Set 05 2013

CAMPANIA “ECCO PERCHÉ LA GENTE STA MORENDO DI CANCRO”. DICHIARAZIONI CHOC DELL’EX BOSS DEI CASALESI

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Carmine Schiavone

 

E’ Carmine Schiavone a parlare in un’intervista di qualche giorno fa a Sky Tg 24.  La sua intervista spaziava dal traffico di rifiuti all’ecomafia. Di una criminalità che a molti fa paura ma non a lui. Che di giochi mafiosi, essendo l’ex boss del clan dei Casalesi, ci ha vissuto. E’ consapevole però che questo tipo di criminalità, anche se non uccide con il sangue, lo fa con il silenzio e con la lentezza. E con i soldi che può creare può decidere chi campa e chi muore. Nel nome del Dio denaro. Carmine Schiavone, cugino del temibile Sandokan, di questo ha vissuto fino al 1993, quando ha deciso di pentirsi.

 

Ecco uno stralcio di quello che ha deciso di raccontare: “Il vero business era quello dei carichi che dal Nord Europa arrivavano al Sud. Rifiuti chimici, ospedalieri, farmaceutici e fanghi termonucleari. Scaricati e interrati dal lungomare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. Avevamo capozona a Roma, ma anche a Milano, Modena, Reggio Emilia. E all’estero.”

 

I rifiuti da eliminare arrivavano specialmente dalla Germania. Venivano scaricati nei campi e nelle cave di sabbia, chiusi in cassette di piombo. “Negli anni si saranno aperte, ecco perchè la gente sta morendo di cancro.”

 

Il punto focale del racconto arriva però a questo punto: “Il tutto avveniva con la complicità delle forze dell’ordine e delle forze politiche. Mantenevamo caserme, carabinieri e Guardia di finanza e Spostavamo 70-80mila voti“.

 

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Mag 13 2013

SALVATORE GIULIANO A DISPOSIZIONE DEGLI STATI UNITI PER CONTRASTARE IL COMUNISMO: ECCO IL DOCUMENTO

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Salvatore Giuliano

 

-Redazione 1 maggio 2013-

Salvatore Giuliano aveva dichiarato di essersi messo a disposizione degli Stati Uniti per contrastare i comunismo.

 

Il documento è allegato al Rapporto giudiziario con il quale i marescialli dell’Arma dei Carabinieri, Lo Bianco, Calandra e Santucci  denunciarono il 4 settembre 1947 Giuliano e la sua banda, quali esecutori materiali della strage di Portella della Ginestra.

Questo Rapporto, in realtà, ebbe la supervisione dell’ispettore di P.s. Ettore Messana, che pur avendo abbandonato il suo incarico dopo i fatti del 1°maggio 1947, grazie alla denuncia politica espressa dal dirigente comunista Girolamo Li Causi, tuttavia rimase nei fatti al suo posto gestendo la fase terminale della sua carriera con la cura scrupolosa di quell’atto di denuncia all’autorità giudiziaria.

Si tratta del primo atto di depistaggio costruito a tavolino da un organo dello Stato, nel quale il fenomeno del banditismo è rigidamente chiuso dentro i suoi confini territoriali, ma nel quale, però, gli stessi Carabinieri non poterono fare a meno di riferire quanto era sotto gli occhi di tutti.  Che, cioè,  la manovra eversiva partita il 1°maggio era proseguita il successivo 22 giugno con gli assalti alle Camere del Lavoro e alle sedi del Pci e dei socialisti in ben sette comuni della provincia di Palermo, con altri morti e decine di feriti.

L’obiettivo, aveva detto il bandito Pasquale ‘Pino’ Sciortino era quello di provocare la reazione (e poi la repressione) in tutte le altre provincie siciliane.

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Gen 10 2013

GIUSEPPE VERDI: L’UNITÀ SARÀ LA NOSTRA ROVINA!!!

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 00:11

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Mai furono più attuali le parole di Giuseppe Verdi, appena 7 anni dopo l’Unità d’Italia.

 

Una lettera,  pochissimo  conosciuta  e  diffusa,  scritta da Giuseppe Verdi il 16 giugno 1867,  sette anni dopo l’Unità d’Italia,  all’on. mantovano  Opprandino Arrivabene.   Entrambi erano stati eletti parlamentari nel primo parlamento del Regno.

 

«Cosa fanno i nostri uomini di Stato? Coglionerie sopra coglionerie!

Ci vuol altro che mettere delle imposte sul sale e sul macinato e rendere ancora più misera la condizione dei poveri.  Quando i padroni dei fondi non potranno,  per troppe imposte, far più lavorare, allora moriremo tutti di fame.

Cosa singolare!

Quando l’ Italia era divisa in tanti piccoli Stati, le finanze di tutti erano fiorenti!

Ora che tutti siamo uniti, siamo rovinati.

Ma dove sono le ricchezze d’ una volta? Addio, addio»

 

Lettera  che fa il paio con un’altra datata 2 settembre 1899 del sen. potentino  Giustino Fortunato al sen. napoletano  Pasquale Villari.

 

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Sen. Giustino Fortunato

 

« L’unità d’Italia è stata e sarà – ne ho fede invitta – la nostra redenzione morale.

Ma è stata, purtroppo, la nostra rovina economica.

Noi eravamo, il 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole.

L’Unità ci ha perduti.

E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali.»

 

 

Della serie: stavamo meglio quando eravamo…. single!

 


Ott 27 2012

CORRISPONDENZA INEDITA DI PIER PAOLO PASOLINI «CALABRESI NON FATE COME GLI STRUZZI»

 

Pier Paolo Pasolini

 

La  lettera inedita di Pasolini riaccende la questione Nord-Sud.

 

ESTATE 1959.

Pier Paolo Pasolini percorre la costa italiana al volante di una Fiat Millecento. Le suggestioni, gli odori e le miserie di quel viaggio nell’Italia del dopoguerra diventarono un reportage di grande bellezza (“La lunga strada di sabbia”) pubblicato dalla rivista “Successo”, diretta da Arturo Tofanelli.

 

Maestro di quel giornalismo “illustrato” che spopolava, quando la televisione era ancora merce di lusso. Nel 2001, il fotoreporter Philippe Séclier  affrontò lo stesso itinerario. Nella prefazione del volume di foto d’autore che, in seguito, pubblicò per la casa editrice “Contrasto”, scrisse: «Ho voluto mettere i miei passi dietro ai suoi, vedere ciò che lui aveva visto, capito e sentito, lanciarmi a mia volta su quella strada in sua compagnia, seguendola come lui l’aveva descritta».

Restò molto sorpreso, quando in un vecchio salone di barbiere di Cutro vide esposta una gigantografia di Pasolini. Non se lo aspettava. Perché Pier Paolo Pasolini aveva descritto con durezza di pensiero e di linguaggio quel piccolo centro, presentandolo come il “paese dei banditi”. Le reazioni ai suoi articoli furono immediate, taglienti e distruttive. Anche a livello istituzionale. Fino al punto che il sindaco della cittadina catanzarese, il ragionier Vincenzo Mancuso, democristiano, presentò querela per diffamazione a mezzo stampa nei confronti dello scrittore presso la Procura della Repubblica di Milano.

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Ago 03 2012

IL BANDITO GIULIANO E IL DISCORSO DELLA CAMPAGNA ELETTORALE DEL 1948

Salvatore Giuliano

Pubblichiamo, di seguito, il discorso manoscritto che il bandito Giuliano avrebbe dovuto pronunciare ad una emittente radiofonica, in occasione delle elezioni politiche del 18 aprile 1948. Le consultazioni  si svolsero dopo un anno di rinvii dovuti alla convinzione che l’Italia, così come era uscita dal referendum istituzionale del 2 giugno 1946, sarebbe stata consegnata alle forze socialcomuniste. Perciò la data fissata per il voto degli italiani slittò dalla fine del 1946 alla fine del 1947 e da qui alla primavera dell’anno successivo. Una paura non infondata che animò i ceti latifondistici e imprenditoriali spingendoli verso il neofascismo o quei partiti centristi che, come la Democrazia cristiana, aspiravano a estromettere la sinistra dal governo De Gasperi.

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Mar 02 2009

SCRITTE TROVATE IN GIRO PER NAPOLI

Category: Monade satira e rattatuje,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 16:09

(Panettiere)  – “QUANDO VI DIVENTA DURO VE LO GRATTUGIAMO GRATIS, MA META’ CE LO TRATTENIAMO”

 

(Vendite immobiliari) (in una palazzina in vendita con officina artigianale sul retro)  – “SI VENDE SOLO IL DAVANTI, IL DIDIETRO SERVE A MIO MARITO”

 

(Mobiliere)  –  “SI VENDONO LETTI A CASTELLO PER BAMBINI DI LEGNO”

 

(Mobiliere)  –   “SI VENDONO MOBILI DEL SETTECENTO NUOVI”

 

(Macelleria)  – “DA ROSALIA, TACCHINI E POLLI, A RICHIESTA SI APRONO LE COSCE”

 

(Macelleria) – “CARNE BOVINA, OVINA, CAPRINA, SUINA, POLLINA E CONIGLINA”

 

(Polleria)  –     “POLLI ARROSTO ANCHE VIVI”

 

(Polleria)  –    “SI AMMAZZANO GALLINE IN FACCIA”

 

(Polleria)  –    “SI VENDONO UOVA FRESCHE PER BAMBINI DA SUCCHIARE”

 

(Sfasciacarrozze)  – “QUI SI VENDO AUTOMOBILI INCIDENTATE MA NON RUBATE”

 

(Fioraio)  –  “SE MI CERCATE SONO AL CIMITERO … VIVO”

 

(Fioraio)  –  “SI INVIANO FIORI IN TUTTO IL MONDO, ANCHE VIA FAX”

 

(Abbigliamento)  –  “NUOVI ARRIVI DI MUTANDE, SE LE PROVATE NN LE TOGLIETE PIU’ “

 

(Abbigliamento)  –  “NON ANDATE ALTROVE A FARVI RUBARE, PROVATE DA NOI”

 

(Abbigliamento)  –  “IN QUESTO NEGOZIO DI QUELLO CHE C’E’ NON MANCA NIENTE”

 

(Abbigliamento bambini)  – “SI VENDONO IMPERMEABILI PER BAMBINI DI GOMMA”

 

(Autofficina)  – “VENITE UNA VOLTA DA NOI E NON ANDRETE MAI PIU’ DA NESSUNA PARTE”

 

(Autofficina)  –  “SI RIPARANO BICICLETTE ANCHE ROTTE”

 

(Ferramenta)  –  “SEGA ADUE MANI E A DENTI STRETTI:  5O EURO”

 

(Lavanderia)  –  “QUI SI SMACCHIANO ANTILOPI”

 

(Sul citofono caserma Carabinieri)  –  “ATTENZIONE PER SUONARE PREMERE, SE NON   RISPONDE NESSUNO RIPREMERE”

 

(Negozio di mangimi)  –  “TUTTO PER IL VOSTRO UCCELLO”

 

 

… MA COME FAREMMO SENZA I NAPOLETANI !!!!!

