Feb 18 2009

LE GESTA DEL BRIGANTAGGIO: IL SERGENTE ROMANO

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 19:58

 

Nell’intervallo di tempo che corse dall’estate del 1861 all’autunno del 1863 si svolsero in Puglia le gesta più formidabili del brigantaggio; il quale per audacia di tentativi e per numero di seguaci, arrivò a tal segno da infrangere la fiducia d’ogni classe di cittadini nelle nuove istituzioni. 

A nord, fra il basso Molise, il Beneventano e la Capitanata, imperversavano le bande di Varanelli, Schiavone, Del Sambro e Caruso di Torremaggiore, che era il più sanguinano e crudele dei briganti pugliesi; nel montuoso Gargano infuriava con Palumbo, Sammarchese, Scirpoli, Paletta ed altri fuoriusciti il feroce Gatta, orbo da un occhio; e a mezzogiorno della medesima provincia, tiranneggiava Palliacello: erano centinaia e centinaia di predoni, che sovente si adunavano al bosco delle grotte, non lungi dal Fortore, ove anche convenivano, per macchinare più arrischiate imprese, Crocco, Minelli, Cicogna e simili protagonisti della reazione borbonica. 

A sud, nella penisola salentina, scorazzavano altre numerose, ma piccole bande, capitanate da La Veneziana, Mazzeo, Trinchera, Monaco, Valente, Scarati, Perrone, Cristilli e Locaso, che con una orda composta in gran parte di contadini di Santeramo batteva gli estremi limiti di Puglia, Basilicata e Calabria. Al centro della regione, in Terra di Bari, oltre al sergente Romano, correvano le nostre pianure Francesco Saverio l’Abbate di Polignano, Cataldo Franchi di Ruvo, Luigi Terrone di Corato, Riccardo Carbone e Riccardo Colasuonno (Ciucciariello) di Andria; Marco e Scipione de Palo di Terlizzi, Bellettieri di Spinazzola ed altri minori duci. 

Alle quotidiana rappresaglia di torme indigene si aggiungevano qui le irruzioni delle masnade finitime, favorite dall’intermedia positura dell’agro barese. Carmine Donatello, che stanziava d’ordinario sulle rive dell’Ofanto, Giuseppe Nicola Summa, che soggiornava nei boschi di Lagopesole, Tortora, Cavalcante, Coppolone, Serravalle, il Capraro, Nenna Nenna e Pizzichicchio, il quale aveva il suo quartiere fra le macchie di San Marzano, in Terra d’Otranto; quasi tutti i capi banda di Basilicata e Lecce, a brevi intervalli, connivente il Romano, piombavano sull’agro barese, apportandovi calamità inaudite. Gravi minacce incombevano sulla provincia di Bari nell’autunno del 1861. Un ufficio riservatissimo, inviato dalla nostra prefettura al presidente della Gran Corte Criminale di Trani, riferendosi agli arresti compiuti nel comune di Gioia in conseguenza della nota sommossa, si esprime così circa il contegno delle nostre popolazioni:

“Credo opportuno mettere sotto gli occhi di V.S. che la condizione dei tempi che corrono, è più grave di quella in cui furono eseguiti gli arresti; che la ridicola credenza dell’avvenuta o possibile restorazione dei Borboni è generale nel basso popolo, che l’impudenza nell’agitarsi e spargere tali notizie, precisamente dalle famiglie dei detenuti, è massima, che il Governo è vivamente preoccupato dalla possibilità di una invasione generale nel Barese dei numerosi briganti concentrati sul confine della Basilicata”.

E vari dispacci, anch’essi urgenti e riservati, spediti nei primi di ottobre dal Ministero degli Interni al nostro governatore, esortavano le autorità a vigilare sui movimenti delle torme lucane, le quali ordinavano tentativi reazionari ed incursioni ai danni di queste ubertose contrade. 

Infatti, nel successivo novembre, il generale carlista José Boryes, che aveva assunto la direzione suprema delle ciurme operanti nella Basilicata, apparve minaccioso tra le colline di Altamura; ma, fossero i dissensi e le gelosie che allora agitavano la comitiva del Donatello, invido e sospettoso della presenza e della superiorità dell’avventuriero catalano, fossero le provvidenze dei nostri governanti o altri motivi che non ci è dato conoscere, la spedizione si fermò, a quanto pare, sul confine delle due province, e non ebbe ulteriori effetti. 

