino li 30 aprile 1861 impenitente. 


512 Cesare Locatelli, romano, di anni 37, reo di omicidio con animo di parte, «morto» in via de’ Cerchi li 21 settembre 1861.


513 Angelo Lisi di Alatri, reo di grassazione con animo deliberato, «morto» in Frosinone li 30 aprile 1862.


514 Angelo Isola di Rocca Secca nel Regno di Napoli, reo di grassazione, morto in Subiaco li 11 giugno 1864. 


515 Antonio Olietti, romano, reo di omicidj ed altri delitti, morto in via de’ Cerchi li 17 agosto 1864. 


516 Domenico Antonio Demartini, regnicolo, reo, di omicidj, «morto» in via de’ Cerchi li 17 agosto 1864. 


Così finisce la lunga lista del Bugatti. Rechiamo ora quella brevissima del suo successore.

 



DECAPITAZIONI eseguite da Vincenzo Calducci



Nella Darsena di Civitavecchia addì 20 maggio 1865 Saturnino Pescitelli. 


In Viterbo addì 17 febbraio 1866 Salvatore Silvestri. 


In Bracciano addì 23 maggio 1866 (doveva eseguirsi la sentenza contro Antonio di Giuseppe o Ventura, ma non fu eseguita) 


In Roma addì 21 luglio 1866 Francesco Ruggeri e Pasquale Berardi. 


In Supino addì 11 febbraio 1867 Paolo Caprara.


In Frosinone addì 11 marzo 1867 Giovanni Capri.


In Veroli addì 12 marzo 1867 Ignazio Bubali.


In Zagarolo addì 8 ottobre 1867 Ascenzo Palifermanti.


In Palestrina addì 23 maggio 1868 Pasquale Dicori.

In Roma addì 24 novembre 1868 Monti Giuseppe e Tognetti Gaetano. 


In Rocca di Papa addì 14 luglio 1869 Francesco Martini.

In Palestrina addì 9 luglio 1870 Agabito Bellomo

 

Fonte: (Wikipedia)




Feb 24 2009

1946: REFERENDUM MONARCHIA O REPUBBLICA – IL DUBBIO

 

 

Sono un Lupatotino che  nel periodo scolastico considerava i testi scolastici come fonti d’ assoluta verità e, più o meno, mai da mettere in dubbio, per le nozioni che contenevano e per la buona fede degli autori, e malgrado fossero iniziate ad emergere delle incrinature, non avevo mai perso la sicurezza di ciò.

La cosa iniziò a crollare quando ebbi la fortuna di accedere al mondo editoriale. Il castello di certezze  che mi ero costruito si sbriciolò miserabilmente.  L’accesso al quinto potere fu peggio di un bagno nell’Artico. Il risveglio fu brusco e doloroso.  Scoprire che non solo le informazioni attuali, ma che anche quelle storiche, erano state spesso solo un tentativo interessato a svolgere  attività politica “al passato”.

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Feb 19 2009

Nel 1861 non conosceva l’emigrazione poi vennero i Savoia

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 20:47

 

Il Genocidio del Sud

Lettera aperta al Presidente della Repubblica italiana Dott. Azeglio Ciampi 



 

Sig. Presidente, 


La rivendicazione degli ebrei all’ottenimento del rispetto universale, parte dai terrificanti numeri dei morti deportati dell’olocausto. Terrificanti e raccapriccianti per l’entità. Qui si parla di milioni; non di bruscolini ma di esseri umani. E tutta l’umanità riconoscendo la giustezza delle rivendicazioni ebraiche si schiera dalla sua parte, giustamente, ricercando, nei limiti del consentito, i risarcimenti possibili (oltre la caccia agli ultimi carnefici sopravvissuti).

 

Lei si sta accingendo a compiere il viaggio della memoria nelle terre dei re chiamati Galantuomo, Buono, Soldato, perché una agiografia e storiografia di parte e una scuola di regime hanno fatto credere a milioni di italiani che la casta sabauda fosse fatta di Galantuomini, di Buoni e di Soldati. Le cose non stanno così purtroppo. 

 

Per quanto riguarda la questione Savoia il ragionamento dovrebbe essere analogo a quello degli ebrei. A condizione che si possano conoscere i numeri riguardanti: 

 

1) i morti procurati al Sud con l’invasione barbarica del 1860, quella piemontese appunto; i deportati, i torturati, i fucilati o fatti morire di fame, di freddo e di stenti nei dieci anni e passa di repressione fatta chiamare dal re Galantuomo Vittorio Emanuele II repressione del brigantaggio. Secondo La Civiltà Cattolica del tempo i morti furono assai maggiori dei voti del plebiscito. A conti fatti, più di un milione 

 

2) i beni depredati al Sud e trasportati nel Piemonte: ricchezze finanziarie, culturali, sociali, sottratte con la forza dai vincitori 

 

3) gli emigranti diasporati in tutto il mondo per sfuggire alle persecuzioni , alla fame, alla miseria e all’oppressione delle orde piemontesi. Sono 25 milioni Sig. Presidente. Emigrazione biblica dei duosiciliani dopo il nefando 1861 ( medie annue: dal 1863 al 1880, 110.000; fino al 1900, 310 mila; fino al 1905 , 554.000; fino al 1913, 811.000), poi i nostri compatrioti divennero carne da cannone per la prima guerra mondiale ( il Sud ebbe 350 mila morti ) e per la seconda guerra mondiale ( il Sud ebbe 210 mila morti ) dopo quest’ultima guerra sono stati cacciati dal Sud altri 5 milioni di persone e l’emorragia continua con 100.000 nostri connazionali costretti ad emigrare nell’anno corrente. Una vera vergogna per l’Italia repubblicana e democratica. Uno stillicidio. Una diaspora che nemmeno gli ebrei hanno avuto. 

 

4) miliardi incalcolabili di dollari, sterline, pesos, bolivars, escudos, marchi, franchi procurati ai boiardi liberali, capitalisti e massoni del Nord, nell’arco di un secolo ed oltre da chi prima del 1860 non conosceva cosa fosse l’emigrazione, gli emigranti meridionali appunto. Le rimesse degli emigranti, sicuramente più voluminose del Vesuvio, dell’Etna e dello Stromboli messe assieme, sono finite tutte nelle tasche dei predoni cispadani, totali detentori dei mezzi di produzione. Il Sud, privilegiato bacino di mercato dei magnaccia del Nord liberale, liberista e piduista, condannato soprattutto alla disacculturazione più feroce, sta leccandosi ancora le ferite inferte dalla bestialità savoiarda. 

 

5) i morti delle guerre coloniali; i morti contadini ed operai nelle varie repressioni a favore del capitalismo liberista ( cattolici, socialisti, comunisti, borbonici, papalini uccisi dai vari Fumel, Della Rocca, Pinelli, Bixio, Bava Beccaris, Lamarmora ecc ecc); quelli procurati dalle cannonate sulla Sicilia nel 1866, quelli dei fasci sicliliani, quelli di Milano con il criminale Bava Beccaris su ordine del re Buono e quelli della Prima e Seconda guerra mondiale per colpa del re soldato detto pippetto. Se qualcuno vuole dare i numeri è libero di darli ma dovrebbe riuscire a dare quelli su richiamati. E se ci riuscisse farebbe un buon servigio al popolo Meridionale e scoprirebbe che le cifre vanno ben oltre quelle, maledette dell’olocausto. 

 

I piemontesi furono degli assassini spietati, invasero il Regno delle Due Sicilie a tradimento e senza dichiarazione di guerra; rasero al suolo 54 paesi, incendiarono villaggi, bruciarono i raccolti dei contadini per anni, scannarono armenti e bambini, donne, vecchi. Il generale Pinelli negli Abruzzi incendiò 14 paesi in pochi giorni, Bixio eseguì 700 ( settecento) fucilazioni di contadini ed operai con l’assenso dei Savoia. Vi furono eccidi disumani, tremendi, barbari, truculenti. Quegli assassini dei fratelli d’Italia cominciarono a Genova nel 1849 ove il generale Lamarmora soffocò nel sangue il rigurgitare repubblicano dei genovesi, ne morirono circa 700 e la città messa a sacco e fuoco, la violenza dei bersaglieri i liguri se la ricordano ancora. Poi il garibaldino Bixio su ordine del suo generale pirata dei due mondi massacrò i siciliani a Bronte, Recalbuto, a Linguaglossa, e in tutta la fascia etnea, il tutto coordinato dal console inglese che stava a Messina e in nome dei Savoia. 
Gaeta, simbolo del martirio del Sud fu sprofondata da 160 mila bombe dal generale Cialdini, ritenuto macellaio dal popolo del Sud. Gaeta fu rasa al suolo e i morti furono migliaia, sia civili che militari; i gaetani, dopo l’assedio chiesero i danni di guerra al governo torinese, stiamo ancora aspettando quei soldi, due milioni di lire del 1861. Noi li vogliamo. Se questa repubblica, ha ereditato quella italietta artificiale dai Savoia che paghi Sig. Presidente. 

 

Gli eccidi si susseguirono senza soluzione di continuità per oltre dodici anni; gli stati d’assedio erano la regola dei Savoia per scannare i nostri compatrioti Meridionali; la Legge Pica emanata nel 1863 è stata la legge più infame che un parlamento avesse potuto emanare, sotto l’egida savoiarda. Con quella legge furono istituiti tribunali di guerra in tutto il Sud, i soldati avevano carta bianca, le fucilazioni erano cosa ordinaria e non straordinaria. A causa di quella legge furono fucilati vecchi di 90 anni e bambini di dieci e dodici anni. Eccidi vi furono a Vieste, a Venosa, a Bauco, ad Auletta, a Gioia del Colle, a Sant’Eramo, a Pizzoli, a Pontelandolfo e Casalduni ove il generale Negri su comando di Cialdini arrostì e fucilò quasi mille persone; a Nola il generale Pinelli fece fucilare 232 paesani; a Montefalcione fu ecatombe, a Montecillone pure; a Teramo in una settimana furono trucidati 526 contadini; a Isernia i garibaldini ne trucidarono altri 1500; in Basilicata i morti non si contarono, solo il cielo sa quanti furono, in Calabria il generale Gaetano Sacchi fucilò a centinaia i calabresi paesani fino al 1870 e passa, il generale Fumel in un memoriale disse di aver fucilato almeno trecento tra briganti e non briganti; il generale Della Rocca disse che i suoi ufficiali fucilavano solo i capi dei briganti (come venivano chiamati i nostri patrioti e partigiani), e siccome erano migliaia le fucilazioni telegrafava a Torino dicendo di aver fatto fucilare uno,due tre sessanta capi briganti; in Sicilia vi furono migliaia di morti, nel basso Lazio, nel beneventano, nel Molise, nell’avellinese, in Capitanata. 

 

La nostra terra è inseminata di croci, di morti senza nome. Non vi fu villaggio non insozzato dalle orde piemontesi. A Gaeta, nel 1960 trovarono una foiba con duemila morti fucilati sullo spiazzo di Montesecco, li ricordava una stele, una piramide tronca, anche quella è sparita, la gente non deve ricordare, Cavour diede ordine a Cialdini di sparare cannonate anche dopo l’armistizio, durante l’assedio di Gaeta. I piemontesi si comportarono da veri assassini e criminali di guerra. Sig. Presidente, ci fa piacere che stia ricordando agli italiani di San Martino e Solferino dove i francesi si comportarono da eroi, in cambio vollero Nizza e la Savoia e i nostri statisti, ritenuti sommi, li accontentarono. Per molti quegli statisti furono solo dei traditori della patria. Vendettero la moglie al diavolo. 
Ci fa piacere Sig. Presidente, veramente. Il Sud si rallegra di questo, capiamo la sua voglia di unire la Patria sotto un inno nazionale che non capiamo, sotto una bandiera tricolore a cui abbiamo giurato fedeltà e che rispettiamo comunque; tre colori: verde uguale a prosperità dei padani, bianco come la neve delle alpi, rosso come il sangue versato dai meridionali durante la costruzione artefatta di questa Italia che amiamo tanto. I secessionisti hanno tentato la fuga, lo sappiamo. 
L’Italia era costituita da sei staterelli poveri, e da un grande Stato, il Regno delle Due Sicilie, ricco e prospero ove non si conosceva l’emigrazione e la disoccupazione era parola sconosciuta. Per Noi Meridionali l’Italia è nata il 2 giugno del 1946 e in quel giorno nacque il patto tra Nord e Sud che ormai sembra scemare. Non per colpa Nostra. Il Risorgimento piemontese e nordista non ci appartiene, quella genia di malfattori siano incensati da altri. 