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Feb 20 2009

Il decalogo del perfetto mafioso

Category: Regno delle Due Sicilie,Società e politicagiorgio @ 08:49

 

I precetti mafiosi secondo Lo Piccolo

Dalla fedeltà all’obbedienza al boss, dalla moderazione nei costumi ad una rigorosa morale sessuale. Ecco il decalogo del “perfetto mafioso”.

Primo comandamento: “Non ci si puo’ presentare da soli ad un altro amico nostro, se non è un terzo a farlo”. 



Secondo comandamento: “Non si guardano mogli di amici nostri”. 



Terzo comandamento: “Non si fanno comparati con gli sbirri”. 



Quarto comandamento: “Non si frequentano né taverne e né circoli”. 



Quinto comandamento: “Si è il dovere in qualsiasi momento di essere disponibile a cosa nostra. Anche se ce (testuale ndr) la moglie che sta per partorire”. 



Sesto comandamento: “Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti”. 



Settimo comandamento: “Si ci deve portare rispetto alla moglie”. 



Ottavo comandamento: “Quando si è chiamati a sapere qualcosa si dovrà dire la verità”. 



Nono comandamento: “Non ci si puo’ appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie”.

Decimo comandamento: è il piu’ articolato e fornisce indicazioni precise sulle affiliazioni, ovvero su “chi non puo’ entrare a far parte di cosa nostra”. L’organizzazione pone un veto su “chi ha un parente stretto nelle varie forze dell’ordine”, su “chi ha tradimenti sentimentali in famiglia”, e infine su “chi ha un comportamento pessimo e che non tiene ai valori morali”.

 

 

Fonte: TGCOM


Feb 20 2009

Quando i normanni conquistarono la Sicilia arrivarono i milanesi

Category: Regno delle Due Siciliegiorgio @ 00:42

 

I fratelli Altavilla sbarcano in Sicilia, chiamati dall’emiro di Catania, impegnato in una sanguinosa guerra con il califfo di Girgenti. 

L’aiuto all’emiro di Catania è solo un pretesto per iniziare la conquista della Sicilia ed essere, nel contempo, considerati i “liberatori” delle residue popolazioni cristiane ancora presenti nell’isola dopo, due secoli e mezzo di dominio musulmano. 

Nel febbraio del 1061, Ruggero organizza uno sbarco a Messina con poco più di un migliaio di soldati. 

Messina cade senza opporre resistenza, per cui i Normanni arrivano facilmente fino a Castrogiovanni e Girgenti. 

Nella primavera del 1062, Ruggero, con truppe fresche, torna in Sicilia con l’intento di occupare l’intera isola.

Un feroce scontro avviene a Cerami, a ovest di Troina. 

Il cronista Goffredo Malaterra riporta che le forze normanne erano esigue. 

Ma Ruggero riesce egualmente a mettere in fuga i nemici. 

I Normanni controllano ormai una vasta zona, da Messina a Troina, dove Ruggero pone la sua capitale isolana e, nonostante i rinforzi saraceni  arrivati dall’Africa, con una serie di impegnative battaglie che vedono cadere una ad una le più importanti città, nell’agosto del 1071 giunge alle porte di Palermo.

L’assedio dura fino al gennaio del 1072, quando Ruggero, con l’aiuto del Guiscardo, riesce a penetrare nella città fortificata e Palermo cade. 

Una messa solenne  di ringraziamento viene celebrata nell’antico Duomo, che per 240 anni era stato una moschea. 

A poco a poco cadono anche Castrogiovanni, Butera ed infine, nel 1091, Noto. 

Occorreranno trenta anni, a Ruggero, per conquistare l’intera Sicilia e le isole di Malta e Pantelleria, il cui possesso renderà sicuri i traffici nel canale di Sicilia e consentirà di avviare scambi commerciali con i paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Con Ruggero, mentre la maggior parte dell’Europa è ancora feudale, si gettano nel Meridione d’Italia le basi di uno Stato moderno. 

Il re non governa più tramite i suoi potenti feudatari, ma tramite i suoi funzionari (burocrati dello Stato e non i potenti signorotti). 

Diversamente dal resto d’Europa, che diventa sempre più intollerante, egli è tollerante con i costumi e le tradizioni greche, latine ed arabe che in quel periodo coesistono nel Meridione, lasciando le proprietà e la libertà di culto.

La conquista normanna trova  un’agricoltura che praticamente non esisteva piu’ e  non  piu’ un grado di  fronteggiare le   esigenze alimentari  della popolazione. 

La Sicilia difatti era un luogo dove venivano a vivere, gli ultimi anni della loro vita i pensionati piu’ eccellenti del mondo islamico di allora, e l’industria piu’ fiorente in Sicilia era diventata quella delle lapidi mortuarie in marmo che venivano imbarcate verso Bagdad con i feretri di questi vecchi quando morivano, incredibile ma vero! 

Nella Sicilia (Scalìa in arabo), che era stata il “granaio Di Roma e del mondo antico”, non si coltivava piu’ ne’ il grano ne’ la vite, ma vi erano stati impiantati distese di boschi di querce da sughero e altri ameni parchi. 

Gli Altavilla percio’ per riportare  in Sicilia un tipo di agricoltura “cristiana” pensarono allora agli agricoltori piu’ avanzati dell’epoca, che erano i longobardi, e ne incentivarono l’immigrazione. 

Di Logobardi ne arrivarono in grande quantità, e numerosi sono ancora ora i siciliani di origine longobarda, tanto è vero che  la Sicilia e’ il posto al mondo dove c’e’ piu’ sangue longobardo, dopo la Lombardia: basta prendere un elenco telefonico di una qualsiasi citta’ siciliana e cercarci: Lombardo. 

Ma ci sono pure i Milana e tanti altri.

Il  ripopolamento,  specialmente con cristiani dal continente europeo, fu promosso e intensificato  da Ruggero I. 

Le zone occidentali della Sicilia furono colonizzate da immigrati della Campania. 

Le zone orientali-centrali della Sicilia furono ripopolate invece da coloni della Padania che importarono la propria lingua gallo-italica. 

Dopo la morte di Ruggero I,  e sotto la reggenza di Adelaide (lei stessa proveniente dall’Italia del nord),  durante la tenera età di suo figlio, Ruggero II, il processo di colonizzazione lombarda raggiunse la massima  intensificazione.


Feb 20 2009

Vedi, anzi, “Vivi Napoli” e poi muri – Anatomia dei napoletani

Category: Monade satira e rattatuje,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 00:11

Divertente   e ironico post trovato su internet, lo dedico alla napoletanità di mia suocera

 

In questo racconto parler di tutte quelle manifestazioni della napoletanità che qualsiasi persona, che decidesse di trascorrere qualche giorno nel paese di una delle più antiche maschere italiane, potrebbe autonomamente constatare.

Per comprendere la napoletanità è necessario capire l’indole del napoletano, ci che lo muove, qual è il suo approccio alla realtà contingente. Va subito premesso che un napoletano non ha, generalmente, un approccio civico nel suo vivere quotidiano. Con questo, s’intende alludere a quello atteggiamento che fa sentire un individuo parte integrante di una comunità e che, se anche non concorre al benessere morale ed economico di tale comunità, perlomeno garantisce un certo e non disprezzabile livello di civile convivenza. Egli invece mostra una spiccata predisposizione ad una forma particolare d’immobilità, cosiddetta dinamica, ed essere mosso da tale stato solo da eventi strettamente contingenti. L’immobilità dinamica può essere spiegata ricorrendo ad un detto tipico partenopeo che sintetizza in maniera impeccabile tale  concetto: facimme a muina (lett. Facciamo la moina). Tale detto dagli studiosi viene fatto risalire ad un comando utilizzato nella règia marina del Regno delle Due Sicilie nel corso d’ispezioni a bordo di navi.

Al comando “facimme a muina” tutti i marinai si mettevano in moto spostandosi da una parte allaltra della nave (chille che stanno ingoppa vanne abbascio, e chille che stanno abbascio vanne ingoppa), non facendo effettivamente nulla, ma dando allesterno una impressione di frenetica ed organizzata attività.

E dare l’impressione di frenetica ed organizzata attività è parte della personalità del napoletano. Ma si badi bene che egli ricorre a tale espediente solo se sollecitato da un evento esterno di controllo. Altrimenti la sua attività è propriamente una siesta perenne.

Il primo evento esterno giornaliero che turba la sua tranquillità è il datore di lavoro, per cui egli è costretto a raggiungere ed occupare il posto di lavoro. Tale adempimento motorio causa un tale stress al napoletano, che non gli consente di iniziare la sua normale attività lavorativa senza prima aver sorseggiato il primo di una lunga serie di caffé ed aver letto con particolare cura il quotidiano locale, a cui si ispira il titolo di tale racconto. L’attività produttiva perlopiù coincide con l’aver raggiunto il posto di lavoro. Forse perché per raggiungere il posto di lavoro egli è costretto ad affrontare, come un torero fa col toro, il traffico cittadino. Ed è con una nota di merito che va detto che in tale tragitto semafori, sensi unici, diritti di precedenza, marciapiedi, pedoni sono solo fastidiosi ostacoli da superare in qualsiasi modo e ricorrendo ad ogni genere di astuzia.

Il semaforo per esempio per il napoletano non rappresenta un mezzo che disciplina la civile convivenza automobilistica. Di fatto rappresenta un abbellimento luminoso e deve essere considerato come un affronto alla propria autonomia motoria. Il semaforo rosso significa via libera, mentre il semaforo verde paradossalmente genera più prudenza.