Di lì a tre mesi, però fu ritentata, e compiuta. 

Duecento banditi a cavallo, agli ordini di Crocco e compartecipe il Romano, il 24 febbraio 1861 entrano in Terra di Bari e avanzano fin sotto le campagne di Andria e di Corato. 

Qui uccidono a fucilate alcuni militi coratini che andavano in cerca di sbandati, depredano le masserie e, fatto un copioso bottino, riprendono il cammino in direzione ovest. A tali notizie il maggiore Alfonso Grilli, della guardia nazionale di Corato, corre sulla Murgia con un centinaio di gregari, ansiosi di vendicare la morte dei commilitoni: ma non trovò la masnada e, recando con sé i cadaveri delle vittime, rientrò in città fra i pianti e l’esasperazione dei conterranei. I predoni, frattanto, si fermano alla masseria Viti, in tenimento altamurano, occupano la strada fra Toritto e Altamura e, intercettate le corrispondenze postali e telegrafiche, spadroneggiano in quei luoghi con ogni sorta di spoliazioni. 

Il generale Regis, sorpreso dall’audace scorreria, ordina una celere concentrazione di truppe sulle posizioni occupate dai borbonici; da Gioia, Noci, Alberobello, Acquaviva, Barletta, Matera ed altri comuni partono manipoli di guardie nazionali e soldati del cinquantesimo fanteria; onde, quelli vedendosi minacciati di avvolgimento, fuggono via e, toccando la casa colonica Mercadante, la Risecca di Grumo, i boschi di Cassano e Santeramo, pervengono alla selva di San Basile, ove indugiano alcune ore. Il comandante italiano dispone per telegrafo l’avanzata di qualche compagnia dai quartieri tarantini allo scopo di precludere la ritirata ai fuggiaschi; ma questi, più agili ed. accorti, sfuggono agli inseguitori e si mettono in salvo fra i boschi di Craco. 

Nella prima quindicina di marzo un’altra comitiva, se non forse la medesima, composta di centoquaranta uomini, riappare sulle balze altamurane, soggiorna nell’abitato rurale di Claudio Melodia ed occupa il castello di Guaragnone. Agguerrite colonne di fanti e guardie civiche marciano colà; ma, secondo il solito, al primo apparire delle nostre milizie, i briganti si dileguano. 

Non trascorre un mese ed un’altra invasione si effettua da parte di Ninco Nanco, che, attraversate le Murge di Spinazzola, minaccia con le bande riunite la nostra pianura. Anche in questa emergenza la guardia coratina, sostenuta da un plotone di carabinieri, affronta la masnada, che, dopo una fugace scaramuccia, abbandona le posizioni, lasciando sul terreno un cadavere e quattro cavalli. 

Ai primi di maggio la stessa banda, sorpresa dai cavalleggeri del Mennuni di Genzano, viene gravemente sconfitta; e il tenente generale Cosenz partecipa la lieta novella ai nostri comuni col seguente dispaccio inviato da Bari alle sette pomeridiane del 9maggio 1862:

“Colonna Davide Mennuni ha disfatto comitiva Ninco Nanco. 15 briganti uccisi, molti feriti, ferito Ninco Nanco, cavalli ed armi abbandonati”

Il Prefetto: COSENZ

L’esultanza fu assai breve. Di lì a pochi giorni la compagnia del sergente Romano comparve nei parchi delle Monache Chiariste e nel bosco municipale Bonelli, presso Noci. 

Un plotone di cinquanta militi muove per quei luoghi; ma, di fronte al numero soverchiante dei nemici, retrocede e si ferma sulla Murgia d’Albanese, aspettando rinforzi chiesti con urgenza da Bari e da Taranto. Il Romano, informato delle intenzioni avversarie, lascia il territorio di Noci e si rifugia nella foresta di Pianella. 