 

Lei Sig. Presidente deve essere Super Partes, Noi non possiamo santificare chi ha commesso eccidi nefandi, chi ha derubato il Sud di tutto, chi ha commesso crimini contro l’umanità. È contro la storia, è contro il nostro essere Meridionali. 
Il Sud, nella sua memoria storica ricorda gli eccidi piemontesi, ricorda le stragi, ricorda i crimini commessi in nome e per conto dei Savoia e si sente offeso quando gli si vuole imporre una storia non veritiera; la gente del Sud ribolle rabbia quando gli si ricorda dei Savoia o dei nazisti. 

 

Cavour, Garibaldi, Vittorio Emanuele II di Savoia non sono i nostri eroi Sig. Presidente, non si può far studiare nelle scuole che quei signori ci hanno liberato dalla barbarie e dal tiranno, la ragione è solo una, tiranni e criminali erano loro, i savoiardi appunto. Il Sud era industrioso, laborioso e soprattutto pacifico, mai i nostri governati han dichiarato guerre ad alcuno. Da noi si costruì la prima ferrovia d’Italia, le prime navi a vapore e in ferro, da Noi vi erano le più grandi fabbriche d’Italia…. 

…. da noi vi era lo stabilimento di Pietrarsa, quello della Mongiana o i cantieri navali di Castellammare, da noi vi erano fabbriche di tessuti, di specchi, industrie metallurgiche; vi lavoravano 1,600,000 persone e da Noi vi era un’agricoltura fiorente all’avanguardia; da Noi vi erano banche dei Merdionali, società di assicurazioni, società di mutuo soccorso; da Noi vi erano capitali; da noi nacquero le prime comunità di tipo collettivo e le prime case per gli operai; da noi venne introdotta, per prima, la pensione ; da Noi vennero inventati gli assegni bancari; da Noi scomparì per prima la povertà: si costruirono gli alberghi dei poveri per dare loro un riparo ed un mestiere. 
Da Noi arrivò il gas nel 1836 e nel 1852 il telegrafo elettrico, primissimi in Italia; da Noi la terra fu tutta bonificata e data ai contadini del Sud, ciò che non fecero i sabaudi prosciugando parte della pianura pontina che regalarono ai veneti e friulani mentre i nostri contadini erano costretti all’emigrazione. Tutto questo è stato distrutto dai savoiardi. 


 

Noi siamo un popolo civile Sig. Presidente, l’annessione dell’Italia, quella vera, quella della civiltà, quella di Archimede, di Parmenide, di Zenone, di Epicuro, di Pitagora) operata dalle orde barbariche delle ex province di Roma, secondo alcuni storici ha dato vita all’unità. L’unità d’Italia fatta dai Galli. Incultura o dabbenaggine? L’Italia di Pitagora, quella dei numeri, è stata cancellata dalle menti di certi meridionali e dai cuori dei felloni, ne hanno fatto uso i Crucchi e i Longobardi che sanno fare bene i loro conti, sempre pagati dal Sud. 
Vi è stato sempre chi ha creduto nelle favole, come certo Mussolini, stampella dei Savoia e del vapore padano, che avendo chiamato i veri italici a difendere la patria nell’ora della pugna e del pericolo, se li vide arrivare in Sicilia, ad Anzio e a Salerno. Tutti figli dei diasporati in America dai Savoia. Arrivarono eccome gli italici! E Sciaboletta fuggì, come si conviene ad un re Savoia. Lei Sig. Presidente ha sofferto la fuga del Savoia infingardo, l’hanno sofferta milioni di italiani, milioni di europei, milioni di americani, australiani, neozelandesi, africani. L’Italia ridotta a maceria, alla fame, all’emigrazione. 

 

Sig. Presidente, 
A Sand Creek gli americani assassinarono 165 Cheyenne ed Aràpaho ma dopo 136 anni, sentendo i lamenti di Antilope Bianca, di Donna Sacra e di Pentola Nera massacrate sulle rive di quel di torrente di sabbia il Congresso americano ha sentito il dovere di approvare all’unanimità l’erezione di una stele che ricordasse al mondo tale nefando eccidio. Non fu certo l’unica strage perpetrata dai soldati blu americani quella di Sand Creek e il lontano west oggi è pieno di stele e monumenti che ricordano le barbarie commesse per costruire quel gigante economico che è oggi l’America. 

 

Lei sta visitando i luoghi e i siti cari alla leggenda risorgimentale: San Martino, Solferino, Novara, Goito, Torino, le case dei cosiddetti padri della Patria per infondere negli italiani l’amore per la bandiera, per l’inno nazionale, per unire gli italiani. Fa bene Sig. Presidente, glielo diciamo col cuore. 
Nel 1860 l’Italia il Regno delle Due Sicilie era il più ricco tra gli Stati italiani, il suo debito pubblico era tenuissimo, la sua riserva aurea pari al doppio di quelle degli altri stati della penisola messi assieme. Il Tesoro italiano, costituito nel 1861, era di 668 milioni di lire di cui 443 appartenevano al Reame e solo 8 alla Lombardia e 27 al Piemonte che ci lasciò un debito pubblico di oltre un miliardo di allora, debito che il Sud sta ancora pagando con lacrime e sangue. Nel vituperato regno dei Borbone non esisteva quasi la disoccupazione, la povertà era stata estirpata, i poveri censiti  messi nei vari alberghi dei Poveri a imparare un mestiere e l’emigrazione era parola inesistente nel vocabolario delle nostre popolazioni. Il primo ad emigrare fu Francesco II di Borbone che il 14 febbraio del 1861 dopo aver difeso la sua patria fino alla morte, da vero eroe dovette andare in esilio a Roma, ospitato dal papa nel palazzo ove Lei oggi risiede, e fatto morire all’estero dai Savoia. 


 

Sig. Presidente, 

per dodici anni il Sud fu immolato alla causa dell’Italietta artificiale ed artificiosa dei Savoia, i Meridionali trattati da quegli assassini dei fratelli d’Italia come maiali da appendere e spennare. Un grande meridionalista di nome Antonio Gramsci, il cui padre era di Gaeta che conoscendo a menadito la storia ebbe a dire che Lo Stato italiano (leggasi sabaudo) è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti. 

 

I veri briganti erano loro, i Savoia. Il Sud divenne un inferno, il Piemonte era stato delegato dalle potenze di allora a creare una borghesia vorace, liberale, senza scrupoli. A spese del Sud. Il Piemonte accentrò il potere, l’economia, annullò l’autonomia impositiva dei comuni; annullò tutte quelle istituzioni, sia pubbliche che religiose, che per secoli avevano consentito un equilibrio unico al mondo, che consentiva ai deboli di difendersi dai soprusi dei ricchi; annullò l’ordinamento fiscale in vigore nel Reame dei Borboni ritenuto il migliore del mondo; annullò lo stato Sociale del Sud e che i Borbone avevano eletto a patrimonio morale; annullò la libertà e impose gli stati d’assedio perenni, negò la libertà di stampa facendo chiudere tutti i quotidiani di opposizione. Il Piemonte, grazie alla vendita dei beni ecclesiastici e demaniali espropriati alla comunità incamerò centinaia di miliardi che hanno sostentato l’industria del Nord; il Piemonte con le leggi protezionistiche a danno del Sud decretò la morte del sistema industriale meridionale. 

 

Sig. Presidente, 

per oltre un secolo scrittori salariati e storici infami di regime hanno denigrato il Sud e i Borbone…
tanto che la parola borbonico nell’accezione imperante è diventata sinonimo di arretrato, di inefficiente. Quei signori prezzolati , pennivendoli di parte, hanno infangato la Nostra terra, un Regno in salute, efficiente, ricco e prospero; quei signori hanno infangato la sua amministrazione, la sua efficienza amministrativa e tributaria, hanno infamato i contadini del Sud chiamandoli briganti, la sua storia. È ora di rendere giustizia al Sud. 

 

Sig. Presidente, 
il Sud sta prendendo coscienza del suo male, l’Italia potrebbe dividersi veramente se non si mette fine ad una divisione di fatto, quella operata dai Savoia nel 1861. Il pericolo non è Bossi che siede da ministro tra gli scranni governativi, il pericolo viene dal Sud, dal Sud martoriato da 140 anni di bugie risorgimentali, da quel Sud scannato e colonizzato dai piemontesi. Al Sud sta nascendo un partito che vuole giustizia dei torti subiti dalle orde savoiarde, che vuole giustizia dei suoi morti, delle ruberie perpetrate ai suoi danni, dei danni di guerra ancora non pagati, dei demani messi in vendita dai vari governi per far fronte alla voragine debitoria del Paese. Non possiamo avere strade e piazze intitolate a Cavour che fece radere al suolo intere città mietendo migliaia di vittime, non possiamo avere strade e piazze intitolate agli infingardi Savoia e ai loro generali macellai e criminali di guerra che scannarono le nostre popolazioni. Questo è colonialismo puro. Il Sud vuole riappropriarsi della sua storia, delle sue ricchezze depredate, delle sue tradizioni, della sua bandiera da esporre a fianco di quella italiana, come avviene in tutto il mondo civile. In America accanto alla bandiera a stelle e strisce, in tutti gli uffici pubblici degli stati confederati, vi è quella del Dixie, cioè la bandiera degli stati del Sud sconfitto. 


 

Sig. Presidente, 

la invitiamo a Gaeta, città simbolo del Sud martoriato, città ove è nata quell’Italia artificiale; anche i nostri morti vogliono essere ricordati con pari dignità, i nostri eroi vogliono essere ricordati e riconosciuti dalla massima autorità dello Stato, come quelli di Novara, di Solferino. Perfino i repubblichini di Salò sono stati legittimati, forse anche loro combattevano per una patria serva dei tedeschi, molti erano in buona fede , altri no. 

 

La cittadina tirrenica è ancora un cimitero senza croci dopo 140 anni, le cannonate dei Savoia le sentiamo ancora, l’assedio di Gaeta grida vendetta; venga al Sud Sig. Presidente, venga a Pontelandolfo e Casalduni, venga a a Montefalcione, a Nola, a Isernia, a Bronte. 


Il Sud intero aspetta una Sua autorevole visita nei luoghi della Nostra memoria; venga a visitare le mille città meridionali immolate al Risorgimento piemontese e savoiardo. Ognuno, sotto un’unica bandiera innalzi monumenti ai propri eroi, intitoli loro piazze e strade. Un giorno potremmo cancellare le lapidi intitolate ai vari Garibaldi e ai vari felloni che strangolarono e divorarono il Sud, non possiamo assistere al ritorno di quelle ideologie del Nord che hanno infamato l’Italia, non possiamo assistere allo spettacolo pietoso di immoralità che pervade la nostra patria, allo spettacolo vergognoso di pregiudicati che siedono sugli scranni del parlamento italiano, questo non succede nemmeno nelle Repubbliche delle Banane e il mondo ci schifa, ci rifiuta. 

 

Sig. Presidente,
La imploriamo da italiani veri, venga a Gaeta a rinsaldare i veri valori italici; i nostri soldati, morti da veri eroi sulla fortezza ove si fece l’Italia, aspettano una parola, un conforto, aspettano soprattutto giustizia. L’Italia non sia più matrigna ma madre di tutti. 