Riguardo ai sensi unici, l’unico senso unico che esiste qui è quello in cui procede l’autovettura. Il diritto di precedenza poi, non è dovuto ma va conquistato sul campo. Più che altro esiste il dovere di prendersi la precedenza. I pedoni vengono visti come ostacoli da scansare e, a tal proposito, è utile raccomandare che se non si è in ottima forma ginnico-atletica è consigliabile non avventurarsi a piedi nel traffico cittadino. Il pedone infatti, è costretto a vere e proprie acrobazie per superare gli ostacoli più impensabili e per scansare i veicoli. Per par condicio va assicurato che il napoletano a piedi non si discosta molto da quello alla guida: anche per lui non esistono semafori, strisce pedonali, marciapiedi.

La presenza di vigili urbani non attenua in alcun modo la foga degli automobilisti, anzi essi sfruttano questa presenza per compiere i più scorretti atti di prevaricazione del diritto acquisito da altri. Così se ad un incrocio vi è una coda di auto ferma, perché un vigile sta tentando di disciplinare l’alternanza del flusso, immediatamente vi sarà il furbo di turno che, sorpassando la fila, andrà ad occupare la prima posizione.

Tale situazione è abbastanza comune da queste parti, tanto da poter essere considerata una attrattiva turistica. Essa per non spinge il tutore della legge ad intervenire con una salatissima contravvenzione, che, oltre al danno economico, procurerebbe una perdita di tempo, costituendo così un sicuro ed ottimo deterrente per la perenne sterile fretta del napoletano. Il tutore della legge, partenopeo anch’esso, permette all’automobilista scorretto di passare per primo pur di non bloccare il restante flusso di auto. E questo alla bella faccia degli altri. Ci che è più sbalorditivo è che in ogni caso tale situazione non provoca nessuna reazione indignata nei presenti. Evidentemente essi sono consapevoli che la ruota gira ed in futuro saranno loro a beneficiare della magnanimità del vigile.

Un’altra attività in cui si riscontra la prepotenza partenopea, è nella consuetudine locale di fare la spesa. Quando un napoletano fa acquisti s’immerge in un gioco tipo Risiko, in cui il suo obiettivo è Raggiungere il bancone prima di tutti gli altri avversari. Per far ci spinge e si intrufola come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Il grado di strafottenza che viene raggiunto in queste situazioni, è talmente insopportabile che può addirittura far abbandonare il campo a chi non riesce a competere.

Per comprendere le ragioni di tale comportamento, va per detto ad onor del vero che il povero napoletano, sin dalla più tenera età, riceve un’educazione pedagogica che predilige le capacità inventive e di adattamento più complicate e pittoresche, piuttosto che il sano rispetto delle regole. Tali leggi e regole appaiono monotone e frustranti al cospetto del temperamento da cow-boy del napoletano. Egli è educato a cavarsela in qualsiasi situazione agendo in modo più furbo degli altri,. Anche qui esiste una parola giusta che esprime tale capacità: azzimma.

Tale vocabolo sta ad indicare quella furbizia applicata con destrezza e malizia in tutte le situazioni. Tale qualità, invece che avere valenza negativa, da queste parti riscuote invece una tale approvazione che sconfina nell’ammirazione se non nell’invidia da parte dei soggetti meno dotati.

Una delle applicazioni della azzimma è l’inventiva tipica del napoletano: il lavoro, per esempio, quanto non lo si trova ce lo si inventa. Così il parcheggio, se non c’è, lo si inventa, ad esempio parcheggiando al centro della carreggiata.

La continua esigenza del napoletano di esaltare le proprie capacità inventive va naturalmente oltre il mezzo automobilistico ed è attuato nelle forme e nelle situazioni più svariate. Un altro ambiente che fa da sfondo a tali rappresentazioni, talvolta davvero teatrali, è costituito dai mezzi di trasporto pubblico.

Il napoletano usufruisce di autobus e tram liberamente, ma non digerisce quell’inconveniente costituito dall’obbligo di convalida del biglietto. Salire su un tram e vidimare il biglietto, effettivamente genera quel tintinnio da parte della macchinetta, che probabilmente suona alle sue orecchie come una sveglia alla regolarità e questo deve dargli molto fastidio. Il singolo biglietto tranviario in gergo qui è detto abbonamento perché ne basta portare solo uno con sé da custodire in tasca. All’eventuale controllore viene mostrato così com’è, senza vidimazione, come fosse un abbonamento.

Anche in questa situazione si pu ammirare un atteggiamento tipico da parte del controllore. Anziché applicare immediatamente il regolamento ed affibbiare la multa, egli cerca innanzitutto di comprendere le ragioni che non hanno permesso al viaggiatore di vidimare il biglietto. E qui la fantasia si può scatenare: c’è chi mostra lastre mediche accampando che ha la mamma in ospedale (ma non si capisce il nesso con il pagamento del biglietto), c’è chi dice candidamente che ha dimenticato di farlo, ed i più facinorosi arrivano anche a mettere in discussione l’autorità stessa del controllore (mo solo perchè ti si mise o cappiello in capo te cride o patetierno trad. : Ora solo perché hai una divisa ti credi un padreterno). Se l’evasore di turno riesce a tirarla per le lunghe fino alla sua fermata, riesce a farla franca, perché è fatto scendere proprio dove deve arrivare; altrimenti deve accontentarsi di scendere prima. Poco male perché con la stessa faccia tosta di prima è pronto a salire sul mezzo pubblico successivo e ripetere la sceneggiata.

Quello che di solito accade su un autobus introduce ad un’altra particolarità: i napoletani amano coinvolgere chiunque si trovi nei paraggi in quelli che sono anche i più personali dei problemi. Un problema è immediatamente comunicato e fatto condividere alla comunità circostante e questo solo ad fine di mostrare e dipingere la propria sfortuna. Dipingere è la parola da adoperare in questo caso in quanto essi sono artisti nell’affrescare scene di martirio in cui essi stessi sono sempre immancabili protagonisti.

Il napoletano si sente costantemente martire, vessato da tutti e quindi in diritto di reagire con qualsiasi mezzo a tali soprusi. Probabilmente dimentica che, in realtà, è martire solo di se stesso.

Uno dei mestieri più ambiti dal napoletano, è quello del vigile *****. Questo sia perché gli conferisce autorità sul flusso automobilistico, ma soprattutto perché gli permette di lavorare solo poche ore al giorno (quando accade). Il vigile ***** napoletano è un soggetto molto schivo che il turista può vedere solo al mattino, tra le otto e le nove, se s’avvicina a qualche crocevia molto trafficato. Lo si distingue non dalla divisa, che porta molto di rado e malvolentieri, ma dal fatto che ha in mano un block-notes ed una penna, e che tenta di disciplinare il traffico gesticolando e facendo uso del fischietto d’ordinanza. Si parlava della divisa: il vigile ***** non la indossa quasi mai. La spiegazione ad un tale atteggiamento non va ricercate né nella povertà dei sovvenzionamenti comunali, né a più elementari problemi igienici di lavanderia. Dopo numerose e attente osservazioni l’arcano è stato svelato. Tutti i misteri più intriganti e curiosi hanno sempre una spiegazione semplice. Poiché si è detto che un vigile ***** napoletano si distingue dal fatto che è ha un block-notes, una penna, un fischietto e si trova ad un crocevia, di conseguenza allorché vengono meno tali condizioni e cioè che block-notes, penna e fischietto finiscano in tasca ed il suddetto individuo sul marciapiede, ecco trasformato istantaneamente un vigile in un normale cittadino a spasso! In tal modo l’esemplare di vigile napoletano non è più riconoscibile, se non dai suoi consimili, per anch’essi in borghese, e più finalmente dedicarsi a più interessanti e redditizie attività.

In ogni modo ad onor del vero, in altre parole, della congenita strafottenza del napoletano, va assicurato che anche se in divisa è perfettamente capace d’imboscarsi in qualsiasi bar o di dedicarsi alle personali incombenze. La mancanza di divisa per gli consente una maggiore capacità di movimento e soprattutto d’evitare le scocciature che derivano dall’indossarla, qualora un concittadino o un turista avesse bisogno del suo intervento.

La donna napoletana, instancabile generatrice e perpetuatrice della civiltà partenopea, rappresenta un formidabile esempio d’emancipazione femminile. Essa è facilmente distinguibile da alcune caratteristiche che costituiscono quasi un denominatore comune per la fascia tra i tredici ed i quaranta anni. La donna napoletana ama truccarsi con abbondantissimo rossetto trasbordante, colore alla moda, attualmente preferibilmente rosso scuro. Ha una mascella che rumina incessantemente un inesauribile chewing-gum, e tra le dita stringe una sigaretta accesa. I tre elementi citati, in tutte le culture occidentali, hanno rappresentato e sono stati abusati dalle donne come simbolo d’emancipazione femminile. Oramai per si può constatare il loro declino o, in ogni caso, che sono usati per la funzione che gli è propria e non più come status symbol. Da queste parti invece sono ancora attuali. Un’altra caratteristica dell’emancipazione femminile è la rozzaggine sia linguistica sia di comportamenti che le donne napoletane esibiscono nel vivere quotidiano che davvero fanno concorrenza ai modi dei corrispettivi uomini partenopei.

Utili esempi sono già stati in precedenza descritti a proposito di mezzi pubblici e di supermercati, ma ne esistono degli altri altrettanto spettacolari. Per esempio, il citofono (a proposito da queste parti è protetto da una griglia di ferro contro le altrimenti inevitabili vandalicherìe) è uno strumento inutilizzato. Ci che normalmente è usato dalle donne napoletane è il citofono viva voce: per comunicare all’esterno si usa la finestra o il balcone, da cui si urla per chiamare un figlio, per parlare con un conoscente, per comunicare con passante, per colloquiare con le coinquiline.