Il 15 giugno, banditi e guardie civiche di Martina vengono alle mani nelle vicinanze della masseria Marrocco; il giorno 8 i masnadieri assaltano sull’imbrunire la fattoria del Chiancarello, appartenente ai signori Cassano di Gioia, e ucciso il fittavolo Domenico Pugliese di Putignano, depredano armi, cavalli ed oggetti di considerevole valore; il 12 commettono ruberie e ricatti nel territorio di Santeramo; il 19 contristano di nuovo le adiacenze di Noci, ove la tranquillità cittadina è ognora turbata “perché i malviventi si fanno vedere in punti diversi, ora uniti ed ora divisi”; fra il 20 e il 25, devastano i campi e le masserie di Alberobello, Cisternino e Locorotondo, e negli ultimi giorni del mese tornano ad occultarsi fra gli inospiti covi di Pianella per prendere nuova lena e commettere nuovi orrori. 

Così passano i giorni queste nomadi turbe: è un agitarsi continuo al gelido soffio della tramontana e al torrido sole dell’estate, fra le macchie spinose, che lacerano le carni, e le buie caverne che corrodono le fibre; è un correre vertiginoso ed ansante interrotto da fugaci tregue, una vita di torture inenarrabili, cui pone termine la fucilazione o la galera! 

Tener dietro ai movimenti disordinati e molteplici della banda Romano, sarebbe una fatica assai dura e fors’anche priva di interesse storico: barbari eccidi, effimeri trionfi, rotte sanguinose, estorsioni, rapine, vandalismi compiuti sempre in nome del sovrano e della fede, ecco in brevi parole la storia, triste ed uniforme, della comitiva. Sorvolo sui fatti di secondaria importanza e mi avvio rapidamente alla fine, indugiandomi sugli episodi più notevoli.

L’ASSALTO AD ALBEROBELLO

In uno degli ultimi giorni di luglio, le guardie civiche di Alberobello, perlustrando le finitime selve, si presentano alla masseria dei Monaci di San Domenico, frequente rifugio del Romano, e fatta una perquisizione, sequestrano sedici pacchi di cartucce e catturano il reticente guardiano. Di ciò informati, i banditi risolvono di infliggere subito ai temerari militi un’esemplare punizione. Sul declinare del giorno 26, il sergente Romano chiama a raccolta la ciurma, e schieratala in ordine militare con opportuni fiancheggiatori e vedette, muove sulla borgata. 

Giunti verso le dieci della sera a poco meno di un miglio dall’abitato, i masnadieri si fermano, e poiché scorgono ancora delle luci e odono dei canti, rimandano l’aggressione a notte più inoltrata. In questo mezzo, favoriti dall’oscurità, pervengono al Romano alcuni messaggeri di quel Comune, fra i quali, secondo le noti4e di autorevoli documenti, ci sarebbe qualche ufficiale della guardia civica, complice del misfatto. 

Ottenuti precisi ragguagli e prese le ultime disposizioni, uno stuolo di trenta fuoriusciti, staccatisi dalla masnada, va all’assalto con passi guardinghi e silenziosi. Il milite Tommaso Locorotondo, che era di sentinella, intravveduta fra le tenebre l’insidia, grida : – Alto Chi va là? Ma non ha proferite queste parole che dieci briganti gli sono addosso, lo disarmano e lo legano, imponendogli di tacere. 

Quindi, con le baionette innastate, invadono il quartiere e domandano dell’ufficiale di guardia. A tale ingiunzione si presenta il caporale Antonio Greco, da cui chiedono, e ottengono immediatamente, la restituzione delle cartucce sequestrate alla masseria dei Monaci.

Intanto i militi, che erano li presenti, sbigottiti dall’ingrata sorpresa, tentano di fuggire; ma i banditi, coi fucili in pugno, comandano loro di non muoversi, pena la vita. 

Alcuni, per disgrazia, trasgrediscono agli ordini e vanno a rifugiarsi in una stanza contigua barricandovisi dentro. I predoni, allora, infrangono la porta, uccidono la guardia Curri, alla quale tolgono la giacca e le scarpe, e feriscono i militi De Felice, De Leonardis e Castellano. Poscia mettono a soqquadro ogni cosa; prendono una trentina di fucili con altrettante baionette, un tamburo, sei daghe, venti bandiere ed altri oggetti. 