Noi non odiamo il tricolore, vogliamo veramente una Italia unita, vogliamo veramente una economia unita; non più ricchezza solo al Nord, non più banche strozzine nei confronti del Sud; non più razzismi; non più emigrazione; non più disoccupazione; chiediamo solo lavoro, salute, ospedali, scuole, infrastrutture come chiediamo una programmazione scolastica degna di una nazione civile. Il Congresso americano non si è vergognato di chiedere scusa agli indiani per gli eccidi commessi, ma oggi l’America è una sola nazione, il suolo americano ritenuto sacro da tutti, sia dagli indiani che dagli invasori europei, dagli italiani fatti emigrare dai Savoia come dagli spagnoli e portoricani. Quando andrà a visitare Torino vada a visitare anche il carcere lager di Fenestrelle, quello di San Maurizio e quello di Alessandria, vi morirono 56 mila soldati napolitani che non vollero tradire il giuramento fatto alla loro bandiera e al loro re. 

 

Sig. Presidente, 
esiste in Italia una realtà territoriale senza territorio, come l’isola che non c’è di Peter Pan abitata da amebe che, nell’ignavia più totale, lasciano che la catastrofe socio-economica si consumi fino in fondo, conservando, comunque, sentimenti patriottici che vedono deperire il territorio all’ombra del tricolore italiano. Il demanio intende vendere la nostra storia al miglior offerente e dalle nostre parti il miglior offerente è quasi sempre la Camorra, i nostri legislatori han messo in vendita tutte le batterie borboniche, strade, castelli, caserme. Il Piemonte invece incassa 606 miliardi per riattare i suoi siti storici. Questo è colonialismo. Gaeta deve pagare il pizzo allo Stato per far passeggiare i suoi abitanti, per far studiare i suoi figli, da Noi tutto è demaniale e mentre i Borbone pagavano al nostro comune 5 grana al giorno per ogni militare di stanza sul suolo della nostra comunità i Savoia hanno preteso una tangente fissa che si continua a pagare. 


Gaeta è città piena di storia, anello di congiunzione tra Nord e Sud, pur avendo avuto per oltre un millennio una sua moneta, leggi proprie veramente federaliste, un governo democratico, navigatori come Giovanni Caboto ed Enrico Tonti che esportarono democrazia e leggi del Ducato di Gaeta (vera repubblica marinara) nelle lontane Americhe, una Città-Stato che ha avuto un ruolo rilevantissimo e determinante nella battaglia di Lepanto ( di cui conserva lo Stendardo). La battaglia che insieme a quella di Poitiers ha permesso di salvare la Civiltà Occidentale, Cristiana, Umanista e laica di stampo Greco-Romana si trova nella grottesca situazione per cui, chissà a quale misterioso sortilegio, le sue strade, le sue piazze, le sue scuole, la Casa comunale, i suoi litorali, i suoi castelli, i suoi palazzi, le sue montagne e quant’altro risultano proprietà dello Stato. 

 

Alle soglie del 2002 d.c., mentre troppi, salvo Lei Sig. Presidente della Repubblica italiana che perora la Causa Costituzionalmente sancita del decentramento, si sciacquano la bocca con la parola federalismo e fanno gargarismi con la locuzione autonomie locali, ci troviamo a Gaeta ancora in presenza dell’occupazione sabauda operata dal generale Cialdini, il quale completava il disegno colonialista portato avanti in Italia dai Savoia. La continuazione di tale nefanda situazione a quale ragionevole reazione dovrebbe condurre un cittadino di questa plaga così umiliata nella sua storia, nelle sue radici culturali? Deve invocare il federalismo o la secessione per riscattare la propria dignità? Noi siamo per un confederalismo serio, che dia a Gaeta e a tutte le città del Sud il maltolto e la propria storia. Confidiamo in una sua risposta positiva alla richiesta di invito del Partito del Sud per ristabilire la verità storica e il dovuto tributo ai nostri morti. Viva l’Italia, viva il tricolore, viva la bandiera del Sud.

 

Fonte: da  IL PARTITO DEL SUD  -ANTONIO CIANO- 
Via Piave, 15 – Gaeta  (LT)


Feb 18 2009

LE GESTA DEL BRIGANTAGGIO: IL SERGENTE ROMANO

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 19:58

 

Nell’intervallo di tempo che corse dall’estate del 1861 all’autunno del 1863 si svolsero in Puglia le gesta più formidabili del brigantaggio; il quale per audacia di tentativi e per numero di seguaci, arrivò a tal segno da infrangere la fiducia d’ogni classe di cittadini nelle nuove istituzioni. 

A nord, fra il basso Molise, il Beneventano e la Capitanata, imperversavano le bande di Varanelli, Schiavone, Del Sambro e Caruso di Torremaggiore, che era il più sanguinano e crudele dei briganti pugliesi; nel montuoso Gargano infuriava con Palumbo, Sammarchese, Scirpoli, Paletta ed altri fuoriusciti il feroce Gatta, orbo da un occhio; e a mezzogiorno della medesima provincia, tiranneggiava Palliacello: erano centinaia e centinaia di predoni, che sovente si adunavano al bosco delle grotte, non lungi dal Fortore, ove anche convenivano, per macchinare più arrischiate imprese, Crocco, Minelli, Cicogna e simili protagonisti della reazione borbonica. 

A sud, nella penisola salentina, scorazzavano altre numerose, ma piccole bande, capitanate da La Veneziana, Mazzeo, Trinchera, Monaco, Valente, Scarati, Perrone, Cristilli e Locaso, che con una orda composta in gran parte di contadini di Santeramo batteva gli estremi limiti di Puglia, Basilicata e Calabria. Al centro della regione, in Terra di Bari, oltre al sergente Romano, correvano le nostre pianure Francesco Saverio l’Abbate di Polignano, Cataldo Franchi di Ruvo, Luigi Terrone di Corato, Riccardo Carbone e Riccardo Colasuonno (Ciucciariello) di Andria; Marco e Scipione de Palo di Terlizzi, Bellettieri di Spinazzola ed altri minori duci. 

Alle quotidiana rappresaglia di torme indigene si aggiungevano qui le irruzioni delle masnade finitime, favorite dall’intermedia positura dell’agro barese. Carmine Donatello, che stanziava d’ordinario sulle rive dell’Ofanto, Giuseppe Nicola Summa, che soggiornava nei boschi di Lagopesole, Tortora, Cavalcante, Coppolone, Serravalle, il Capraro, Nenna Nenna e Pizzichicchio, il quale aveva il suo quartiere fra le macchie di San Marzano, in Terra d’Otranto; quasi tutti i capi banda di Basilicata e Lecce, a brevi intervalli, connivente il Romano, piombavano sull’agro barese, apportandovi calamità inaudite. Gravi minacce incombevano sulla provincia di Bari nell’autunno del 1861. Un ufficio riservatissimo, inviato dalla nostra prefettura al presidente della Gran Corte Criminale di Trani, riferendosi agli arresti compiuti nel comune di Gioia in conseguenza della nota sommossa, si esprime così circa il contegno delle nostre popolazioni:

“Credo opportuno mettere sotto gli occhi di V.S. che la condizione dei tempi che corrono, è più grave di quella in cui furono eseguiti gli arresti; che la ridicola credenza dell’avvenuta o possibile restorazione dei Borboni è generale nel basso popolo, che l’impudenza nell’agitarsi e spargere tali notizie, precisamente dalle famiglie dei detenuti, è massima, che il Governo è vivamente preoccupato dalla possibilità di una invasione generale nel Barese dei numerosi briganti concentrati sul confine della Basilicata”.

E vari dispacci, anch’essi urgenti e riservati, spediti nei primi di ottobre dal Ministero degli Interni al nostro governatore, esortavano le autorità a vigilare sui movimenti delle torme lucane, le quali ordinavano tentativi reazionari ed incursioni ai danni di queste ubertose contrade. 

Infatti, nel successivo novembre, il generale carlista José Boryes, che aveva assunto la direzione suprema delle ciurme operanti nella Basilicata, apparve minaccioso tra le colline di Altamura; ma, fossero i dissensi e le gelosie che allora agitavano la comitiva del Donatello, invido e sospettoso della presenza e della superiorità dell’avventuriero catalano, fossero le provvidenze dei nostri governanti o altri motivi che non ci è dato conoscere, la spedizione si fermò, a quanto pare, sul confine delle due province, e non ebbe ulteriori effetti. 

Di lì a tre mesi, però fu ritentata, e compiuta. 

Duecento banditi a cavallo, agli ordini di Crocco e compartecipe il Romano, il 24 febbraio 1861 entrano in Terra di Bari e avanzano fin sotto le campagne di Andria e di Corato. 

Qui uccidono a fucilate alcuni militi coratini che andavano in cerca di sbandati, depredano le masserie e, fatto un copioso bottino, riprendono il cammino in direzione ovest. A tali notizie il maggiore Alfonso Grilli, della guardia nazionale di Corato, corre sulla Murgia con un centinaio di gregari, ansiosi di vendicare la morte dei commilitoni: ma non trovò la masnada e, recando con sé i cadaveri delle vittime, rientrò in città fra i pianti e l’esasperazione dei conterranei. I predoni, frattanto, si fermano alla masseria Viti, in tenimento altamurano, occupano la strada fra Toritto e Altamura e, intercettate le corrispondenze postali e telegrafiche, spadroneggiano in quei luoghi con ogni sorta di spoliazioni. 

Il generale Regis, sorpreso dall’audace scorreria, ordina una celere concentrazione di truppe sulle posizioni occupate dai borbonici; da Gioia, Noci, Alberobello, Acquaviva, Barletta, Matera ed altri comuni partono manipoli di guardie nazionali e soldati del cinquantesimo fanteria; onde, quelli vedendosi minacciati di avvolgimento, fuggono via e, toccando la casa colonica Mercadante, la Risecca di Grumo, i boschi di Cassano e Santeramo, pervengono alla selva di San Basile, ove indugiano alcune ore. Il comandante italiano dispone per telegrafo l’avanzata di qualche compagnia dai quartieri tarantini allo scopo di precludere la ritirata ai fuggiaschi; ma questi, più agili ed. accorti, sfuggono agli inseguitori e si mettono in salvo fra i boschi di Craco. 

Nella prima quindicina di marzo un’altra comitiva, se non forse la medesima, composta di centoquaranta uomini, riappare sulle balze altamurane, soggiorna nell’abitato rurale di Claudio Melodia ed occupa il castello di Guaragnone. Agguerrite colonne di fanti e guardie civiche marciano colà; ma, secondo il solito, al primo apparire delle nostre milizie, i briganti si dileguano. 

Non trascorre un mese ed un’altra invasione si effettua da parte di Ninco Nanco, che, attraversate le Murge di Spinazzola, minaccia con le bande riunite la nostra pianura. Anche in questa emergenza la guardia coratina, sostenuta da un plotone di carabinieri, affronta la masnada, che, dopo una fugace scaramuccia, abbandona le posizioni, lasciando sul terreno un cadavere e quattro cavalli. 

Ai primi di maggio la stessa banda, sorpresa dai cavalleggeri del Mennuni di Genzano, viene gravemente sconfitta; e il tenente generale Cosenz partecipa la lieta novella ai nostri comuni col seguente dispaccio inviato da Bari alle sette pomeridiane del 9maggio 1862:

“Colonna Davide Mennuni ha disfatto comitiva Ninco Nanco. 15 briganti uccisi, molti feriti, ferito Ninco Nanco, cavalli ed armi abbandonati”

Il Prefetto: COSENZ

L’esultanza fu assai breve. Di lì a pochi giorni la compagnia del sergente Romano comparve nei parchi delle Monache Chiariste e nel bosco municipale Bonelli, presso Noci. 

Un plotone di cinquanta militi muove per quei luoghi; ma, di fronte al numero soverchiante dei nemici, retrocede e si ferma sulla Murgia d’Albanese, aspettando rinforzi chiesti con urgenza da Bari e da Taranto. Il Romano, informato delle intenzioni avversarie, lascia il territorio di Noci e si rifugia nella foresta di Pianella. 