Il gergo utilizzato dalle donne napoletane, come detto non da meno di quello degli uomini, è costellato di volgari intercalari e fa rabbrividire ed arrossire chi è uso ad un vocabolario di stampo più classico. Si potrebbe obiettare che forse sono solo le classi meno acculturate ad utilizzarlo, e di questo parere era anche chi scrive, ma esperienze dirette hanno dimostrato il contrario. Signore ben vestite ed all’apparenza raffinate, che accidentalmente si urtano, anziché porgersi le reciproche scuse, vengono facilmente alle parole grosse sviluppando una sequela singolare di contumelie e maledizioni, che partendo dagli avi più lontani ripercorrono tutte le generazioni fino alle presenti ed alle possibili future, con ampi riferimenti ad attività peripatetiche svolte dalla rivale e conseguente titolo onorifico del di lei marito, fino a concludersi con un perentorio invito a recarsi in un posto, facilmente intuibile, che da queste parti deve essere affollatissimo, non tanto per le persone che ci sono, quanto per quelle che ci mandano.

Un’altra regola della sana convivenza cui il napoletano non è avvezzo, è quella dell’utilizzo del cestino e del cassonetto per i rifiuti. Così mozziconi di sigarette, relativi pacchetti vuoti, fazzoletti di carta, buste e cartacce d’ogni genere, non vedono migliore sorte che finire in terra. I cassonetti, tutti inesorabilmente scoperchiati, sono utilizzati a mo’ di bersagli. Con questo voglio riferirmi ad un’altra usanza locale consistente nella pratica di gettare l’immondizia domestica dal balcone. Non sempre per la mira è felice con conseguenze facilmente immaginabili per l’igiene della zona. Per il turista non è facile assistere ad una tale esibizione, dato che solitamente è praticata a tarda sera.

A fronte di tanta poca pulizia cittadina si potrebbe pensare ad un numero insufficiente di operatori ecologici. Ebbene, questa città ha il numero più elevato di spazzini! Ovviamente è inutile ricordare che il lavoro non è svolto quotidianamente, ma quando fa più comodo. Quando vi è nell’aria un’ispezione, si può assistere ad uno spettacolo unico. Per le vie cittadine decine di operatori ecologici, tutti ovviamente senza tuta da lavoro (per le stesse ragioni dei vigili urbani), si dividono ogni singola strada. Ciascuno si occupa di scopare una striscia di marciapiede. L’attrezzatura di lavoro non è quella cui siamo abituati: carretto con bidone, paletta e scopa. Molto più spartanamente consiste di scopa, un cartoncino per raccogliere i rifiuti ed uno scatolone per contenerli. Una volta pieno, lo spazzino napoletano svuota il suddetto scatolone nel primo cassonetto che trova nei paraggi. In una giornata ventosa, dopo qualche minuto, tutto ci che ha raccolto è nuovamente disperso nei paraggi. Ma questo deve importargli poco. L’essenziale non è il risultato, ma svolgere la mansione.

Un’altro mestiere che da queste parti fa campare moltissima gente è quello del cantante. Il cantante partenopeo ha un look estremamente pittoresco: capelli ingelatati abbondantemente, camicia aperta sul petto (preferibilmente villoso) su cui spicca una vistosa collanona, pantaloni in pelle, anelli tipo C****ttiera.

Il cantante napoletano ama esibirsi dappertutto ma soprattutto scorazza nelle numerose TV locali dove è possibile seguirlo in modalità non-stop 24 ore al giorno. Ritengo che qualsiasi persona dotata di un minimo di intonazione possa intraprendere proficuamente la carriera di cantante napoletano purché per segua tre semplici regole: innanzitutto, cantando, occorre assumere un atteggiamento quasi estatico; quindi fare assumere alla voce quella tipica melodia nasale qui detta a fronne e limone (trad. a rami di limone, ma non chiedetemi perché dicono così); infine, occorre che l’argomento della canzone sia trappa-lacrime e tratto dal di qui vivere quotidiano. Eccellenti soggetti sono: figlio/padre/fratello che va in carcere; figlio e/o figlia che scappa via di casa; fidanzata/moglie che ha messo le corna al titolare della canzone; e chi più ne ha più ne metta. Una canzone napoletana pu essere definita una sceneggiata napoletana sintetizzata e messa in musica. La sceneggiata napoletana non è altro che la rappresentazione della realtà quotidiana dei bassi strati sociali del luogo, in cui essi trovano in essa conforto e riscontro mitizzato. Ne consegue che il napoletano, abituato a rispecchiarsi nelle canzoni che ascolta, finisce per convincersi della sua eroicità quotidiana, di quanto sia vessato dallo stato, dagli altri… Ma questo è un argomento già trattato.

Da quanto detto appare evidente il significato del detto vedi Napoli,  e poi muori: ovvero più in basso di così non si può andare !

Fonte: N.R.


Feb 19 2009

FACITE AMMUINA

Category: Regno delle Due Siciliegiorgio @ 22:27

REGNO DELLE DUE SICILIE

COLLEZIONE DEI REGOLAMENTI  DELLA REAL MARINA

ANNO 1841   N. 266

(N. 6976)  Regolamento da impiegare a bordo dei legni e dei bastimenti della Real Marina Napoli

20 Settembre 1841

Capitolo XIX

Art. 27 –FACITE AMMUINA

All’ordine ‘facite Ammuina” tutti chilli che stanno a prora, vann ‘a poppa e chilli che stann’a poppa vann’a prora; chilli che stann’a dritta vann’a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann’a dritta; tutti chilli che stanno abbascio vann’ncoppa e chilli che stanno n’coppa vann’abbascio, passann’tutti p’o stesso pertuso; chi nun tiene nient’a ffa, s ‘aremeni a ‘cca e a’lla.

Ordine: “FACITE AMMUINA!

N.B. : da usare in occasione di visite a bordo delle alte Autorità del Regno.

IL MARESClALLO IN CAPO DEI LEGNI E DEI BASTIMENTI DELLA REAL MARINA”

Amm. Giuseppe di Brocchitto

(dall’archivio storico della Marina Militare)

.

Un falso quasi storico

Sebbene il facite ammuina non nasca affatto da un regolamento della marina borbonica, esso trae origine da un fatto storico realmente accaduto (anche se dopo la nascita della Regia Marina italiana).

Un ufficiale napoletano, Federico Cafiero (1807 – 1889), passato dalla parte dei piemontesi già durante l’invasione del Regno delle Due Sicilie, venne sorpreso a dormire a bordo della sua nave insieme al suo equipaggio e messo agli arresti da un ammiraglio piemontese, in quanto responsabile dell’indisciplina a bordo. Una volta scontata la pena, l’indisciplinato ufficiale venne rimesso al comando della sua nave dove pensò bene di istruire il proprio equipaggio a “fare ammuina” (ovvero il maggior rumore e confusione possibile) nel caso in cui si fosse ripresentato un ufficiale superiore, con lo scopo di essere avvertito e contemporaneamente di dimostrare l’operosità dell’equipaggio.


Feb 19 2009

Nel 1861 non conosceva l’emigrazione poi vennero i Savoia

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 20:47

 

Il Genocidio del Sud

Lettera aperta al Presidente della Repubblica italiana Dott. Azeglio Ciampi 



 

Sig. Presidente, 


La rivendicazione degli ebrei all’ottenimento del rispetto universale, parte dai terrificanti numeri dei morti deportati dell’olocausto. Terrificanti e raccapriccianti per l’entità. Qui si parla di milioni; non di bruscolini ma di esseri umani. E tutta l’umanità riconoscendo la giustezza delle rivendicazioni ebraiche si schiera dalla sua parte, giustamente, ricercando, nei limiti del consentito, i risarcimenti possibili (oltre la caccia agli ultimi carnefici sopravvissuti).

 

Lei si sta accingendo a compiere il viaggio della memoria nelle terre dei re chiamati Galantuomo, Buono, Soldato, perché una agiografia e storiografia di parte e una scuola di regime hanno fatto credere a milioni di italiani che la casta sabauda fosse fatta di Galantuomini, di Buoni e di Soldati. Le cose non stanno così purtroppo. 

 

Per quanto riguarda la questione Savoia il ragionamento dovrebbe essere analogo a quello degli ebrei. A condizione che si possano conoscere i numeri riguardanti: 

 

1) i morti procurati al Sud con l’invasione barbarica del 1860, quella piemontese appunto; i deportati, i torturati, i fucilati o fatti morire di fame, di freddo e di stenti nei dieci anni e passa di repressione fatta chiamare dal re Galantuomo Vittorio Emanuele II repressione del brigantaggio. Secondo La Civiltà Cattolica del tempo i morti furono assai maggiori dei voti del plebiscito. A conti fatti, più di un milione 

 

2) i beni depredati al Sud e trasportati nel Piemonte: ricchezze finanziarie, culturali, sociali, sottratte con la forza dai vincitori 

 

3) gli emigranti diasporati in tutto il mondo per sfuggire alle persecuzioni , alla fame, alla miseria e all’oppressione delle orde piemontesi. Sono 25 milioni Sig. Presidente. Emigrazione biblica dei duosiciliani dopo il nefando 1861 ( medie annue: dal 1863 al 1880, 110.000; fino al 1900, 310 mila; fino al 1905 , 554.000; fino al 1913, 811.000), poi i nostri compatrioti divennero carne da cannone per la prima guerra mondiale ( il Sud ebbe 350 mila morti ) e per la seconda guerra mondiale ( il Sud ebbe 210 mila morti ) dopo quest’ultima guerra sono stati cacciati dal Sud altri 5 milioni di persone e l’emorragia continua con 100.000 nostri connazionali costretti ad emigrare nell’anno corrente. Una vera vergogna per l’Italia repubblicana e democratica. Uno stillicidio. Una diaspora che nemmeno gli ebrei hanno avuto. 

 

4) miliardi incalcolabili di dollari, sterline, pesos, bolivars, escudos, marchi, franchi procurati ai boiardi liberali, capitalisti e massoni del Nord, nell’arco di un secolo ed oltre da chi prima del 1860 non conosceva cosa fosse l’emigrazione, gli emigranti meridionali appunto. Le rimesse degli emigranti, sicuramente più voluminose del Vesuvio, dell’Etna e dello Stromboli messe assieme, sono finite tutte nelle tasche dei predoni cispadani, totali detentori dei mezzi di produzione. Il Sud, privilegiato bacino di mercato dei magnaccia del Nord liberale, liberista e piduista, condannato soprattutto alla disacculturazione più feroce, sta leccandosi ancora le ferite inferte dalla bestialità savoiarda. 