Da ultimo, schierate a due a due le guardie, se le trascinano dietro, parte libere, parte avvinte con funi, sulla via di Martina. Giunti però all’estramurale, ed impietositi dalle lacrime di quegli infelici, li lasciano andar via. L’aggressione fu compiuta in un quarto d’ora!

GLI ECCIDI DEL 6 AGOSTO

Sul cadere dello stesso mese di luglio, fra i seguaci del Romano erano sorte gravi discordie, per cui un gruppo numeroso di fuoriusciti, Cecere, Guarini, Convertini e Chirico di Cisternino con altri compagni, avevano disertato, aggregandosi alla comitiva di un capobanda napoletano. Poscia, vedendosi deboli e mal protetti, tornarono in cerca del vecchio duce, che allora soggiornava nelle campagne di Ostuni, Locorotondo e Alberobello. 

Come i reduci briganti si avvicinano ai nascondigli già noti, avvistati dalle sentinelle e accolti a fucilate, si danno alla fuga; ma due di essi, Vitantonio Cecere e Francesco Chirico, son catturati dai contadini che per caso lavoravano in quei dintorni, e in particolar modo da un tal Riccardo Tanzarella di Ostuni, che, intuito il movente della fuga e punto persuaso delle loro dichiarazioni, insiste presso i compagni, perché sian trattenuti e consegnati alle autorità. 

Mentre si discute sul da farsi, sopraggiungono due massari, Francesco d’Errico e Francesco Seleraro, occulti ricettatori del malandrinaggio; i quali, facendosi mallevadori dell’onestà di quei furfanti, non solo dissuadono il Tanzarella dal temerario proposito e ne ottengono la liberazione, ma intercedono presso il Romano, perché li accolga di nuovo alla sua dipendenza. 

Riammessi così nella compagnia, implorano dal sergente soddisfazione e vendetta delle patite ingiurie; l’uno, Vitantonio Cecere, contro il Tanzarella che li aveva esposti a sì grave pericolo; l’altro, Francesco Chirico, contro il liberale Oronzo Terruli, agricoltore di quella contrada che nel giugno precedente lo aveva denunciato come un pericoloso reazionario, costringendolo ad abbandonar la famiglia. Il capitano accondiscende alle voglie dei militi ed ordina che la spedizione punitiva si compia, rapida e spietata. 

Sul tramonto del 6 agosto, un manipolo di codesti forsennati sorprendono il Tanzarella presso la sua “casedda”, il “trullo” caratteristico di quei luoghi, lo acciuffano, gli avvincono le braccia con una corda in presenza degli atterriti familiari, e lo trascinano a viva forza nella vicina selva. 

Verso le undici della notte, la compagnia si scinde: gli uni rimangono con il condottiero in custodia del catturato, gli altri muovono sulla masseria Marangiuli, ove si trovava Oronzo Terruli. 

Questi, rassegnato all’inevitabile destino, ma risoluto a vender cara la vita, da un balcone respinge gli aggressori a fucilate e ferisce gravemente un masnadiero di Viareggio, che vien subito condotto alla presenza del Romano. 

Come l’impulsivo sergente scorge il compagno ferito e barcollante, preso da repentino furore, ordina, per rappresaglia, l’immediata fucilazione del prigioniero. Il povero contadino implora la vita; ma quegli, acceso dall’ira, non recede dal suo proposito, sì che il Tanzarella cade fucilato nel silenzio delle tenebre. Esegnita la condanna, accorrono tutti alla masseria, sfondano le porte e, saliti al primo piano, ammazzano il vecchio Marangiuli, che era congiunto e socio del Terruli nell’azienda agricola. 

Questi si rifugia sotto un letto; ma è tratto fuori dal Chirico, suo implacabile nemico, che, avutolo nelle mani, esclama: – Assassino traditore! Mi hai fatto lasciare i figli miei! – E anche il Terruli cade trafitto da numerosi proiettili e da ventisei pugnalate.