Il 15 giugno, banditi e guardie civiche di Martina vengono alle mani nelle vicinanze della masseria Marrocco; il giorno 8 i masnadieri assaltano sull’imbrunire la fattoria del Chiancarello, appartenente ai signori Cassano di Gioia, e ucciso il fittavolo Domenico Pugliese di Putignano, depredano armi, cavalli ed oggetti di considerevole valore; il 12 commettono ruberie e ricatti nel territorio di Santeramo; il 19 contristano di nuovo le adiacenze di Noci, ove la tranquillità cittadina è ognora turbata “perché i malviventi si fanno vedere in punti diversi, ora uniti ed ora divisi”; fra il 20 e il 25, devastano i campi e le masserie di Alberobello, Cisternino e Locorotondo, e negli ultimi giorni del mese tornano ad occultarsi fra gli inospiti covi di Pianella per prendere nuova lena e commettere nuovi orrori. 

Così passano i giorni queste nomadi turbe: è un agitarsi continuo al gelido soffio della tramontana e al torrido sole dell’estate, fra le macchie spinose, che lacerano le carni, e le buie caverne che corrodono le fibre; è un correre vertiginoso ed ansante interrotto da fugaci tregue, una vita di torture inenarrabili, cui pone termine la fucilazione o la galera! 

Tener dietro ai movimenti disordinati e molteplici della banda Romano, sarebbe una fatica assai dura e fors’anche priva di interesse storico: barbari eccidi, effimeri trionfi, rotte sanguinose, estorsioni, rapine, vandalismi compiuti sempre in nome del sovrano e della fede, ecco in brevi parole la storia, triste ed uniforme, della comitiva. Sorvolo sui fatti di secondaria importanza e mi avvio rapidamente alla fine, indugiandomi sugli episodi più notevoli.

L’ASSALTO AD ALBEROBELLO

In uno degli ultimi giorni di luglio, le guardie civiche di Alberobello, perlustrando le finitime selve, si presentano alla masseria dei Monaci di San Domenico, frequente rifugio del Romano, e fatta una perquisizione, sequestrano sedici pacchi di cartucce e catturano il reticente guardiano. Di ciò informati, i banditi risolvono di infliggere subito ai temerari militi un’esemplare punizione. Sul declinare del giorno 26, il sergente Romano chiama a raccolta la ciurma, e schieratala in ordine militare con opportuni fiancheggiatori e vedette, muove sulla borgata. 

Giunti verso le dieci della sera a poco meno di un miglio dall’abitato, i masnadieri si fermano, e poiché scorgono ancora delle luci e odono dei canti, rimandano l’aggressione a notte più inoltrata. In questo mezzo, favoriti dall’oscurità, pervengono al Romano alcuni messaggeri di quel Comune, fra i quali, secondo le noti4e di autorevoli documenti, ci sarebbe qualche ufficiale della guardia civica, complice del misfatto. 

Ottenuti precisi ragguagli e prese le ultime disposizioni, uno stuolo di trenta fuoriusciti, staccatisi dalla masnada, va all’assalto con passi guardinghi e silenziosi. Il milite Tommaso Locorotondo, che era di sentinella, intravveduta fra le tenebre l’insidia, grida : – Alto Chi va là? Ma non ha proferite queste parole che dieci briganti gli sono addosso, lo disarmano e lo legano, imponendogli di tacere. 

Quindi, con le baionette innastate, invadono il quartiere e domandano dell’ufficiale di guardia. A tale ingiunzione si presenta il caporale Antonio Greco, da cui chiedono, e ottengono immediatamente, la restituzione delle cartucce sequestrate alla masseria dei Monaci.

Intanto i militi, che erano li presenti, sbigottiti dall’ingrata sorpresa, tentano di fuggire; ma i banditi, coi fucili in pugno, comandano loro di non muoversi, pena la vita. 

Alcuni, per disgrazia, trasgrediscono agli ordini e vanno a rifugiarsi in una stanza contigua barricandovisi dentro. I predoni, allora, infrangono la porta, uccidono la guardia Curri, alla quale tolgono la giacca e le scarpe, e feriscono i militi De Felice, De Leonardis e Castellano. Poscia mettono a soqquadro ogni cosa; prendono una trentina di fucili con altrettante baionette, un tamburo, sei daghe, venti bandiere ed altri oggetti. 

Da ultimo, schierate a due a due le guardie, se le trascinano dietro, parte libere, parte avvinte con funi, sulla via di Martina. Giunti però all’estramurale, ed impietositi dalle lacrime di quegli infelici, li lasciano andar via. L’aggressione fu compiuta in un quarto d’ora!

GLI ECCIDI DEL 6 AGOSTO

Sul cadere dello stesso mese di luglio, fra i seguaci del Romano erano sorte gravi discordie, per cui un gruppo numeroso di fuoriusciti, Cecere, Guarini, Convertini e Chirico di Cisternino con altri compagni, avevano disertato, aggregandosi alla comitiva di un capobanda napoletano. Poscia, vedendosi deboli e mal protetti, tornarono in cerca del vecchio duce, che allora soggiornava nelle campagne di Ostuni, Locorotondo e Alberobello. 

Come i reduci briganti si avvicinano ai nascondigli già noti, avvistati dalle sentinelle e accolti a fucilate, si danno alla fuga; ma due di essi, Vitantonio Cecere e Francesco Chirico, son catturati dai contadini che per caso lavoravano in quei dintorni, e in particolar modo da un tal Riccardo Tanzarella di Ostuni, che, intuito il movente della fuga e punto persuaso delle loro dichiarazioni, insiste presso i compagni, perché sian trattenuti e consegnati alle autorità. 

Mentre si discute sul da farsi, sopraggiungono due massari, Francesco d’Errico e Francesco Seleraro, occulti ricettatori del malandrinaggio; i quali, facendosi mallevadori dell’onestà di quei furfanti, non solo dissuadono il Tanzarella dal temerario proposito e ne ottengono la liberazione, ma intercedono presso il Romano, perché li accolga di nuovo alla sua dipendenza. 

Riammessi così nella compagnia, implorano dal sergente soddisfazione e vendetta delle patite ingiurie; l’uno, Vitantonio Cecere, contro il Tanzarella che li aveva esposti a sì grave pericolo; l’altro, Francesco Chirico, contro il liberale Oronzo Terruli, agricoltore di quella contrada che nel giugno precedente lo aveva denunciato come un pericoloso reazionario, costringendolo ad abbandonar la famiglia. Il capitano accondiscende alle voglie dei militi ed ordina che la spedizione punitiva si compia, rapida e spietata. 

Sul tramonto del 6 agosto, un manipolo di codesti forsennati sorprendono il Tanzarella presso la sua “casedda”, il “trullo” caratteristico di quei luoghi, lo acciuffano, gli avvincono le braccia con una corda in presenza degli atterriti familiari, e lo trascinano a viva forza nella vicina selva. 

Verso le undici della notte, la compagnia si scinde: gli uni rimangono con il condottiero in custodia del catturato, gli altri muovono sulla masseria Marangiuli, ove si trovava Oronzo Terruli. 

Questi, rassegnato all’inevitabile destino, ma risoluto a vender cara la vita, da un balcone respinge gli aggressori a fucilate e ferisce gravemente un masnadiero di Viareggio, che vien subito condotto alla presenza del Romano. 

Come l’impulsivo sergente scorge il compagno ferito e barcollante, preso da repentino furore, ordina, per rappresaglia, l’immediata fucilazione del prigioniero. Il povero contadino implora la vita; ma quegli, acceso dall’ira, non recede dal suo proposito, sì che il Tanzarella cade fucilato nel silenzio delle tenebre. Esegnita la condanna, accorrono tutti alla masseria, sfondano le porte e, saliti al primo piano, ammazzano il vecchio Marangiuli, che era congiunto e socio del Terruli nell’azienda agricola. 

Questi si rifugia sotto un letto; ma è tratto fuori dal Chirico, suo implacabile nemico, che, avutolo nelle mani, esclama: – Assassino traditore! Mi hai fatto lasciare i figli miei! – E anche il Terruli cade trafitto da numerosi proiettili e da ventisei pugnalate.

IL MARTIRIO DI VITO ANGELINI

Di li a pochi giorni, sulle prime ore della mattina, un branco di quei fanatici si reca alla masseria Serinello, dove soleva dimorare l’agricoltore Vito Angelini di Putignano, fervido seguace delle istituzioni liberali. Trovatolo colà, lo traggono in arresto a nome di Francesco II, gli legano strettamente i polsi e lo conducono al bosco De Laurentis, fra Santeramo e Gioia. Qui attende il Romano, che lo sottopone ad una specie di interrogatorio e gli chiede: – notizie dell’opera spiegata da lui e dai congiunti nella recente rivoluzione, mostrandosi informato di ogni particolare. 

Quindi, consultati i compagni, lo dichiara nemico del Papa, di Cristo e traditore dei figli, ed emana sentenza di morte. L’Angelini si dispera e piange; ma il sergente non si lascia commuovere ed ordina che il verdetto si compia senza esitazione. I gregari denudano il disgraziato, lasciandogli addosso il panciotto e la camicia; e fattolo inginocchiare, gli impongono di recitare il Credo e il Paternoster. Infine lo colpiscono con tre fucilate e, credutolo morto, si allontanano di là. 

Taluni, nell’andar via, accortisi che la vittima dava segni di vita, vorrebbero tornare indietro a finirlo coi pugnali; ma uno di loro distoglie i compagni dal truce proponimento, esclamando con gioia feroce: – Così devono trovarsi tutti gli amici di Vittorio Emanuele! L’Angelini, riavutosi dai colpi mortali, si trascina carponi ad una masseria vicina, ove è accolto e curato da mani pietose.

IL CONVEGNO DEL BOSCO PIANELLA

Nell’agosto 1862, i masnadieri delle province di Bari e Lecce, per ordine del comitato centrale romano; convennero al bosco Pianella, nelle adiacenze di Martina Franca, per dare unità direttiva al movimento reazionario e fondere in una grande compagnia tutte le torme fin allora frazionate e disperse. 

All’adunanza, che fu tenuta nei profondi recessi di una vicina grotta, capace di oltre ducento cavalli, parteciparono il sergente Romano, Mazzeo, Valente, La Veneziana, De Palo, Trinchera, Locaso, Monaco, Terrone, Testino; e tutti riconobbero l’opportunità dell’accordo, nel duplice intendimento di fronteggiare con maggiore vigoria le ostilità sempre più minacciose della truppa ed effettuare con sollecitudine il vagheggiato programma della restaurazione borbonica. 

Giurati i vincoli dell’alleanza e costituita un’orda di circa ducento uomini, quasi tutti a cavallo, il sergente Romano, che fra quelle turbe destituite d’ogni cultura eccelleva per intelligenza ed autorità, ottenne il comando supremo con il grado di “maggiore”, mentre gli altri condottieri, in conformità alle attitudini personali e a seconda del maggiore o minor numero di seguaci fino ad allora capeggiato, furono eletti capitani, sergenti e caporali. 

Orgoglioso di tanto onore, il Romano si accinse all’opera, proponendosi di esplicare un’azione gagliarda; e poiché la provincia di Bari, ove già si andavano concentrando numerose forze, non porgeva facili speranze di riscossa, pensò, d’accordo con gli altri caporioni, di trasferire il campo delle operazioni nel Brindisino. 

Pertanto, ai primi di settembre, la grande comitiva era già nella penisola salentina, e quivi per lo più si trattenne fino agli ultimi giorni di novembre. 

Il vandalismo agrario e le stragi, che per un intero trimestre desolarono quelle cittadinanze, sorpassano ogni immaginazione: smantellate le masserie dei liberali, bruciate le messi, interrotte le comunicazioni, sospeso il traffico: tutta la vita economica e civile della regione fu sottoposta all’arbitrio dei reazionari, la cui baldanza trascese a tali eccessi che agli occhi del popolino e della stessa borghesia parve addirittura imminente il crollo dell’edificio nazionale e il ritorno del decaduto monarca. Ecco gli avvenimenti più considerevoli dell’attività brigantesca in Terra d’Otranto.