 

5) i morti delle guerre coloniali; i morti contadini ed operai nelle varie repressioni a favore del capitalismo liberista ( cattolici, socialisti, comunisti, borbonici, papalini uccisi dai vari Fumel, Della Rocca, Pinelli, Bixio, Bava Beccaris, Lamarmora ecc ecc); quelli procurati dalle cannonate sulla Sicilia nel 1866, quelli dei fasci sicliliani, quelli di Milano con il criminale Bava Beccaris su ordine del re Buono e quelli della Prima e Seconda guerra mondiale per colpa del re soldato detto pippetto. Se qualcuno vuole dare i numeri è libero di darli ma dovrebbe riuscire a dare quelli su richiamati. E se ci riuscisse farebbe un buon servigio al popolo Meridionale e scoprirebbe che le cifre vanno ben oltre quelle, maledette dell’olocausto. 

 

I piemontesi furono degli assassini spietati, invasero il Regno delle Due Sicilie a tradimento e senza dichiarazione di guerra; rasero al suolo 54 paesi, incendiarono villaggi, bruciarono i raccolti dei contadini per anni, scannarono armenti e bambini, donne, vecchi. Il generale Pinelli negli Abruzzi incendiò 14 paesi in pochi giorni, Bixio eseguì 700 ( settecento) fucilazioni di contadini ed operai con l’assenso dei Savoia. Vi furono eccidi disumani, tremendi, barbari, truculenti. Quegli assassini dei fratelli d’Italia cominciarono a Genova nel 1849 ove il generale Lamarmora soffocò nel sangue il rigurgitare repubblicano dei genovesi, ne morirono circa 700 e la città messa a sacco e fuoco, la violenza dei bersaglieri i liguri se la ricordano ancora. Poi il garibaldino Bixio su ordine del suo generale pirata dei due mondi massacrò i siciliani a Bronte, Recalbuto, a Linguaglossa, e in tutta la fascia etnea, il tutto coordinato dal console inglese che stava a Messina e in nome dei Savoia. 
Gaeta, simbolo del martirio del Sud fu sprofondata da 160 mila bombe dal generale Cialdini, ritenuto macellaio dal popolo del Sud. Gaeta fu rasa al suolo e i morti furono migliaia, sia civili che militari; i gaetani, dopo l’assedio chiesero i danni di guerra al governo torinese, stiamo ancora aspettando quei soldi, due milioni di lire del 1861. Noi li vogliamo. Se questa repubblica, ha ereditato quella italietta artificiale dai Savoia che paghi Sig. Presidente. 

 

Gli eccidi si susseguirono senza soluzione di continuità per oltre dodici anni; gli stati d’assedio erano la regola dei Savoia per scannare i nostri compatrioti Meridionali; la Legge Pica emanata nel 1863 è stata la legge più infame che un parlamento avesse potuto emanare, sotto l’egida savoiarda. Con quella legge furono istituiti tribunali di guerra in tutto il Sud, i soldati avevano carta bianca, le fucilazioni erano cosa ordinaria e non straordinaria. A causa di quella legge furono fucilati vecchi di 90 anni e bambini di dieci e dodici anni. Eccidi vi furono a Vieste, a Venosa, a Bauco, ad Auletta, a Gioia del Colle, a Sant’Eramo, a Pizzoli, a Pontelandolfo e Casalduni ove il generale Negri su comando di Cialdini arrostì e fucilò quasi mille persone; a Nola il generale Pinelli fece fucilare 232 paesani; a Montefalcione fu ecatombe, a Montecillone pure; a Teramo in una settimana furono trucidati 526 contadini; a Isernia i garibaldini ne trucidarono altri 1500; in Basilicata i morti non si contarono, solo il cielo sa quanti furono, in Calabria il generale Gaetano Sacchi fucilò a centinaia i calabresi paesani fino al 1870 e passa, il generale Fumel in un memoriale disse di aver fucilato almeno trecento tra briganti e non briganti; il generale Della Rocca disse che i suoi ufficiali fucilavano solo i capi dei briganti (come venivano chiamati i nostri patrioti e partigiani), e siccome erano migliaia le fucilazioni telegrafava a Torino dicendo di aver fatto fucilare uno,due tre sessanta capi briganti; in Sicilia vi furono migliaia di morti, nel basso Lazio, nel beneventano, nel Molise, nell’avellinese, in Capitanata. 

 

La nostra terra è inseminata di croci, di morti senza nome. Non vi fu villaggio non insozzato dalle orde piemontesi. A Gaeta, nel 1960 trovarono una foiba con duemila morti fucilati sullo spiazzo di Montesecco, li ricordava una stele, una piramide tronca, anche quella è sparita, la gente non deve ricordare, Cavour diede ordine a Cialdini di sparare cannonate anche dopo l’armistizio, durante l’assedio di Gaeta. I piemontesi si comportarono da veri assassini e criminali di guerra. Sig. Presidente, ci fa piacere che stia ricordando agli italiani di San Martino e Solferino dove i francesi si comportarono da eroi, in cambio vollero Nizza e la Savoia e i nostri statisti, ritenuti sommi, li accontentarono. Per molti quegli statisti furono solo dei traditori della patria. Vendettero la moglie al diavolo. 
Ci fa piacere Sig. Presidente, veramente. Il Sud si rallegra di questo, capiamo la sua voglia di unire la Patria sotto un inno nazionale che non capiamo, sotto una bandiera tricolore a cui abbiamo giurato fedeltà e che rispettiamo comunque; tre colori: verde uguale a prosperità dei padani, bianco come la neve delle alpi, rosso come il sangue versato dai meridionali durante la costruzione artefatta di questa Italia che amiamo tanto. I secessionisti hanno tentato la fuga, lo sappiamo. 
L’Italia era costituita da sei staterelli poveri, e da un grande Stato, il Regno delle Due Sicilie, ricco e prospero ove non si conosceva l’emigrazione e la disoccupazione era parola sconosciuta. Per Noi Meridionali l’Italia è nata il 2 giugno del 1946 e in quel giorno nacque il patto tra Nord e Sud che ormai sembra scemare. Non per colpa Nostra. Il Risorgimento piemontese e nordista non ci appartiene, quella genia di malfattori siano incensati da altri. 

 

Lei Sig. Presidente deve essere Super Partes, Noi non possiamo santificare chi ha commesso eccidi nefandi, chi ha derubato il Sud di tutto, chi ha commesso crimini contro l’umanità. È contro la storia, è contro il nostro essere Meridionali. 
Il Sud, nella sua memoria storica ricorda gli eccidi piemontesi, ricorda le stragi, ricorda i crimini commessi in nome e per conto dei Savoia e si sente offeso quando gli si vuole imporre una storia non veritiera; la gente del Sud ribolle rabbia quando gli si ricorda dei Savoia o dei nazisti. 

 

Cavour, Garibaldi, Vittorio Emanuele II di Savoia non sono i nostri eroi Sig. Presidente, non si può far studiare nelle scuole che quei signori ci hanno liberato dalla barbarie e dal tiranno, la ragione è solo una, tiranni e criminali erano loro, i savoiardi appunto. Il Sud era industrioso, laborioso e soprattutto pacifico, mai i nostri governati han dichiarato guerre ad alcuno. Da noi si costruì la prima ferrovia d’Italia, le prime navi a vapore e in ferro, da Noi vi erano le più grandi fabbriche d’Italia…. 

…. da noi vi era lo stabilimento di Pietrarsa, quello della Mongiana o i cantieri navali di Castellammare, da noi vi erano fabbriche di tessuti, di specchi, industrie metallurgiche; vi lavoravano 1,600,000 persone e da Noi vi era un’agricoltura fiorente all’avanguardia; da Noi vi erano banche dei Merdionali, società di assicurazioni, società di mutuo soccorso; da Noi vi erano capitali; da noi nacquero le prime comunità di tipo collettivo e le prime case per gli operai; da noi venne introdotta, per prima, la pensione ; da Noi vennero inventati gli assegni bancari; da Noi scomparì per prima la povertà: si costruirono gli alberghi dei poveri per dare loro un riparo ed un mestiere. 
Da Noi arrivò il gas nel 1836 e nel 1852 il telegrafo elettrico, primissimi in Italia; da Noi la terra fu tutta bonificata e data ai contadini del Sud, ciò che non fecero i sabaudi prosciugando parte della pianura pontina che regalarono ai veneti e friulani mentre i nostri contadini erano costretti all’emigrazione. Tutto questo è stato distrutto dai savoiardi. 


 

Noi siamo un popolo civile Sig. Presidente, l’annessione dell’Italia, quella vera, quella della civiltà, quella di Archimede, di Parmenide, di Zenone, di Epicuro, di Pitagora) operata dalle orde barbariche delle ex province di Roma, secondo alcuni storici ha dato vita all’unità. L’unità d’Italia fatta dai Galli. Incultura o dabbenaggine? L’Italia di Pitagora, quella dei numeri, è stata cancellata dalle menti di certi meridionali e dai cuori dei felloni, ne hanno fatto uso i Crucchi e i Longobardi che sanno fare bene i loro conti, sempre pagati dal Sud. 
Vi è stato sempre chi ha creduto nelle favole, come certo Mussolini, stampella dei Savoia e del vapore padano, che avendo chiamato i veri italici a difendere la patria nell’ora della pugna e del pericolo, se li vide arrivare in Sicilia, ad Anzio e a Salerno. Tutti figli dei diasporati in America dai Savoia. Arrivarono eccome gli italici! E Sciaboletta fuggì, come si conviene ad un re Savoia. Lei Sig. Presidente ha sofferto la fuga del Savoia infingardo, l’hanno sofferta milioni di italiani, milioni di europei, milioni di americani, australiani, neozelandesi, africani. L’Italia ridotta a maceria, alla fame, all’emigrazione. 

 

Sig. Presidente, 
A Sand Creek gli americani assassinarono 165 Cheyenne ed Aràpaho ma dopo 136 anni, sentendo i lamenti di Antilope Bianca, di Donna Sacra e di Pentola Nera massacrate sulle rive di quel di torrente di sabbia il Congresso americano ha sentito il dovere di approvare all’unanimità l’erezione di una stele che ricordasse al mondo tale nefando eccidio. Non fu certo l’unica strage perpetrata dai soldati blu americani quella di Sand Creek e il lontano west oggi è pieno di stele e monumenti che ricordano le barbarie commesse per costruire quel gigante economico che è oggi l’America. 