IL MARTIRIO DI VITO ANGELINI

Di li a pochi giorni, sulle prime ore della mattina, un branco di quei fanatici si reca alla masseria Serinello, dove soleva dimorare l’agricoltore Vito Angelini di Putignano, fervido seguace delle istituzioni liberali. Trovatolo colà, lo traggono in arresto a nome di Francesco II, gli legano strettamente i polsi e lo conducono al bosco De Laurentis, fra Santeramo e Gioia. Qui attende il Romano, che lo sottopone ad una specie di interrogatorio e gli chiede: – notizie dell’opera spiegata da lui e dai congiunti nella recente rivoluzione, mostrandosi informato di ogni particolare. 

Quindi, consultati i compagni, lo dichiara nemico del Papa, di Cristo e traditore dei figli, ed emana sentenza di morte. L’Angelini si dispera e piange; ma il sergente non si lascia commuovere ed ordina che il verdetto si compia senza esitazione. I gregari denudano il disgraziato, lasciandogli addosso il panciotto e la camicia; e fattolo inginocchiare, gli impongono di recitare il Credo e il Paternoster. Infine lo colpiscono con tre fucilate e, credutolo morto, si allontanano di là. 

Taluni, nell’andar via, accortisi che la vittima dava segni di vita, vorrebbero tornare indietro a finirlo coi pugnali; ma uno di loro distoglie i compagni dal truce proponimento, esclamando con gioia feroce: – Così devono trovarsi tutti gli amici di Vittorio Emanuele! L’Angelini, riavutosi dai colpi mortali, si trascina carponi ad una masseria vicina, ove è accolto e curato da mani pietose.

IL CONVEGNO DEL BOSCO PIANELLA

Nell’agosto 1862, i masnadieri delle province di Bari e Lecce, per ordine del comitato centrale romano; convennero al bosco Pianella, nelle adiacenze di Martina Franca, per dare unità direttiva al movimento reazionario e fondere in una grande compagnia tutte le torme fin allora frazionate e disperse. 

All’adunanza, che fu tenuta nei profondi recessi di una vicina grotta, capace di oltre ducento cavalli, parteciparono il sergente Romano, Mazzeo, Valente, La Veneziana, De Palo, Trinchera, Locaso, Monaco, Terrone, Testino; e tutti riconobbero l’opportunità dell’accordo, nel duplice intendimento di fronteggiare con maggiore vigoria le ostilità sempre più minacciose della truppa ed effettuare con sollecitudine il vagheggiato programma della restaurazione borbonica. 

Giurati i vincoli dell’alleanza e costituita un’orda di circa ducento uomini, quasi tutti a cavallo, il sergente Romano, che fra quelle turbe destituite d’ogni cultura eccelleva per intelligenza ed autorità, ottenne il comando supremo con il grado di “maggiore”, mentre gli altri condottieri, in conformità alle attitudini personali e a seconda del maggiore o minor numero di seguaci fino ad allora capeggiato, furono eletti capitani, sergenti e caporali. 

Orgoglioso di tanto onore, il Romano si accinse all’opera, proponendosi di esplicare un’azione gagliarda; e poiché la provincia di Bari, ove già si andavano concentrando numerose forze, non porgeva facili speranze di riscossa, pensò, d’accordo con gli altri caporioni, di trasferire il campo delle operazioni nel Brindisino. 

Pertanto, ai primi di settembre, la grande comitiva era già nella penisola salentina, e quivi per lo più si trattenne fino agli ultimi giorni di novembre. 

Il vandalismo agrario e le stragi, che per un intero trimestre desolarono quelle cittadinanze, sorpassano ogni immaginazione: smantellate le masserie dei liberali, bruciate le messi, interrotte le comunicazioni, sospeso il traffico: tutta la vita economica e civile della regione fu sottoposta all’arbitrio dei reazionari, la cui baldanza trascese a tali eccessi che agli occhi del popolino e della stessa borghesia parve addirittura imminente il crollo dell’edificio nazionale e il ritorno del decaduto monarca. Ecco gli avvenimenti più considerevoli dell’attività brigantesca in Terra d’Otranto.