IL MASSACRO DI CELLINO

Verso il mezzogiorno del 24 o 25 ottobre, due squadriglie della guardia di Cellino e di San Pietro Vernotico, accompagnate dai rispettivi tenenti e da un plotone di carabinieri a piedi e a cavallo, a circa nove miglia da si erano fermate alla fattoria Angelini, Brindisi. 

Mentre prendevano ristoro dalla faticosa marcia, videro schierata sulla “Piana” della masseria Santa Teresa, li vicina, una grossa comitiva di briganti. 

Si comanda l’assalto; ma gli ufficiali, giunti a cinquecento metri dal nemico, volgono le briglie, trascinando nella fuga ignominiosa i militi a piedi, che si disperdono per la campagna circostante. I carabinieri, rimasti soli contro la forte masnada, non si perdono d’animo, e rattenendo l’impeto avverso con un fuoco incessante di fucileria, retrocedono a lento passo in direzione di Cellino.

Ad un certo punto, alcuni fuoriusciti accerchiano due carabinieri a piedi, li atterrano e sono già in procinto di impadronirsene, quando il lombardo Giovanni Arizzi, noncurante della vita, galoppa in soccorso dei camerati e, dopo un’acerrima lotta, in cui rimase ferito lui stesso, li trae a salvamento. 

All’azione ardimentosa concorsero i carabinieri Biancardi e Piluti delle stazioni di Lecce e Campi Salentina. Arrivati a breve distanza da Cellino, i masnadieri si ritirarono, dando la caccia alle guardie nazionali, che si erano nascoste nei prossimi poderi. 

Ne scovano dodici, le avvincono con funi e, frustandole come bestie da soma, le spingono sulla masseria Santa Teresa, ove un’orrenda sorte attende i prigionieri. 

La scena raccapricciante, ivi svoltasi, è narrata dal milite Vitantonio Donadeo, che ebbe salva la vita per uno strano accidente. Ne trascrivo l’autentico, genuino racconto: “Quando arrivammo vicino a Santa Teresa, svillaneggiati e battuti per strada, posero me con gli altri undici prigionieri ginocchioni a terra e in fila, e dissero a Giuseppe Mauro, che fu poscia fucilato: – Tu avevi quattro carlini al giorno come spia sotto Francesco, ed ora ne hai tre sotto Vittorio. E poi, rivolti al Pecoraro ed al Miglietta, pur fucilati, dissero: – Conosciamo che voi siete andati facendo la spia. – Tenevano tutto segnato in un libro che portava il capitano, e dicevano: – I villani non hanno colpa; noi vogliamo i capi della guardia nazionale. 

Quindi uno dei briganti che era tornato ferito dal combattimento coi carabinieri, disponeva sulla sorte di noi altri, e tutto ad un tratto fu ordinata ed eseguita la fucilazione del Pecoraro, del Mauro e del Miglietta, i quali stavano inginocchiati i primi nella fila di noi altri; ed a misura che dovevano fucilare li facevano mettere faccia a terra, poggiando la bocca del fucile sul collo. 

Dopo i tre suddetti sventurati, dovea essere fucilato io, e mi ordinarono di mettermi con la faccia a terra, il che avendo io fatto, con lo squallore della morte, gridai: – Madonna del Carmine, aiutatemi! – ed intesi lo scatto del fucile che non dié fuoco. Allora un brigante disse: – Alzati che tu sei salvo, e devi essere veramente devoto alla Madonna del Carmine come lo sono io; le devi fare una gran festa. 

E dopo aver parlato un poco fra essi loro, fecero alzare da terra me e gli altri otto compagni, con la forbice mi mozzarono un pò l’orecchio sinistro come fecero ad altri sette; due, perché avevano ricevuto dei colpi in testa e la portavano fasciata, ad essi non furono mozzati gli orecchi.  Dopo questa operazione, il Capitano si avvicinò a noi e ci disse di andarcene”. 

Il brigante che, commosso dall’invocazione della Vergine, sospese l’iniziato massacro, fu il sergente Romano; e colui che, animato da istinto feroce, mozzò le orecchie ai prigionieri, fu lo Spadafino di Palo del Colle. Altri testimoni oculari aggiungono che i fuoriusciti ventilarono l’idea di recidere il capo ad uno dei catturati ed inviarlo al capitano della Guardia Nazionale di Cellino; ma l’infame proposta non fu eseguita per le implorazioni disperate di quei miseri. 

E’ certo però che Francesco Monaco di Ceglie Massapica con un rasoio tagliò il mento di un cadavere, e fattolo disseccare al sole, e ripostolo nella bisaccia, lo portò via con sé, qual segno e ricordo della vittoria. 

E’ indubitato altresì che alcuni di quei ribaldi conservarono nelle tasche le mutile orecchie dei prigionieri, mostrafldole qua e là, per i campi e le masserie, ai contadini che incontravano durante il percorso. 

Va ricordato infine, come le salme dei fucilati cellinesi furono date alle fiamme, perché delle odiate spie si disperdessero finanche le ceneri. Tale era l’aberrazione di quelle turbe sciagurate nel cui animo la frequenza delle scelleraggini aveva cancellato ogni traccia di umanità.

L’INVASIONE DI CAROVIGNO

Sull’albeggiare del 21 novembre, la comitiva, dalla masseria Colacorti, ov’erasi fermata fin dalla sera precedente, s’incammina alla volta di Carovigno, uno dei più ardenti focolari di brigantaggio reazionario. 

Non lungi dall’abitato, il “maggiore” trattiene la sua ciurma e manda all’assalto del corpo di guardia un drappello di dodici briganti a piedi. Come la sentinella Emanuele Patisso, nell’incerto chiarore della notte che già si dilegua, scorge l’avanguardia brigantesca, chiede con voce risoluta: – Chi vive? – Guardia piemontese! – si risponde. E nel dire tali parole i masnadieri piombano sul milite con rapidità fulminea, lo disarmano ed entrati – nel quartiere, fracassano panche, tavole, rastrelliere, quadri, stemmi reali. 

Sopraggiungono i banditi a cavallo e si riversano “per lo stradone” sparando archibugiate a salve e invitando il popolo alla rivolta. – Fuori i lumi! Fuori i lumi! – si esclama; e immantinente migliaia di lumi sporgono dagli usci e dai balconi, per modo che il paese, come affermano i documenti, è illuminato a giorno. 

Molti contadini scendono sulle vie e accolgono la masnada con le fiaccole accese e con manifestazioni di giubilo. 

Gli urli della plebe, espressioni sintomatiche di reazione politica e di riscossa sociale, richiamano alla memoria le torbide giornate del 1799. – Viva la Santa Fede! – si grida – Viva la Madonna! Viva Dio! Viva – Francesco II! Abbasso Vittorio Emanuele! All’impiedi il popolo basso! 

E una gran calca di popolo delirante segue i ribelli che, col Romano in prima fila, avanzano sulle loro cavalcature, baldanzosi e trionfanti. 

Assaltano quindi le case dei capitani Azzariti e Brancasi, dei patrioti Simone, Brandi, Santoro, Del Prete e del regio delegato Calò; atterrano la porta d’una rivendita di privative; calpestano le insegne sabaude, e penetrati nella bottega, depredano sigari e vari oggetti. 

Invadono poscia un pubblico ritrovo appartenente ad un caffettiere liberale, rompono tazze – e bicchieri, infrangono i quadri di Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele. 

Da ultimo, fattosi già chiaro, obbligano il sacerdote Federico Vacca a seguirli fuori del paese, al santuario della Madonna del Belvedere, ove la moltitudine, inginocchiata e riverente, intona col prete litanie e inni di grazia. Compiuta la funzione sacra, i briganti invitano la folla a rientrare nella borgata e, scambiati auguri di prossimo trionfo, si allontanano per la via di San Vito, in direzione della masseria Badessa. Nessun reato di sangue, tranne qualche lieve ferimento, turbò la clamorosa manifestazione.

IL CONFLITTO DELLA BADESSA

Nelle ore antimeridiane di quel giorno medesimo, come nella borgata limitrofa di San Vito si ha sentore dell’invasione di Carovigno, s’inviano carabinieri e guardie civiche in soccorso di un drappello di militi, che, per disposizione dell’autorità, si trovava in distaccamento alla tenuta Serranova, non lungi dalla Badessa.

 Le vedette dei masnadieri, che vigilavano dall’alto della fattoria, visto il plotone che avanzava sulla consolare di Brindisi, segnalano ai compagni l’imminente pericolo. 

Il Romano, osservata la positura e avute dal massaro D’Adamo, ardente borbonico, precise informazioni circa il numero e l’armamento dei nazionali, ordina la banda su due schiere e muove a spron battuto contro i nemici con disegno di accerchiarli. 

Ma quelli, forniti di buone armi da fuoco, sostengono con intrepidezza l’assalto e, contrastando il terreno a palmo a palmo, raggiungono l’oliveto Argentieri e la masseria De Leonardis, ove si trincerano saldamente. 

Il Romano, cui premeva di tenere integra la compagine dei suoi e non sacrificar mai gente in imprese di dubbia efficacia, dopo un’ora di accanita lotta, si ritira, trascinando con sé la guardia Catamerò, catturata all’inizio del combattimento. Radunatosi, secondo la consuetudine, il consiglio dei capi, il prigioniero è condannato all’estremo supplizio. 

Alcuni briganti lo afferrano per i piedi, altri lo costringono al suolo con le braccia e la testa; e il masnadiero tarantino Antonio gli recide la gola con una sciabola o grosso coltello adoperato a mo’ di sega.

IL RITORNO AL BOSCO PIANELLA

Dopo il conflitto della Badessa, il Romano, che con la sua tormentosa guerriglia aveva attratto nel Leccese molte forze regolari, pensò di sottrarsi all’urgente pressione della truppa, trasferendosi nella pristina sede di Pianella. 

Partito dal litorale adriatico, il 21 novembre, per l’istmo collinoso della penisola messapica, fra Brindisi e Taranto, – discese nell’opposto versante. 

La notte del 22 si fermò con tutta la banda alla fattoria Santoria, nei dintorni di Torre Santa Susanna, e la mattina seguente, provedutosi colà di viveri e di biada, si accinse a partire, dichiarando in arresto il massaro De Biase, reo di avere obbligato i suoi contadini ad acclamare Vittorio Emanuele re d’Italia. Indotti dalle vive insistenze dei familiari di quell’infelice, i masnadieri consentirono di rilasciarlo, previo riscatto di mille piastre; e poiché quelli ne offrivano solo trecento che avevano a disposizione, rigettarono la proposta con parole di sdegno. 

Gli sventurati, lacrimando, chiesero una breve dilazione per procacciarsi la somma vistosa; ma i banditi, specialmente Pizzichicchio che conduceva le trattative, non accolsero neppure tale richiesta e trascinarono via, in groppa ad un cavallo, il vecchio patriota, che nella macchia di Avetrana incontrò la pena di morte con armi da fuoco e da taglio. 

Dalla fattoria Santoria,- nelle ore antimeridiane del 23 i ribelli prendono la via di Erchie e sostano alcune ore presso il piccolo villaggio, dove, a somiglianza di Grottaglie, Crispiano, Statti, Carovigno, Palagianello ed altri Comuni del Leccese, si rinnovano le solite dimostrazioni popolari inneggianti al Borbone e alla fede. 