 

Lei sta visitando i luoghi e i siti cari alla leggenda risorgimentale: San Martino, Solferino, Novara, Goito, Torino, le case dei cosiddetti padri della Patria per infondere negli italiani l’amore per la bandiera, per l’inno nazionale, per unire gli italiani. Fa bene Sig. Presidente, glielo diciamo col cuore. 
Nel 1860 l’Italia il Regno delle Due Sicilie era il più ricco tra gli Stati italiani, il suo debito pubblico era tenuissimo, la sua riserva aurea pari al doppio di quelle degli altri stati della penisola messi assieme. Il Tesoro italiano, costituito nel 1861, era di 668 milioni di lire di cui 443 appartenevano al Reame e solo 8 alla Lombardia e 27 al Piemonte che ci lasciò un debito pubblico di oltre un miliardo di allora, debito che il Sud sta ancora pagando con lacrime e sangue. Nel vituperato regno dei Borbone non esisteva quasi la disoccupazione, la povertà era stata estirpata, i poveri censiti  messi nei vari alberghi dei Poveri a imparare un mestiere e l’emigrazione era parola inesistente nel vocabolario delle nostre popolazioni. Il primo ad emigrare fu Francesco II di Borbone che il 14 febbraio del 1861 dopo aver difeso la sua patria fino alla morte, da vero eroe dovette andare in esilio a Roma, ospitato dal papa nel palazzo ove Lei oggi risiede, e fatto morire all’estero dai Savoia. 


 

Sig. Presidente, 

per dodici anni il Sud fu immolato alla causa dell’Italietta artificiale ed artificiosa dei Savoia, i Meridionali trattati da quegli assassini dei fratelli d’Italia come maiali da appendere e spennare. Un grande meridionalista di nome Antonio Gramsci, il cui padre era di Gaeta che conoscendo a menadito la storia ebbe a dire che Lo Stato italiano (leggasi sabaudo) è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti. 

 

I veri briganti erano loro, i Savoia. Il Sud divenne un inferno, il Piemonte era stato delegato dalle potenze di allora a creare una borghesia vorace, liberale, senza scrupoli. A spese del Sud. Il Piemonte accentrò il potere, l’economia, annullò l’autonomia impositiva dei comuni; annullò tutte quelle istituzioni, sia pubbliche che religiose, che per secoli avevano consentito un equilibrio unico al mondo, che consentiva ai deboli di difendersi dai soprusi dei ricchi; annullò l’ordinamento fiscale in vigore nel Reame dei Borboni ritenuto il migliore del mondo; annullò lo stato Sociale del Sud e che i Borbone avevano eletto a patrimonio morale; annullò la libertà e impose gli stati d’assedio perenni, negò la libertà di stampa facendo chiudere tutti i quotidiani di opposizione. Il Piemonte, grazie alla vendita dei beni ecclesiastici e demaniali espropriati alla comunità incamerò centinaia di miliardi che hanno sostentato l’industria del Nord; il Piemonte con le leggi protezionistiche a danno del Sud decretò la morte del sistema industriale meridionale. 

 

Sig. Presidente, 

per oltre un secolo scrittori salariati e storici infami di regime hanno denigrato il Sud e i Borbone…
tanto che la parola borbonico nell’accezione imperante è diventata sinonimo di arretrato, di inefficiente. Quei signori prezzolati , pennivendoli di parte, hanno infangato la Nostra terra, un Regno in salute, efficiente, ricco e prospero; quei signori hanno infangato la sua amministrazione, la sua efficienza amministrativa e tributaria, hanno infamato i contadini del Sud chiamandoli briganti, la sua storia. È ora di rendere giustizia al Sud. 

 

Sig. Presidente, 
il Sud sta prendendo coscienza del suo male, l’Italia potrebbe dividersi veramente se non si mette fine ad una divisione di fatto, quella operata dai Savoia nel 1861. Il pericolo non è Bossi che siede da ministro tra gli scranni governativi, il pericolo viene dal Sud, dal Sud martoriato da 140 anni di bugie risorgimentali, da quel Sud scannato e colonizzato dai piemontesi. Al Sud sta nascendo un partito che vuole giustizia dei torti subiti dalle orde savoiarde, che vuole giustizia dei suoi morti, delle ruberie perpetrate ai suoi danni, dei danni di guerra ancora non pagati, dei demani messi in vendita dai vari governi per far fronte alla voragine debitoria del Paese. Non possiamo avere strade e piazze intitolate a Cavour che fece radere al suolo intere città mietendo migliaia di vittime, non possiamo avere strade e piazze intitolate agli infingardi Savoia e ai loro generali macellai e criminali di guerra che scannarono le nostre popolazioni. Questo è colonialismo puro. Il Sud vuole riappropriarsi della sua storia, delle sue ricchezze depredate, delle sue tradizioni, della sua bandiera da esporre a fianco di quella italiana, come avviene in tutto il mondo civile. In America accanto alla bandiera a stelle e strisce, in tutti gli uffici pubblici degli stati confederati, vi è quella del Dixie, cioè la bandiera degli stati del Sud sconfitto. 


 

Sig. Presidente, 

la invitiamo a Gaeta, città simbolo del Sud martoriato, città ove è nata quell’Italia artificiale; anche i nostri morti vogliono essere ricordati con pari dignità, i nostri eroi vogliono essere ricordati e riconosciuti dalla massima autorità dello Stato, come quelli di Novara, di Solferino. Perfino i repubblichini di Salò sono stati legittimati, forse anche loro combattevano per una patria serva dei tedeschi, molti erano in buona fede , altri no. 

 

La cittadina tirrenica è ancora un cimitero senza croci dopo 140 anni, le cannonate dei Savoia le sentiamo ancora, l’assedio di Gaeta grida vendetta; venga al Sud Sig. Presidente, venga a Pontelandolfo e Casalduni, venga a a Montefalcione, a Nola, a Isernia, a Bronte. 


Il Sud intero aspetta una Sua autorevole visita nei luoghi della Nostra memoria; venga a visitare le mille città meridionali immolate al Risorgimento piemontese e savoiardo. Ognuno, sotto un’unica bandiera innalzi monumenti ai propri eroi, intitoli loro piazze e strade. Un giorno potremmo cancellare le lapidi intitolate ai vari Garibaldi e ai vari felloni che strangolarono e divorarono il Sud, non possiamo assistere al ritorno di quelle ideologie del Nord che hanno infamato l’Italia, non possiamo assistere allo spettacolo pietoso di immoralità che pervade la nostra patria, allo spettacolo vergognoso di pregiudicati che siedono sugli scranni del parlamento italiano, questo non succede nemmeno nelle Repubbliche delle Banane e il mondo ci schifa, ci rifiuta. 

 

Sig. Presidente,
La imploriamo da italiani veri, venga a Gaeta a rinsaldare i veri valori italici; i nostri soldati, morti da veri eroi sulla fortezza ove si fece l’Italia, aspettano una parola, un conforto, aspettano soprattutto giustizia. L’Italia non sia più matrigna ma madre di tutti. 


Noi non odiamo il tricolore, vogliamo veramente una Italia unita, vogliamo veramente una economia unita; non più ricchezza solo al Nord, non più banche strozzine nei confronti del Sud; non più razzismi; non più emigrazione; non più disoccupazione; chiediamo solo lavoro, salute, ospedali, scuole, infrastrutture come chiediamo una programmazione scolastica degna di una nazione civile. Il Congresso americano non si è vergognato di chiedere scusa agli indiani per gli eccidi commessi, ma oggi l’America è una sola nazione, il suolo americano ritenuto sacro da tutti, sia dagli indiani che dagli invasori europei, dagli italiani fatti emigrare dai Savoia come dagli spagnoli e portoricani. Quando andrà a visitare Torino vada a visitare anche il carcere lager di Fenestrelle, quello di San Maurizio e quello di Alessandria, vi morirono 56 mila soldati napolitani che non vollero tradire il giuramento fatto alla loro bandiera e al loro re. 

 

Sig. Presidente, 
esiste in Italia una realtà territoriale senza territorio, come l’isola che non c’è di Peter Pan abitata da amebe che, nell’ignavia più totale, lasciano che la catastrofe socio-economica si consumi fino in fondo, conservando, comunque, sentimenti patriottici che vedono deperire il territorio all’ombra del tricolore italiano. Il demanio intende vendere la nostra storia al miglior offerente e dalle nostre parti il miglior offerente è quasi sempre la Camorra, i nostri legislatori han messo in vendita tutte le batterie borboniche, strade, castelli, caserme. Il Piemonte invece incassa 606 miliardi per riattare i suoi siti storici. Questo è colonialismo. Gaeta deve pagare il pizzo allo Stato per far passeggiare i suoi abitanti, per far studiare i suoi figli, da Noi tutto è demaniale e mentre i Borbone pagavano al nostro comune 5 grana al giorno per ogni militare di stanza sul suolo della nostra comunità i Savoia hanno preteso una tangente fissa che si continua a pagare. 


Gaeta è città piena di storia, anello di congiunzione tra Nord e Sud, pur avendo avuto per oltre un millennio una sua moneta, leggi proprie veramente federaliste, un governo democratico, navigatori come Giovanni Caboto ed Enrico Tonti che esportarono democrazia e leggi del Ducato di Gaeta (vera repubblica marinara) nelle lontane Americhe, una Città-Stato che ha avuto un ruolo rilevantissimo e determinante nella battaglia di Lepanto ( di cui conserva lo Stendardo). La battaglia che insieme a quella di Poitiers ha permesso di salvare la Civiltà Occidentale, Cristiana, Umanista e laica di stampo Greco-Romana si trova nella grottesca situazione per cui, chissà a quale misterioso sortilegio, le sue strade, le sue piazze, le sue scuole, la Casa comunale, i suoi litorali, i suoi castelli, i suoi palazzi, le sue montagne e quant’altro risultano proprietà dello Stato. 