IL MASSACRO DI CELLINO

Verso il mezzogiorno del 24 o 25 ottobre, due squadriglie della guardia di Cellino e di San Pietro Vernotico, accompagnate dai rispettivi tenenti e da un plotone di carabinieri a piedi e a cavallo, a circa nove miglia da si erano fermate alla fattoria Angelini, Brindisi. 

Mentre prendevano ristoro dalla faticosa marcia, videro schierata sulla “Piana” della masseria Santa Teresa, li vicina, una grossa comitiva di briganti. 

Si comanda l’assalto; ma gli ufficiali, giunti a cinquecento metri dal nemico, volgono le briglie, trascinando nella fuga ignominiosa i militi a piedi, che si disperdono per la campagna circostante. I carabinieri, rimasti soli contro la forte masnada, non si perdono d’animo, e rattenendo l’impeto avverso con un fuoco incessante di fucileria, retrocedono a lento passo in direzione di Cellino.

Ad un certo punto, alcuni fuoriusciti accerchiano due carabinieri a piedi, li atterrano e sono già in procinto di impadronirsene, quando il lombardo Giovanni Arizzi, noncurante della vita, galoppa in soccorso dei camerati e, dopo un’acerrima lotta, in cui rimase ferito lui stesso, li trae a salvamento. 

All’azione ardimentosa concorsero i carabinieri Biancardi e Piluti delle stazioni di Lecce e Campi Salentina. Arrivati a breve distanza da Cellino, i masnadieri si ritirarono, dando la caccia alle guardie nazionali, che si erano nascoste nei prossimi poderi. 

Ne scovano dodici, le avvincono con funi e, frustandole come bestie da soma, le spingono sulla masseria Santa Teresa, ove un’orrenda sorte attende i prigionieri. 

La scena raccapricciante, ivi svoltasi, è narrata dal milite Vitantonio Donadeo, che ebbe salva la vita per uno strano accidente. Ne trascrivo l’autentico, genuino racconto: “Quando arrivammo vicino a Santa Teresa, svillaneggiati e battuti per strada, posero me con gli altri undici prigionieri ginocchioni a terra e in fila, e dissero a Giuseppe Mauro, che fu poscia fucilato: – Tu avevi quattro carlini al giorno come spia sotto Francesco, ed ora ne hai tre sotto Vittorio. E poi, rivolti al Pecoraro ed al Miglietta, pur fucilati, dissero: – Conosciamo che voi siete andati facendo la spia. – Tenevano tutto segnato in un libro che portava il capitano, e dicevano: – I villani non hanno colpa; noi vogliamo i capi della guardia nazionale. 

Quindi uno dei briganti che era tornato ferito dal combattimento coi carabinieri, disponeva sulla sorte di noi altri, e tutto ad un tratto fu ordinata ed eseguita la fucilazione del Pecoraro, del Mauro e del Miglietta, i quali stavano inginocchiati i primi nella fila di noi altri; ed a misura che dovevano fucilare li facevano mettere faccia a terra, poggiando la bocca del fucile sul collo. 

Dopo i tre suddetti sventurati, dovea essere fucilato io, e mi ordinarono di mettermi con la faccia a terra, il che avendo io fatto, con lo squallore della morte, gridai: – Madonna del Carmine, aiutatemi! – ed intesi lo scatto del fucile che non dié fuoco. Allora un brigante disse: – Alzati che tu sei salvo, e devi essere veramente devoto alla Madonna del Carmine come lo sono io; le devi fare una gran festa. 

E dopo aver parlato un poco fra essi loro, fecero alzare da terra me e gli altri otto compagni, con la forbice mi mozzarono un pò l’orecchio sinistro come fecero ad altri sette; due, perché avevano ricevuto dei colpi in testa e la portavano fasciata, ad essi non furono mozzati gli orecchi.  Dopo questa operazione, il Capitano si avvicinò a noi e ci disse di andarcene”. 

Il brigante che, commosso dall’invocazione della Vergine, sospese l’iniziato massacro, fu il sergente Romano; e colui che, animato da istinto feroce, mozzò le orecchie ai prigionieri, fu lo Spadafino di Palo del Colle. Altri testimoni oculari aggiungono che i fuoriusciti ventilarono l’idea di recidere il capo ad uno dei catturati ed inviarlo al capitano della Guardia Nazionale di Cellino; ma l’infame proposta non fu eseguita per le implorazioni disperate di quei miseri. 