Verso mezzogiorno si allontanano di là, incamminandosi verso la marina ionica; durante la notte successiva si attardano fra i boschi di Maruggio, nei quali abbandonano un compagno di Santeramo in Colle, moribondo per le gravi ferite riportate in Erchie; e sul mattino del 24, per i territori di Grottaglie, Massafra, Mottola, devastando masserie, rompendo fili telegrafici e schivando fra mille peripezie gli incontri con la truppa, arrivano al bosco Pianella, ultima tappa del periglioso e lungo itinerario. In questo mezzo il Romano, imbaldanzito di tanti prosperi successi, medita un folle disegno: fondersi con la banda Crocco, muovere su Brindisi e impadronirsi della Terra d’Otranto; indi, raccolte grandi masse di popolo, correre su Gioia, Noci ed altri comuni del Barese,- inalberando dappertutto il – vessillo della controrivoluzione. 

Allettato dal chimerico piano, spedì messi al Donatello, che si trovava in Basilicata, e mandò in giro per le campagne Otto manipoli di arrolatori, affine di raccogliere gente, armi e cavalli. 

Se non che Carmine Crocco, cui la politica serviva di pretesto ad accumular quattrini, dapprima richiese alcuni giorni di tempo per una definitiva risposta, e poi, adducendo futili motivi, dichiarò senz’altro di non poter assecondare l’iniziativa del temerario collega. Il sergente Romano, intanto, rafforzata con nuove reclute la compagnia, esce dal bosco di Pianella in cerca di nuovi trionfi; ma le milizie italiane, rese ormai vigili ed esperte dalla dura esperienza, lo attendono al varco.

LA DISFATTA DELLA MASSERTA MONACI

Sul cadere del primo dicembre, l’intera compagnia si ferma alla masseria dei Monaci di San Domenico, tra Noci ed Alberobello. 

Erano lì presenti circa centosettanta uomini con tutti i caporioni del brigantaggio salentino e barese: Romano, La Veneziana, Pizzichicchio, Monaco, Valente, Quartulli, Locaso, De Palo ed altri. Il sedicente maggiore ordina alla ciurma di scendere da cavallo e di riposarsi nell’ampio caseggiato, mentre lui, espertissimo dei luoghi, con quaranta seguaci, va in cerca di viveri e foraggi. 

Molti dei banditi si andavano adagiando nei fienili, ed altri si apprestavano a desinare o attendevano al governo dei cavalli, quando, d’improvviso, la sedicesima Compagnia del decimo Reggimento di Fanteria, condotta dal capitano Molgora, sbuca fuori dalle circostanti macchie e piomba sui masnadieri scompigliati e dispersi. 

La Veneziana, Pizzichicchio e Valente, chiamati a raccolta i compagni, affrontano i soldati e si battono coraggiosamente in prima linea. Mentre la mischia infuria e la banda già ripiega, sopravviene il Romano, che era atteso con ansia; ma scorto il disordine dei suoi e il sopravvento della truppa, getta via le insegne del comando e, postosi in capo il berretto di un compagno, volge le terga. 

Alla fuga del condottiero segue una rotta piena ed irreparabile: muore La Veneziana, son feriti Pizzichicchio e Quartulli, cade prigioniero Scipione De Palo con altri nove banditi, e son catturati più di ottanta cavalli con armi e bagagli. 

Trentacinque briganti, che riposavano in un pagliaio e non presero parte alla zuffa, sfuggirono per miracolo alla cattura; dei restanti, molti, col favore delle tenebre sopraggiunte, se ne andarono – ai loro paesi; altri, dopo essersi aggirati per molte ore fra i boschi, tornarono alla grotta Pianella. 

Capi e gregari, superstiti di una grave sconfitta, tennero un’adunanza; e dopo una vivace discussione, durante la quale si coprirono di villanie, accusandosi d’imperizia e di viltà, decisero lo scioglimento della comitiva. 

La sera del 7 dicembre, i vari capi partono per vie diverse: Valente, con sedici o diciassette compagni per Carovigno; Monaco con altrettanti per Ceglie Messapica; il Capraro per Ginosa; e Pizzichicchio, riavutosi dalla ferita, per la Basilicata. 

Quindici fuoriusciti, avendo espressa la risoluta volontà di abbandonare la masnada, sono dichiarati vili, e quindi licenziati. Il Romano, diminuito di autorità e di grado, resta in quei luoghi con una cinquantina dei più antichi e fedeli proseliti. Era completa la dissoluzione, imminente la fine.

 

 

Fonte: srs di  Antonio Lucarelli – da: “AVVENTURE ITALIANE” Vallecchi Editore, Firenze, 1961


Feb 18 2009

IL SERGENTE ROMANO

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 13:52

Pasquale Domenico Romano nacque a Gioia del Colle il 24 Agosto 1833 da Giuseppe e Angela Concetta Lorusso. Ebbe un’educazione semplice, sana ma rigida che ne forgiò il carattere. 

Fin dall’adolescenza aiutò il padre nella pastorizia che gli permise una particolare conoscenza di quei boschi e di quelle contrade che poi lo videro quale dominatore incontrastato. 

Nel 1851 si arruolò nell’Esercito Borbonico dove intraprese una brillante carriera assumendo ben presto il grado di “primo sergente” e dove, per le sue particolari doti militari, ebbe l’onore di diventare “Alfiere” della Prima Compagnia del 5° di Linea. 

Disciolto l’Esercito del Regno delle Due Sicilie non si diede per vinto diventando comandante del Comitato Clandestino Borbonico di Gioia del Colle Tuttavia, avvertendo i tempi stretti, la gravità della situazione e mai sopportando l’inoperosità degli adepti del Comitato, dopo poco tempo abbandonò i “salotti” e passò senza esitare alla lotta armata, dando il via alla sua guerra partigiana contro i piemontesi. 

Nel giro di qualche settimana costituì una prima squadra formata esclusivamente da militari del disciolto Esercito Borbonico. Il 26 luglio 1861 si rifornì di armi e munizioni assaltando e prendendo prigioniera l’intera guarnigione di Alberobello nonché i militari del presidio di Cellino. 

Il 28 luglio del 1861 con i suoi militi attaccò Gioia del Colle dove s’impegnò in una vera e propria battaglia, travolgendo le truppe del maggiore piemontese Francesco Calabrese, costringendole a ripiegare nel Borgo San Vito. Alla vista della fuga dei militi piemontesi si sollevò l’intera cittadina di ventimila abitanti. Nella confusione furono molti i gioiesi che si unirono ai ribelli, tra essi Vito Romano di soli anni 17, fratello minore del Sergente. 

Fu questa la rima vera e propria azione con la quale il Sergente Romano inaugurò la lunga serie di colpi contro le truppe piemontesi, la Guardia Nazionale e i nemici liberali, ma fu anche l’inizio delle vendette trasversali, da parte di questi ultimi, ai suoi amici ed alla sua famiglia che, subito dopo la ritirata da Gioia del Colle, venne colpita duramente. Ciò non fece altro che inasprire ulteriormente il suo risentimento infondendogli maggiore risolutezza e rabbia contro chi considerava senza mezzi termini: “usurpatori, invasori, senza Dio, oppressori del popolo”. 

Le azioni di guerra fulminee ed imprevedibili, la spietatezza e nel contempo la lealtà e l’alto senso dell’onore, la ferrea disciplina militare a cui erano sottoposti i suoi uomini, le motivazioni legittimiste e religiose che lo spingevano a lottare con coraggio e determinazione, l’assoluta fedeltà al suo sovrano Francesco II ed al Papa lo fecero diventare un mito: l’eroe che difendeva gli oppressi, la giusta rivalsa sui conquistatori, il partigiano imprendibile e coraggioso, il guerriero invincibile, la volpe dei monti e dei boschi, il “brigante” degno dell’ammirazione delle popolazioni meridionali. 

Effettivamente fu un grosso problema per carabinieri, esercito e guardia nazionale che a migliaia gli diedero la caccia giorno e notte, d’estate e d’inverno. Mentre con veloci apparizioni distoglieva l’attenzione della truppa nemica colpendo nello stesso momento in località tra loro distanti, nel frattempo reperiva armamenti, munizioni e vettovagliamenti, reclutava uomini, stringeva accordi con altri guerriglieri, contattava sindaci e patrioti, pianificava colpi micidiali in tutta la regione. 

Il 24 Febbraio 1862 insieme a Carmine Donatelli, soprannominato “Crocco”, bloccò le strade di accesso ad Andria e Corato, tese un’imboscata alla guardia nazionale e, dopo averne avuto la meglio, ebbe via libera nell’assalire tutte le masserie di liberali ed ex garibaldini della zona, seminando il panico e facendo strage tra i “traditori del Popolo meridionale”. 

Qualche giorno dopo toccò alla strada fra Altamura e Toritto dove furono intercettati e colpiti il corriere postale e la scorta armata. 

Tra Maggio e Luglio 1862 il sergente Romano entrò più volte in Alberobello con la sua truppa, immobilizzando la guardia nazionale, rifornendosi di armi e munizioni, innalzando i vessilli borbonici e sparendo puntualmente nel nulla. 

Il 9 Agosto 1862, dopo la solita scorribanda per Alberobello, assaltò la fattoria di un certo Vito Angelini accusandolo di essere il delatore che aveva permesso l’assassinio della sua fidanzata Lauretta d’Onghia. Dopo averlo “processato” lo fece fucilare sull’aia. 

Qualche giorno dopo il Romano, dopo essersi unito nel bosco Pianella con i capibanda Laveneziana e Trinchera, si accampò nel cuore della penisola Salentina da dove avrebbe potuto colpire con maggior sicurezza. I primi di Ottobre assaltò nuovamente il presidio di Cellino ma questa volta ne fucilò tutti i militi. 

Il 24 ottobre 1862 verso le ore 12 la compagnia al completo puntò nuovamente sulla masseria Angelini, forse per completare la vendetta, quando gli si pararono davanti due squadre di guardia nazionale accompagnate da carabinieri a cavallo e comandate da due ufficiali anch’essi a cavallo. Lo scontro fu inevitabile e violentissimo.  Accortasi chi aveva davanti, la guardia nazionale si disimpegnò scappando verso Cellino mentre i carabinieri cercarono di proteggerne in qualche modo la ritirata.  Dopo un accanito inseguimento vennero però raggiunti e sopraffatti: dodici di essi caddero prigionieri. Due vennero fucilati immediatamente, mentre gli altri furono liberati dopo aver subito il taglio dei lobi auricolari. Nel frattempo la masseria Angelini venne data alle fiamme. 

Il 21 novembre 1862 il Sergente Romano e la sua truppa entrarono trionfanti in Carovigno dove, dopo una travolgente scorribanda per le vie del paese, si concentrarono nella piazza principale per abbattere i simboli Sabaudi ed innalzare quelli Borbonici. 

Qui il Sergente Romano dall’alto di un balcone tenne un appassionato discorso alla folla in delirio, invitando tutti alla rivolta contro gl’invasori piemontesi ed i traditori liberali loro alleati. 

A questo punto il resto del paese scese tumultuante per le strade inneggiando a Francesco II, le case dei liberali vennero date alle fiamme, fu devastato il comune, distrutto il presidio militare, poi l’intera popolazione si portò in processione al santuario della Madonna del Belvedere per un solenne “Te Deum”. 

Lasciato Carovigno con l’aiuto di Cosimo Mazzei e la sua squadra che, rimasta di guardia nelle campagne circostanti si avventò con incredibile ardimento sui soldati piemontesi accorsi dai dintorni, il Romano ed i suoi uomini si diressero sicuri verso sud marciando tutta la notte per raggiungere la masseria Santoria nei pressi di Santa Susanna.  Il massaro era un certo Giuseppe de Biase, liberale e consigliere comunale di Oria. Senza perder tempo si rifornirono di cibo e foraggio; presero come ostaggio il – de Biase, onde evitare delazioni da parte dei parenti, e ripartirono per raggiungere i vari centri abitati della zona dove contadini festosi li acclamarono quali liberatori. 

I loro spostamenti diventarono rapidissimi onde evitare prima il frontale e poi l’accerchiamento delle truppe piemontesi che con marce forzate, fin dal giorno precedente, cercavano di agganciare la formazione. Intuendo come le volpi il pericolo imminente, i guerriglieri si rifugiarono nel bosco di Avertrana dove uccisero l’ostaggio che aveva tentato di avvertire le truppe sabaude.