 

Alle soglie del 2002 d.c., mentre troppi, salvo Lei Sig. Presidente della Repubblica italiana che perora la Causa Costituzionalmente sancita del decentramento, si sciacquano la bocca con la parola federalismo e fanno gargarismi con la locuzione autonomie locali, ci troviamo a Gaeta ancora in presenza dell’occupazione sabauda operata dal generale Cialdini, il quale completava il disegno colonialista portato avanti in Italia dai Savoia. La continuazione di tale nefanda situazione a quale ragionevole reazione dovrebbe condurre un cittadino di questa plaga così umiliata nella sua storia, nelle sue radici culturali? Deve invocare il federalismo o la secessione per riscattare la propria dignità? Noi siamo per un confederalismo serio, che dia a Gaeta e a tutte le città del Sud il maltolto e la propria storia. Confidiamo in una sua risposta positiva alla richiesta di invito del Partito del Sud per ristabilire la verità storica e il dovuto tributo ai nostri morti. Viva l’Italia, viva il tricolore, viva la bandiera del Sud.

 

Fonte: da  IL PARTITO DEL SUD  -ANTONIO CIANO- 
Via Piave, 15 – Gaeta  (LT)


Feb 19 2009

L’ olocausto di casa nostra

Category: Regno delle Due Siciliegiorgio @ 19:06

 

Appunti sull’ olocausto del popolo del Regno delle due Sicile

 

“Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in grande quantità, si stipano ne’ bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi si mandano in Genova. 

Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di que’ spettacoli che lacerano l’anima.  

Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi nelle carceri di Fenestrelle: un ottomila di questi antichi soldati Napoletani vennero concentrati nel campo di S. Maurizio”

Fonte: Fulvio Izzo,  da – I lager dei Savoia.

 

«Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti, ma i padri di quei briganti hanno riportato due volte i Borbone sul trono di Napoli. 

E’ possibile, come il governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati da due o tre vagabondi tengano testa a un esercito regolare di 120.000 uomini? 

Ho visto una città di 5000 abitanti completamente distrutta e non dai briganti» 

(Ferrari allude a Pontelandolfo, paese raso al suolo dal regio esercito italiano il 13 agosto 1861)”.

Fonte: Deputato Ferrari, Novembre 1862 – Aula dei Deputati.

 

“Contro la duplice oppressione cui li hanno sottoposti in questi cinquant’anni di unità politica i “galantuomini” locali e l’industrialismo settentrionale, i “cafoni” meridionali hanno reagito sempre, come meglio o come peggio potevano. 

Subito dopo il 1860 si dettero al brigantaggio: sintomo impressionante del malessere profondo che affaticava il Mezzogiorno, e nello stesso tempo indizio caratteristico del vantaggio che si potrebbe ricavare – quando ne fossero bene utilizzate le forze – da questa popolazione campagnola del Sud, che senza organizzazione, senza capi, abbandonata a se stessa, mezzo secolo fa tenne in scacco per alcuni anni tanta parte dell’esercito italiano”.


Fonte: srs Gaetano Salvemini

 

«sessanta battaglioni e sembra non bastino»: «Deve esserci stato qualche errore; e bisogna cangiare atti e principii e sapere dai Napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o no… agli Italiani che, rimanendo italiani, non volessero unirsi a noi, credo non abbiamo diritto di dare delle archibugiate».

Fonte: Massimo D’Azeglio nel 1861 si domanda in aula come mai «al sud del Tronto» sono necessari

 

«Desidero sapere in base a quale principio discutiamo sulle condizioni della Polonia e non ci è permesso discutere su quelle dei Meridione italiano. E’ vero che in un Paese gl’insorti sono chiamati briganti e nell’altro patrioti, ma non ho appreso in questo dibattito alcun’altra differenza tra i due movimenti».

Fonte: Disraeli ex cancelliere dello Scacchiere (e futuro primo ministro), alla Camera dei Comuni di Londra, nel 1863- da http://digilander.libero.it/fiammecremisi/briganti.htm

 

“Dal 1861 al 1865 la ribellione sociale del mezzogiorno d’Italia cosò la vita a 5212 “briganti”. Altri 5044 furono arrestati e, assieme ai 3597 “consegnati” 

Fonte: Controstoria dell’Unità d’Italia, di Gigi Fiore

 

“Si è sempre creduto che le uniche colpe di cui si coprirono gli ignobili Savoia, fossero riconducibili alle 2 guerre mondiali, l’uso di armi chimiche nelle guerre coloniali e non solo, la firma delle leggi raziali ed il fascismo. Ma i Savoia fecero di molto peggio. Durante e dopo l’annessione del Regno delle due Sicilie si manifestò un problema inaspettato. I soldati Borbonici rimanevano fedeli al loro re e visto che per motivi di immagine non potevano essere massacrati sul posto, si decise di allestire per loro una SOLUZIONE FINALE. 

Furono trasferiti al nord tra milano genova e torino in appositi CAMPI DI CONCENTRAMENTO, con una sola certezza, dovevano entrarci in piedi ed uscirci stesi. L’italia era ormai unita e quelli erano italiani, ma italiani di serie B. Solo la fortezza delle finestrelle, ora emblema del Piemonte e di Torino, ingoiò tra 25000 e 50000 soldati Borbonici, risputandone solo i corpi esanimi. Il numero ufficiale dei morti nei LAGER è ancora coperto dal segreto di stato, malgrado questo decada dopo 50 anni, ma in fondo ne sono passati solo 170. Visto che alcuni dubitano su quanto scrivo vi allego il carteggio trà cavour e il generale lamarmora, riguardante questa tematica e anche la bibliografia, aspetto vostri commenti e domande.”

Fonte: da RifondazioneBorbonica


 

Carissimo amico. Io vi prego a nome pure dei miei colleghi a rifletterci ancora sopra prima di spedire qui tutte le truppe napoletane che il Papa e i Francesi ci restituiscono, è, a parer mio, atto impolitico sotto tutti gli aspetti. Il trattare tanta parte del popolo da prigionieri non è mezzo di conciliare al nuovo regime le popolazioni del Regno. Il pensare di trasformarli in soldati dell’esercito nazionale è impossibile e inopportuno. Pochissimi consentono ad entrare volontariamente nel nostro esercito, il costringerli a farlo sarà dannoso anziché utile almeno per ciò che riflette gran parte di essi. Ho pregato Lamarmora di visitare lui stesso i prigionieri che sono a Milano. Lo fece con quella cura che reca nell’adempimento di tutti i suoi doveri. Poscia mi scrisse dichiarandomi che il vecchio soldato napoletano era canaglia di cui era impossibile trarre partito; che corromperebbe i nostri soldati se si mettesse in mezzo a loro. Credo che bisogna fare una scelta, mandare a casa tutti quelli che hanno piú di due anni di servizio, dichiarando loro che al menomo disordine sarebbero richiamati sotto le armi e mandati a battaglioni di rigore. Tenere sotto le armi quelli che non hanno compiti due anni di servizio e quelli fonderli nei reggimenti, costringendoli a servire per amore o per forza. Vi prego di comunicare queste idee a Fanti, invitandolo a nome del Consiglio a soprassedere almeno per qualche tempo dallo spedire a Genova quegli ospiti incomodi… Vi mando la lettera di Lamarmora sui prigionieri Napoletani… “.

Fonte: lettera di Cavour a Farini, luogotenente a Napoli, datata 21 novembre 1860, n. 2551 vol. III:

 

“… Non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri Napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsenton a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d’occhi… e quel che è piú dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andar a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco secondo, gli rinfacciai che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavan a servire, che erano un branco di carogne che avressimo trovato modo di metterli alla ragione. Non so per verità che cosa si potrà fare di questa canaglia, e per carità non si pensi a levare da questi Reggimenti altre Compagnie surrogandole con questa feccia. I giovani forse potremo utilizzarli, ma i vecchi, e son molti, bisogna disfarsene al piú presto”.

Fonte: la lettera di Lamarmora;  del Carteggio di Cavour, La Liberazione del Mezzogiorno, Zanichelli


Feb 19 2009

Carlo Antonio Gastaldi: un operaio Biellese, brigante dei Borboni

Category: Regno delle Due Siciliegiorgio @ 00:12

Carlo Antonio Gastaldi da soldato dell’esercito piemontese, sceso al sud per reprimere il brigantaggio, diventa brigante della banda del sergente Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle, in provincia di Bari. 

Nacque il 7 novembre 1834 in Piemonte a Vagliumina (oggi quarantasei abitanti), piccola frazione di Graglia, in provincia di Biella. Il padre era selciatore, lui cardatore. 

Nel 1855 fu arruolato in fanteria. Combattè contro gli austroungarici a Palestro, meritandosi una medaglia d’argento. Ma la vita militare non era per lui. Venne condannato più volte, dal Tribunale di guerra, al carcere. Due volte fu graziato dal re piemontese. 

Il 1861 fu l’anno dell’Italia “unita”. L’esercito piemontese, per unire il sud al regno sabaudo, scese nell’ex Regno delle Due Sicilie con un’imponente armata per combattere la Resistenza del popolo meridionale. Anche Carlo Gastaldi, numero di matricola 17056, nel “Corpo Cacciatori Franchi” del 16° Reggimento di Fanteria, IV Battaglione, partì per dare la caccia ai “briganti”. 

Fu prima a Taranto e poi a Brindisi. Nelle Puglie era in atto una delle più grosse rivolte contadine, capitanata da Pasquale Domenico Romano, ex sergente dello sconfitto esercito borbonico e ora comandante generale, nominato dal Comitato borbonico segreto di Gioia del Colle. 

Un grande successo della banda brigantesca del sergente Romano, che contava oltre 200 uomini sotto la bandiera bianca gigliata borbonica, fu la riconquista di Gioia del Colle, suo paese natale, avvenuta il 28 luglio 1861. Ma la vittoria durò poco. La vendetta dei piemontesi fu terribile. Secondo quanto si dice nella tradizione popolare furono massacrati 150 rivoltosi. 

Intanto Carlo Gastaldi, per aver venduto due mazzi di cartucce ed una coperta da campo viene prima rimesso in prigione e poi destinato per “cattiva condotta” al Corpo disciplinare di Finestrelle (Torino). Ma durante il trasferimento, sotto scorta dei carabinieri, nella notte tra il 17 ed il 18 novembre 1862, nei pressi di Fasano, riesce a scappare. Viene dichiarato disertore per la terza volta. 

Abbandonato l’esercito piemontese, mentre era alla macchia incontra i briganti del sergente Romano e si arruola con loro. Erano povera gente come lui. 