E’ certo però che Francesco Monaco di Ceglie Massapica con un rasoio tagliò il mento di un cadavere, e fattolo disseccare al sole, e ripostolo nella bisaccia, lo portò via con sé, qual segno e ricordo della vittoria. 

E’ indubitato altresì che alcuni di quei ribaldi conservarono nelle tasche le mutile orecchie dei prigionieri, mostrafldole qua e là, per i campi e le masserie, ai contadini che incontravano durante il percorso. 

Va ricordato infine, come le salme dei fucilati cellinesi furono date alle fiamme, perché delle odiate spie si disperdessero finanche le ceneri. Tale era l’aberrazione di quelle turbe sciagurate nel cui animo la frequenza delle scelleraggini aveva cancellato ogni traccia di umanità.

L’INVASIONE DI CAROVIGNO

Sull’albeggiare del 21 novembre, la comitiva, dalla masseria Colacorti, ov’erasi fermata fin dalla sera precedente, s’incammina alla volta di Carovigno, uno dei più ardenti focolari di brigantaggio reazionario. 

Non lungi dall’abitato, il “maggiore” trattiene la sua ciurma e manda all’assalto del corpo di guardia un drappello di dodici briganti a piedi. Come la sentinella Emanuele Patisso, nell’incerto chiarore della notte che già si dilegua, scorge l’avanguardia brigantesca, chiede con voce risoluta: – Chi vive? – Guardia piemontese! – si risponde. E nel dire tali parole i masnadieri piombano sul milite con rapidità fulminea, lo disarmano ed entrati – nel quartiere, fracassano panche, tavole, rastrelliere, quadri, stemmi reali. 

Sopraggiungono i banditi a cavallo e si riversano “per lo stradone” sparando archibugiate a salve e invitando il popolo alla rivolta. – Fuori i lumi! Fuori i lumi! – si esclama; e immantinente migliaia di lumi sporgono dagli usci e dai balconi, per modo che il paese, come affermano i documenti, è illuminato a giorno. 

Molti contadini scendono sulle vie e accolgono la masnada con le fiaccole accese e con manifestazioni di giubilo. 

Gli urli della plebe, espressioni sintomatiche di reazione politica e di riscossa sociale, richiamano alla memoria le torbide giornate del 1799. – Viva la Santa Fede! – si grida – Viva la Madonna! Viva Dio! Viva – Francesco II! Abbasso Vittorio Emanuele! All’impiedi il popolo basso! 

E una gran calca di popolo delirante segue i ribelli che, col Romano in prima fila, avanzano sulle loro cavalcature, baldanzosi e trionfanti. 

Assaltano quindi le case dei capitani Azzariti e Brancasi, dei patrioti Simone, Brandi, Santoro, Del Prete e del regio delegato Calò; atterrano la porta d’una rivendita di privative; calpestano le insegne sabaude, e penetrati nella bottega, depredano sigari e vari oggetti. 

Invadono poscia un pubblico ritrovo appartenente ad un caffettiere liberale, rompono tazze – e bicchieri, infrangono i quadri di Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele. 

Da ultimo, fattosi già chiaro, obbligano il sacerdote Federico Vacca a seguirli fuori del paese, al santuario della Madonna del Belvedere, ove la moltitudine, inginocchiata e riverente, intona col prete litanie e inni di grazia. Compiuta la funzione sacra, i briganti invitano la folla a rientrare nella borgata e, scambiati auguri di prossimo trionfo, si allontanano per la via di San Vito, in direzione della masseria Badessa. Nessun reato di sangue, tranne qualche lieve ferimento, turbò la clamorosa manifestazione.

IL CONFLITTO DELLA BADESSA

Nelle ore antimeridiane di quel giorno medesimo, come nella borgata limitrofa di San Vito si ha sentore dell’invasione di Carovigno, s’inviano carabinieri e guardie civiche in soccorso di un drappello di militi, che, per disposizione dell’autorità, si trovava in distaccamento alla tenuta Serranova, non lungi dalla Badessa.