 Ormai il sergente Romano era diventato un mito, la sua fama aveva raggiunto ogni angolo della regione tanto che poteva girare sicuro come un trionfatore, ma fu questa sicurezza che poi gli fu fatale. 

Disturbato dall’accresciuto numero di soldati piemontesi nella zona, verso la fine di Novembre decise di rientrare nel bosco Pianella marciando per chilometri attraverso campagne e paesi spavaldamente, in formazione militare, con in testa tanto di bandiera, tamburino e tromba. 

Ovunque lasciava simboli Borbonici, abbatteva linee telegrafiche, bruciava fattorie di liberali, rincorreva e colpiva squadriglie della guardia nazionale, bruciava archivi comunali. 

Il 1 Dicembre presso la fattoria Monaci, poco distante da Alberobello, l’intera armata dei ribelli era intenta a bivaccare tranquilla riposandosi dopo la lunga campagna effettuata nel sud della regione.

Ma il rientro in grande stile, ed il clamore delle gesta avevano fatto spostare in zona anche le truppe piemontesi che da mesi cercavano invano un vero e proprio scontro militare. 

Il sergente Romano non immaginando minimamente cosa si stava preparando di li a poco non si preoccupò di attivare spie e vedette, come era solito fare, consentendo così all’avanguardia della 16″ compagnia del 10″ Reggimento di fanteria di scorgere il campo senza essere avvistata. 

Il capo pattuglia intuendo l’importanza della scoperta, senza esitare avverti il grosso della compagnia. Dopo poco l’intero reparto si scagliò sui guerriglieri sorprendendoli disarmati e nel sonno: fu una carneficina. Il Romano ed i suoi uomini cercarono di abbozzare una resistenza ma essendo la situazione estremamente critica l’unica via d’uscita restava il disimpegno veloce. 

Abbandonarono in fretta la zona perdendo il grosso degli uomini, dei cavalli e degli armamenti. 

Aiutati dalle tenebre e dalla perfetta conoscenza dei luoghi il Romano ed i suoi uomini riuscirono a riparare nel bosco Pianelle dove curarono i feriti, recuperarono gli sbandati e soprattutto si contarono. Erano rimasti in 50. 

Ma il Sergente non si scoraggiò per il duro colpo e subito dopo mandò in giro i suoi uomini a reclutare altre forze ed a metà Dicembre riprese nuovamente le ostilità. Più velocità negli spostamenti e soprattutto più spietatezza negli scontri che dovevano essere esclusivamente agguati. 

Ormai li aveva tutti addosso, veniva braccato senza tregua da migliaia di uomini, tra soldati, guardia nazionale e carabinieri. 

Le campagne di Alberobello, Fasano, Castellana, Putignano, Cisternino e Gioia del Colle, venivano percorse solo di notte o nei temporali, con assalti brevi ma incisivi alle masserie e solo a piccole squadriglie di carabinieri e guardia nazionale, evitando con rapidissime ritirate ed audacissimi aggiramenti le grosse formazioni piemontesi. 

La notte di Natali tutta la compagnia la trascorse presso la masseria Antonio Surico, amico di famiglia del Romano, ma i carabinieri avendo sistemato lungo le vie di accesso alle massarie dei non liberali propri uomini con il compito di segnalare ogni spostamento sospetto, localizzarono i guerriglieri. L’area di azione ormai era stata individuata ed il Romano aveva perso un fattore fondamentale della sua guerra: la segretezza negli spostamenti. 

Il 30 Dicembre, mentre i Borbonici erano intenti a mangiare, gli piombò addosso una squadra di guardia nazionale comandata dal dott. Lino Romeo.  La risposta però fu immediata ed addirittura la situazione si ribaltò a favore dei legittimisti quando improvvisamente arrivò un intero reparto di cavalleggeri di Saluzzo che, richiamato dagli spari, era accorso prontamente. 

Per il Romano e la sua squadra fu nuovamente sconfitta e l’unica via di salvezza fu la fuga precipitosa lasciando sul terreno morti, feriti, armi ed attrezzature. 

Per evitare un facile inseguimento, appena fuori la mischia, la truppa legittimista si divise in più squadriglie con la promessa di riunirsi in tempi migliori.  Quindi il grosso della compagnia mosse alla volta delle alture delle Murge, zona più sicura. Ma il Sergente non si fece attendere molto. 

Il 4 Gennaio lungo la strada che porta al Santuario del Melitto, nei pressi di Cassano, tese un’imboscata alla guardia nazionale di Altamura.  Nello scontro furibondo che ne scaturì i militi fatti letteralmente a pezzi dai partigiani che si abbandonarono a violenze indescrivibili dettate da un odio e da un desiderio di rivalsa profondi ed incolmabili. 

Sapendo di avere addosso tutte le truppe della zona il Sergente, a notte fonda si sposto nel bosco di Vallata presso Gioia del Colle nello stesso posto da dove nel 1861 erano partite le sue prime incursioni. Ma anche questo suo spostamento fu intercettato e nel giro di qualche ora il bosco fu circondato da un intero reparto di cavallegeri di Saluzzo, comandato dal capitanp Bolasco, e da un plotone di guardie nazionali accorse in forze da Gioia del Colle. 

Il Sergente Romano ed i suoi uomini sentendo i nemici addentrarsi nella fitta vegetazione da tutte le direzioni intuirono la grave situazione e aspettarono immobili nei loro nascondigli fino all’ultimo momento. Lo scontro a fuoco fu micidiale e, terminate le scariche di fucileria, seguì un furioso corpo a corpo all’arma bianca.

 Uno alla volta i Borbonici caddero sotto i colpi sferzanti della soverchiante truppa nemica. 

Il Romano circondato dai militi piemontesi si battè con forza sovraumana fino a quando, coperto di sangue e ferito al grido di “Evvivorre!”, cadde gloriosamente. 

Alla sua morte gli uomini smisero di combattere e si lasciarono arrestare. 

Il corpo del partigiano fu miseramente spogliato della divisa borbonica e, issato come una preda ad un palo sopra un carretto, fu portato a Gioia del Colle, in via della Candelora, sotto le finestre della sua abitazione dove rimase esposto per una settimana. 

Nonostante ciò la popolazione ne non volle credere alla morte del proprio eroe e continuò a raccontare le sue gesta, ad aspettare il suo ritorno, a sperare in un futuro di giustizia. 

Ma il Sergente Romano era effettivamente morto e con lui era finita la resistenza armata all’invasore piemontese in terra di Puglia.

 

Fonte: da: “BRIGANTI & PARTIGIANI” – a cura di: Barone, Ciano, Pagano, Romano – Edizione Campania Bella


Feb 18 2009

LA MARINA MERCANTILE NAPOLETANA, LA CAUSA DELL’ UNITA’ D’ITALIA

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 09:14

La bella “Fregata Partenope” nel porto di Napoli

 

La vera causa dell’unità d’Italia e della   distruzione del Regno delle due Sicilie

Le industrie del Sud richiedevano continuamente materie prime e quindi richiedevano navi che le trasportassero. Essendo l’Italia meridionale attraversata da una dorsale appenninica formata di aspre montagne, e quindi da vie di comunicazione di difficile attraversamento, fu naturale, sin dai tempi dell’Impero Romano, che uomini e merci viaggiassero per mare.

Tutta la costa era punteggiata di centri i cui cantieri navali erano rinomati in tutto il mondo e che davano lavoro a migliaia d’operai occupai lavoravano nelle industrie collegate.

Nel 1818 il Regno delle Due Sicilie disponeva di 2.387 navi, nel 1833 il numero salì a 3.283, di cui ben 262 superiori alle 200 tonnellate e 42 che oltrepassavano le 300 tonnellate.

Nel 1834 i bastimenti arrivarono a 5.493 per salire a 6.803 nel 1838. 

Nel 1852 il numero di navi e bastimenti arrivò a 8.884.

Nel 1860 la flotta mercantile borbonica, seconda d’Europa dopo quella inglese, contava 9.848 bastimenti per 259.910 tonnellate di stazza, dei quali 17 piroscafi a vapore per 3.748 tonnellate, 23 barks per 10.413 tonnellate 380 brigantini per 106.546 tonnellate, 211 brick schooners per 33.067 tonnellate, 6 navi per 2.432 tonnellate e moltissime imbarcazioni da pesca.

I cantieri navali erano sparsi per tutta la costa tirrenica, ionica e adriatica. Praticamente in ogni città costiera vi erano insediamenti accompagnati da scuole di formazione professionale e scuole marittime e nautiche. 

Tutti pensano che Gaeta, allora, fosse solo una roccaforte militare che dava ospitalità a circa 10.000 soldati. In realtà, attorno alla fortezza ruotava un’ agricoltura ricchissima ed avanzata costellata da circa 300 trappeti che davano lavoro a centinaia di persone, come pure vi erano fabbriche di sapone e di reti. 

Gaeta, come altre città del Regno, era ricchissima e la sua flotta mercantile vantava molte società di navigazione con al servizio duemila marinai sempre in viaggio. 

Essa era composta da 100 brigantini e martegane, da 60 a 220 tonnellate di stazza, 60 paranzelle da 30-40 tonnellate e circa 200 barche a vela da 2 a 20 tonnellate di stazza che, ogni giorno, si recavano a Napoli o a Roma attraverso il Tevere, trasportando merci e passeggeri

I cantieri navali di Gaeta, da sempre attivi, costruivano brigantini, galeoni, saette e velieri che venivano anche esportati.

Tutto questo stava togliendo prestigio e competitività alla più imponente forza navale del tempo: la  Marina Reale Inglese. Non solo,le navi napoletane toglievano fette sempre più ampie al mercato della cantieristica inglese, non solo erano ottime,  ma tecnologicamente avanzate e anche più economiche.

Il varo della prima nave a vapore del mediterraneo, l’attuazione di rotte che giungevano in America del Nord, del Sud e nel Pacifico, ponevano le basi per intaccare  i mercati commerciali Imperiali.

Soprattutto, da lì a pochi anni, si sarebbe aperto il canale di Suez, e tal cosa avrebbe rischiato di fare diventare il porto Napoli, non solo uno dei porti cardine dell’Europa, ma innanzitutto la porta dell’Europa verso il cuore dell’impero inglese: LE INDIE

Questo non doveva accadere, non poteva essere tollerato.

Il resto lo conosciamo…

All’indomani dell’invasione piemontese, l’industria e la cantieristica del Regno delle Due Sicilie venne quasi praticamente tutta smontata e smantellata:  si doveva estirpare alla radice quel temibile concorrente economico.

Non solo, lo Stato Sabaudo, con una politica protezionistica a favore del Nord, con anticipi di capitale e generosi sussidi a favore delle compagnie liguri e della nascente industria padana, affossò patriotticamente la rimanente economia meridionale costringendo alla fame intere popolazioni.

Con l’avvento dei Savoia, il Sud importò solo fame e miseria per sconfiggere le quali erano possibili due soluzioni: la rivoluzione o l’emigrazione.

Il popolo tutto, verso la fine del 1860, insorse contro i piemontesi. 

Ma dieci anni di guerra civile, e una politica da terra bruciata da parte dei Savoia, finirono per distruggere l’intero assetto economico del Regno e la nazione precipitò nel baratro.

Dopo la sconfitta i Meridionali furono costretti ad abbandonare in massa la loro terra.

 

Fonte: liberamente tratto da srs di  Antonio Ciano

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Feb 18 2009

Il massacro di Napoli e del Regno delle Due Sicilie, appunti su un genocidio.

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 00:13

 

 

Nel 1815, quando i Borboni ritornarono a Napoli, la popolazione era di 5.060.000, nel 1836 di 6.081.993; nel 1846 la popolazione arrivò a 8.423.316 e dieci anni dopo a 9.117.050.