Entra subito nelle simpatie del comandante Romano, diventandone amico e confidente, una specie di segretario-luogotenente. E non solo. Il Gastaldi ottiene anche le confidenze più segrete ed intime del Comandante: personali ed amorose. Perso l’amore di Lauretta d’Onghia, Enrico La Morte (era questo il nome di battaglia che si era dato il sergente Romano) si consolava come poteva con altre ragazze che incontrava nelle masserie che lo ospitavano. 

Il Gastaldi partecipa attivamente a tutte le scorribande brigantesche del Romano. Il 21 novembre 1862 si ottiene la vittoriosa battaglia di Carovigno. Il giorno dopo viene assaltata la masseria Santoria, a cinque chilometri da Torre Santa Susanna, dove viene sequestrato il massaro Giuseppe de Biase, vecchio liberale, che poi verrà ucciso. A queste azioni partecipa anche il comandante Cosimo Mazzei di San Marzano, detto Pizzichicchio, che aveva unito la sua banda a quella del Romano. Nei giorni successivi si è ad Erchie, Avetrana, Grottaglie, Massafra, Mottola. 

La mattina del 24 novembre 1862 la banda Romano si acquartiera nel bosco delle Pianelle, nei pressi di Martina Franca, che già nei primi anni del secolo era stato la base per le imprese del prete brigante don Ciro Annicchiarico. Da qui il Romano manda dei corrieri in Basilicata per proporre un’intesa al capobrigante Carmine Donatelli Crocco. Ma non se farà niente. 

Il 1° dicembre 1862 la compagnia fa sosta alla masseria dei monaci di San Domenico. Sono presenti tutti i comandanti delle bande del Salento e del Barese. Nella notte i piemontesi sferrano un attacco di sorpresa. E’ una disfatta per i briganti. Ne muoiono in tanti; muore anche il comandante Giuseppe Nicola La Veneziana, vengono feriti Pizzichicchio e Quartulli. Molti fuggono. 

Pasquale Romano, che con 40 uomini era andato alla ricerca di provviste e foraggio, non partecipa alla battaglia. Si salva anche Carlo Gastaldi. 

I comandanti superstiti decidono di sciogliere la compagnia e prendono strade diverse. Il Romano rimane alle Pianelle con una quarantina dei più fedeli: tra questi vi è Carlo Gastaldi. 

Curati i feriti e recuperati i fuggiaschi dispersi, dopo qualche giorno si parte per la masseria Santa Chiara di Noci. Qui il Gastaldi consegna al prete don Vito Nicola Tinella (che si trovava lì per celebrare una messa ai briganti) una lettera da far recapitare ad un fratello che si trovava a Napoli. Ma il prete anziché spedirla, apre e legge la lettera, che strappa poi in quattro pezzi e si mette in tasca.  La lettera verrà consegnata dallo stesso don Tinella alla polizia, che lo aveva arrestato, a dimostrazione che non aveva voluto collaborare con i briganti. 

Nella lettera, in realtà indirizzata al padre, Gastaldi tra l’altro parlava delle battaglie vittoriose degli uomini capitanati dal Romano, che non erano «briganti come erano spacciati». 

Dopo varie scaramucce con i piemontesi, il sergente Romano decide di ritirarsi con i pochi a lui rimasti fedeli nel bosco di Vallata, nei pressi del suo paese Gioia del Colle. La sera del 6 gennaio 1863 i piemontesi circondano il bosco. E’ la fine. Ventidue “briganti” restano uccisi sul campo, Tra essi il sergente Pasquale Domenico Romano. Pochi si salvano, o facendo finta di esser morti, o dandosi alla fuga. 

Tra gli scampati vi è Carlo Gastaldi, che qualche mese dopo, con la speranza di aver salva la vita, si consegna ai piemontesi a Bari. Subisce due processi; nel primo per fatti inerenti al brigantaggio viene condannato a 15 anni, nel secondo per la diserzione la condanna è di 18 anni di lavori forzati. A seguito di questa sentenza il Gastaldi viene radiato definitivamente dall’esercito. 

E’ l’ultima notizia che abbiamo di lui: poi più nulla. 

 

Ma il Gastaldi merita di essere ricordato, se non altro perché ebbe il coraggio di schierarsi al fianco del più idealista dei “briganti” del Mezzogiorno. 

 

 

Gustavo Buratti, grande studioso delle minoranze linguistiche esistenti in Italia, scrive la storia del Gastaldi in dialetto piemontese con traduzione italiana a fronte. Nella traduzione ho notato qualche inesattezza, specialmente dal punto di vista geografico sui paesi pugliesi. 

 

Mi piace chiudere la mia recensione con un passo tratto dalla nota di edizione che introduce il libro: «Il Piemonte non sono solo i Savoia, sono anche e soprattutto i Gastaldi, i contadini delle Langhe, del Cuneense, delle sue campagne. Sono i Nuto Revelli, i Gustavo Buratti». 

E con loro e tramite loro è possibile un incontro tra Nord e Sud. 

In appendice al libro sono elencati, con brevi cenni biografici, 169 (centosessantanove) uomini della banda Romano. 

Rocco Biondi 

 

 

 

Fonte:  srs di   Gustavo Buratti (12-4-2008)/ Carlo Antonio Gastaldi – Un operaio Biellese brigante dei Borboni, Qualecultura (Vibo Valentia) – Jaca Book (Milano), 1989, pp. 100


Feb 18 2009

Il Giuramento dei Briganti, i partigiani del Regno delle Due Sicilie

Category: Regno delle Due Siciliegiorgio @ 22:58

 

Noi giuriamo davanti a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostri augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre);  e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma. 

Noi giuriamo di conservare il segreto, affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione, e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati.

Noi promettiamo anche coll’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici.” 

“Noi lo promettiamo e lo giuriamo”.

 

Fonte:  Campani Arrabbiata./ da: M. Monnier, Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle province napoletane, Barbera, Firenze, 1863

 

 

GIURAMENTO TROVATO NELLE TASCHE DEL BRIGANTE SERGENTE ROMANO

 

Promettiamo e giuriamo

di sempre difendere con l’effusione del sangue Iddio, il sommo pontefice Pio IX, Francesco II, re del regno delle Due Sicilie, ed il comandante della nostra colonna degnamente affidatagli e dipendere da qualunque suo ordine, sempre pel bene dei sopranominati articoli; così Iddio ci aiuterà e ci assisterà sempre a combattere contro i ribelli della santa Chiesa.

Promettiamo e giuriamo ancora

di difendere gli stendardi del nostro re Francesco II a tutto sangue, e con questo di farli scrupolosamente rispettare ed osservare da tutti quei comuni i quali sono subornati dal partito liberale.

Promettiamo e giuriamo inoltre

di non mai appartenere a qualsivoglia setta contro il voto unanimemente da noi giurato, anche con la pena della morte che da noi affermativamente si è stabilita.

Promettiamo e giuriamo

che durante il tempo della nostra dimora sotto il comando del prelodato nostro comandante distruggere il partito dei nostri contrari i quali hanno abbracciato le bandiere tricolorate sempre abbattendole con quel zelo ed attaccamento che l’umanità dell’intiera nostra colonna ha sopra espresso, come abbiamo dimostrato e dimostreremo tuttavia sempre con le armi alla mano, e star pronto sempre a qualunque difesa per il legittimo nostro re Francesco II.

Promettiamo e giuriamo

di non appartenere giammai per essere ammesso ad altre nostre colonne del nostro partito medesimo, sempre senza il permesso dell’anzidetto nostro comandante per effettuarsi un tal passaggio.

Il presente atto di giuramento

si è da noi stabilito volontariamente a conoscenza dell’intera nostra colonna tutta e per vedersi più abbattuta la nostra santa Chiesa cattolica romana, della difesa del sommo pontefice e del legittimo nostro re.

Così abbracciare tosto qualunque morte per quanto sopra si è stabilito col presente atto di giuramento

 

Fonte: srs  T. PEDIO  “Inchiesta sul brigantaggio” Fasano di Puglia 1983

 

 

I  COMANDAMENTI DEL BRIGANTE

 

1. – Cercare di colpire sempre gli ufficiali e i graduati, è meglio uccidere un solo ufficiale che molti soldati (quando si colpisce la testa, le altre membra diventano inutili).

2. – Caduto l’ufficiale, gli uomini, senza direzione facilmente fuggono

3. – Non accordare mai quartiere ai feriti e ai prigionieri, ucciderli, scannarli e massacrare i cadaveri in modo da impressionare i soldati quando li ritroveranno.

4. – Il soldato quando si batterà, penserà sempre alla fine che l’aspetta se cade ferito o prigioniero e quando vedrà le brutte… scapperà…

5. – Esporre la vita per salvare un compagno, ucciderlo piuttosto che resti ferito o prigioniero dei soldati.

6. – Nei combattimenti corpo a corpo non fare le spacconate dei soldati di menare calciate di fucile; giuocare invece serrato di coltello; tirare colpi alla pancia e girarvi dentro la lama; si fanno ferite più dolorose, che si sentono subito, si vedono uscire fuori le budella, e difficilmente guariscono.

7. – Attaccare la truppa quando si ha la certezza di vincere, mantenersi nascosti, o fuggire quando non si è in numero e in posizione vantaggiosa.

8. – Mettersi tanto di notte quanto di giorno in posizioni elevate, possibilmente vicino a boscaglie, che offrono sicuro scampo, perché i soldati difficilmente vi si internano.

9. – Non risparmiare la vita dei soldati, mai e poi mai quella degli squadriglieri; far del tutto per averli vivi in mano per poi farne strazio.

10. – Durante il combattimento qualunque atto di insubordinazione o mancata obbedienza deve essere punita dal capobanda con una schioppettata nella testa.


Feb 18 2009

LA COCCARDA ROSSA DEI BRIGANTI MERIDIONALI

Category: Regno delle Due Siciliegiorgio @ 20:54

 

La coccarda appartenente   al Sergente Romano 

 

Era il distintivo di cui i leggittimisti meridionali si fregiavano sin dall’invasione francese del 1799. Dopo la caduta di Gaeta i briganti mostrarono con orgoglio la coccarda rossa nella quale capeggiava il giglio borbonico sia sui copricapo a grosse falde che sul petto.

da: “BRIGANTI & PARTIGIANI” – a cura di: Barone, Ciano, Pagano, Romano – Edizione Campania Bella

 


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