Questo vorticoso aumento della popolazione ha nome e cognome: benessere e progresso civile e sociale. Durante 127 anni di governo i Borboni diedero prosperità a tutto il popolo e da 3 milioni di anime, del 1734, si arrivò ai 9 milioni del 1856.

Cos’ era successo? Come fu possibile?

Nel Meridione non si costruivano strade fin dal tempo dei Romani e i vicerè spagnoli impoverirono la popolazione esigendo tasse e balzelli, i baroni inselvatichirono la vita civile, le campagne erano abbandonate, i boschi avevano invaso le terre fertili di buona parte del Regno, i pirati razziavano le coste, il commercio non esisteva quasi più e, non essendoci polizia, nessuno rispettava le leggi e solo gli  innominati di manzoniana memoria erano i veri padroni della società.

I Borboni  riuscirono dove gli altri fallirono, imbrigliarono e resero quasi innocui i baroni, costruirono strade, ricostituirono l’esercito e le amministrazioni locali cui diedero l’antica autonomia, diedero impulso all’industria, all’agricoltura, alla pesca, al turismo.

Da ultimo, tra gli Stati, divenne il primo d’Italia e tra i primi del mondo. Le ferrovie, inventate nel 1820,  fecero la loro prima apparizione a Napoli (1839) con il tratto che congiungeva la capitale a Portici e poi fu concessa al Bayard di continuarla fino a Castellammare. A spese del tesoro nel 1842 cominciò quella per Capua e poi l’altra per Nola, Sarno e Sansevero. Nel 1837 arrivò il gas e nel 1852 il telegrafo elettrico.

Col benessere aumentava la popolazione in tutto il regno e per questa stessa ragione anche le entrate pubbliche che, di fatto, quintuplicarono.

Continua a leggere”Il massacro di Napoli e del Regno delle Due Sicilie, appunti su un genocidio.”


Feb 11 2009

Le fobie – é tutta un’altra storia – di Marco Pirina

Nel 2007 è uscito un libro   “La repubblica mai nata”  che dimostrava   che  nel referendum del 1946 non si fecero votare Istriani, Dalmati e LA MAGGIOR PARTE dei molti aventi diritto delle Venezie, rendendo legalmente nullo il referendum  e illegittima la repubblica italiana stessa , nata dalla negazione del voto di troppi, ben più dello scarto di voti vicenti .

Ma studiando come mai Istriani e Dalmati non furono fatti votare nel 1946 ,  si è  rivisto una storia, e non solo  delle Foibe. ben diversa da quelle ufficiali. Il fatto è che si stanno aprendo gli archivi internazionali finora chiusi, e da loro emerge prepotente una storia ben diversa da quella normalmente raccontata; ma che le Foibe sono state un GENOCIDIO voluto da Italiani e Jugoslavi a danno del popolo veneto, che ancora oggi continua nella forma di oblio culturale e negazione delle libertà politiche che portano alla servitù economica.

Ora anche un altro autore, Marco Pirina, dice sostanzialmente le stesse cose, ma egli ne ha maggiormente  approfonditamente  la questione e pubblicato nel 2008 un libro ricco di documenti che la raccontano.

La storia della Repubblica Italiana ne esce massacrata e infranta.

I  fondatori della Repubblica pagarono Tito per estendere il dominio anche fino al Garda, e pagarono FINO AGLI ANNI ’60  per tenere PRIGIONIERI  I VENETI NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO JUGOSLAVI !!

Colpevoli di questo genocidio furono i maggiori PADRI DELLA “PATRIA” Italiana, da De Gasperi a Togliatti, da Pertini a Rossi  da  Parri a Valiani .

In pochi minuti nella intervista che allego Pirina dice una quantità di cose dense di riferimenti che sono TERRIFICANTI per chi ha studiato la vicenda.

Illudersi di censurare per sempre queste cose come ancora  fa Napolitano è veramente da stupidi.

http://www.youtube.com/watch?v=lpWhDMLDYt8&eurl=http://www.palmerini.net/blog/?p=318

Fonte: liberamente  tratto da  srs di Loris Palmerini


Feb 09 2009

Padri della Patria: Liborio Romano

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 11:14

 

Se c’è un liberale del Risorgimento che meriterebbe di stare in un Pantheon, insieme ai vari padri della patria  (li conoscete  tutti, Cavour,  Garibaldi,  Mazzini, Vittorio Emanule Il) è certamente Liborio Romano, il grande liquidatore del Regno delle Due Sicilie. 

L’uomo che mise la camorra a presidiare Napoli, ma non lo si può scrivere  sui libri di  storia!  Altrimenti ai giovani meridionali potrebbero girare le scatole e, quando terminano le scuole,  invece  di andarsene a lavorare,  metterebbero tutto a soqquadro.

Figlio più illustre di Patù. Primogenito di una nobile e antica famiglia dalle tradizioni liberali, completò gli studi a Lecce, si laureò in Giurisprudenza a Napoli nella cui Università fu anche professore. 

Sin da giovane visse intensamente l’impegno politico frequentando gli ambienti legati alla Carboneria e diventando interprete appassionato delle più alte idealità del Risorgimento italiano, e per questo fu sospeso dall’insegnamento universitario. 

Nel 1860, quando ormai con Francesco II stavano per consumarsi gli ultimi atti del Regno dei Borboni, a Napoli Liborio Romano detto “Don Libò”, era  ormai conosciuto in tutti gli ambienti come il più brillante principe del Foro partenopeo.


Venne nominato prima Prefetto di Polizia e subito dopo Ministro dell’Interno e della Polizia, e si trovò nella necessità  di traghettare tramite Garibaldi, il Regno di Napoli dai Borboni ai Savoia,  la situazione era esplosiva, a Napoli poteva succedere di tutto.


In quel frangente il nostro Don Libò, scese a patti con la camorra locale,  rimasta fino allora relegata ai margini del sistema civile,  coinvolgendone gli esponenti di spicco nel lavoro di mantenimento della quiete pubblica. 

E così avvenne: la calma e l’ordine regnarono sovrani.

Garibaldi poté giungere solo e senza armi alla Stazione ferroviaria di Napoli, accolto da Liborio Romano in persona circondato da un popolo in festa.

Nelle Elezioni politiche del gennaio 1861, le prime del Regno d’Italia unita don Liborio fu il Deputato più votato in Italia, eletto in ben otto collegi elettorali: il 20 luglio 1865 si chiudeva la sua esperienza parlamentare.

Le premesse per il futuro disastro istituzionale  vi erano  tutte; la calma era solo apparente.

 

Come al solito ai naviganti l’ardua risposta.


Gen 29 2009

Giuseppe Garibaldi: un gran rompicoglioni

Category: Italia storia e dintornigiorgio @ 03:07

 

Malgrado il plurisecolare e inossidabile mito che ha elevato  Giuseppe  Garibaldi a grande eroe  dei due  Mondi, eroe Nazionale,  padre della Patria, invincibile, intelligente, bellissimo, coraggioso, romantico, idealista, difensore degli oppressi e della libertà dei popoli, colui il quale metteva a repentaglio la propria vita per la libertà altrui, il solo vero eroe senza macchia e senza paura; era per me principalmente e fondamentalmente,  anzi con una  assoluta certezza, un rompicoglioni.

Ma… vederlo  vergato da lui stesso  e tutta un’altra cosa.

Negli anni ’40, scrisse  a un amico: 

“Io son fatto per romper i coglioni a mezza umanità; e l ‘ho giurato; sì!    Ho giurato per Cristo! Di consacrare la mia vita ali ‘altrui perturbazione, e già qualcosa ho conseguito, ed è nulla a paragone di ciò che spero, se mi lasciano fare, o se non possono impedirmi di farlo”.


 Fonte: da srs di  Claudio Fracassi


Gen 29 2009

Morte di Anita Garibaldi, 4 agosto 1949, referto autopsia: unico indizio, strangolamento

Category: Italia storia e dintornigiorgio @ 02:41

 

La Repubblica di Roma aveva preso una piega diversa dalle aspettative.

Garibaldi, braccato dalle guardie papaline è in fuga verso Venezia, una delle ultime città italiane che resiste all’assedio degli austriaci.

A Cesenatico, il 2 agosto prende il mare con tredici bragozzi ma viene quasi subito intercettato dalla marina austriaca. I due bragozzi superstiti  con Garibaldi e un  trentina di persone si  arenano sulla spiaggia della Pialassa, fra la Mesola e Magnavacca.

La situazione è tragica, Garibaldi, resta solo con il legionario Maggior Leggero e Anna Maria Ribeiro da Silva, è questo il nome Anita, che è ormai agonizzante. 

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Gen 29 2009

Giuseppe Garibaldi e Anita: un amore da far morire

Category: Italia storia e dintornigiorgio @ 02:23

 

Siamo a cavallo degli anni ’39,  in piena guerra dei  Farrapos.

Garibaldi ha perso parte dei sui uomini in seguito al naufragio del Rio Pardo. Annegano sedici dei trenta componenti dell’equipaggio, tra cui gli amici Mutru e Carniglia; il nizzardo è l’unico italiano superstite.

È un duro colpo che lui tenta di superare, gettandosi con più vigore nelle sue  lotte. 

A Laguna ricostruisce  la sua piccola flotta e assume il comando dell’ Itaparica.  Ma il suo spirito non è dei più felici. 

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Gen 28 2009

Giuseppe Garibaldi eroe dei due mondi, forse… ma solo per l’Italia

Category: Italia storia e dintornigiorgio @ 20:07

 

Che Giuseppe  Garibaldi,  come eroe del nuovo mondo, fosse solo una leggenda Italiana, o  al massimo che  la sua magnificazione oltre oceano sia stata  costruita  quasi esclusivamente dalla numerosa colonia italiana che ne ha fatto un proprio eroe, lo si à potuto ben capire  allorquando il Sig. Luigi Scalfaro,  in veste ufficiale di Presidente degli  italiani, durante una visita ufficiale a Montevideo si avventurò in un panegirico su Garibaldi come eroe dei due mondi.

La replica non si fece attendere,  prontamente Il giornale EI Pais di Montevideo scrisse il 27-7-95 a pag 6:  

“Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al il dott. Scalfaro che il suo compatriota non ha lottato per la libertà di queste nazioni come afferma.  Piuttosto il contrario.” 

 

Fonte: srs di Antonio Ciano/Giuseppe Oneto


Gen 28 2009

Maggior Leggero, il garibaldino piu’ garibaldino di Garibaldi

Category: Italia storia e dintornigiorgio @ 19:41

 

Giovanni Battista Coliolo o Culiolo nacque a La Maddalena il 17 settembre 1813, da Silvestro e Rosa Finga, famiglia di origine corsa. 

A 11 anni si arruolò nella Marina Sarda e per la sue doti di agilità e sveltezza, gli fu dato il sopranome di “Leggero”. Dopo 15 anni di servizio, ottenne il grado di marinaio di 1° classe. 

Il 3 marzo 1839, avendo la sua nave fatto scalo a Montevideo, disertò per raggiungere la Legione italiana a Montevideo. 

Era forte e coraggioso e conservava tutta la sua energia, nonostante avesse le dita delle mani mozzate in vari arrembaggi. 

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Dic 09 2008

Abbiamo fatto l’Italia si tratta adesso di fare gli italiani

Category: Italia storia e dintornigiorgio @ 09:05

Abbiamo fatto l’Italia;  si tratta adesso di fare gli italiani

Massimo Tappparelli marchese D’ Azeglio nel discorso della seduta inaugurale del Parlamento italiano, 18 Febbraio 1861.

L’Italia e’  un Paese straordinario, in cui ci sono persone di grande eccellenza,  gli italiani ci sono;  manca l’Italia.

Luca Cordero di Montezemolo Roma, intervistato sul corriere.it, 13 novembre 2006.

150  anni di storia sofferta per poi accorgerci che gira che ti rigira stiamo allo stesso punto di partenza. Prima mancavano gli italiani, ora manca l’Italia… domani manchera’  qualcos’altro

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