 Le vedette dei masnadieri, che vigilavano dall’alto della fattoria, visto il plotone che avanzava sulla consolare di Brindisi, segnalano ai compagni l’imminente pericolo. 

Il Romano, osservata la positura e avute dal massaro D’Adamo, ardente borbonico, precise informazioni circa il numero e l’armamento dei nazionali, ordina la banda su due schiere e muove a spron battuto contro i nemici con disegno di accerchiarli. 

Ma quelli, forniti di buone armi da fuoco, sostengono con intrepidezza l’assalto e, contrastando il terreno a palmo a palmo, raggiungono l’oliveto Argentieri e la masseria De Leonardis, ove si trincerano saldamente. 

Il Romano, cui premeva di tenere integra la compagine dei suoi e non sacrificar mai gente in imprese di dubbia efficacia, dopo un’ora di accanita lotta, si ritira, trascinando con sé la guardia Catamerò, catturata all’inizio del combattimento. Radunatosi, secondo la consuetudine, il consiglio dei capi, il prigioniero è condannato all’estremo supplizio. 

Alcuni briganti lo afferrano per i piedi, altri lo costringono al suolo con le braccia e la testa; e il masnadiero tarantino Antonio gli recide la gola con una sciabola o grosso coltello adoperato a mo’ di sega.

IL RITORNO AL BOSCO PIANELLA

Dopo il conflitto della Badessa, il Romano, che con la sua tormentosa guerriglia aveva attratto nel Leccese molte forze regolari, pensò di sottrarsi all’urgente pressione della truppa, trasferendosi nella pristina sede di Pianella. 

Partito dal litorale adriatico, il 21 novembre, per l’istmo collinoso della penisola messapica, fra Brindisi e Taranto, – discese nell’opposto versante. 

La notte del 22 si fermò con tutta la banda alla fattoria Santoria, nei dintorni di Torre Santa Susanna, e la mattina seguente, provedutosi colà di viveri e di biada, si accinse a partire, dichiarando in arresto il massaro De Biase, reo di avere obbligato i suoi contadini ad acclamare Vittorio Emanuele re d’Italia. Indotti dalle vive insistenze dei familiari di quell’infelice, i masnadieri consentirono di rilasciarlo, previo riscatto di mille piastre; e poiché quelli ne offrivano solo trecento che avevano a disposizione, rigettarono la proposta con parole di sdegno. 

Gli sventurati, lacrimando, chiesero una breve dilazione per procacciarsi la somma vistosa; ma i banditi, specialmente Pizzichicchio che conduceva le trattative, non accolsero neppure tale richiesta e trascinarono via, in groppa ad un cavallo, il vecchio patriota, che nella macchia di Avetrana incontrò la pena di morte con armi da fuoco e da taglio. 

Dalla fattoria Santoria,- nelle ore antimeridiane del 23 i ribelli prendono la via di Erchie e sostano alcune ore presso il piccolo villaggio, dove, a somiglianza di Grottaglie, Crispiano, Statti, Carovigno, Palagianello ed altri Comuni del Leccese, si rinnovano le solite dimostrazioni popolari inneggianti al Borbone e alla fede. 

Verso mezzogiorno si allontanano di là, incamminandosi verso la marina ionica; durante la notte successiva si attardano fra i boschi di Maruggio, nei quali abbandonano un compagno di Santeramo in Colle, moribondo per le gravi ferite riportate in Erchie; e sul mattino del 24, per i territori di Grottaglie, Massafra, Mottola, devastando masserie, rompendo fili telegrafici e schivando fra mille peripezie gli incontri con la truppa, arrivano al bosco Pianella, ultima tappa del periglioso e lungo itinerario. In questo mezzo il Romano, imbaldanzito di tanti prosperi successi, medita un folle disegno: fondersi con la banda Crocco, muovere su Brindisi e impadronirsi della Terra d’Otranto; indi, raccolte grandi masse di popolo, correre su Gioia, Noci ed altri comuni del Barese,- inalberando dappertutto il – vessillo della controrivoluzione. 

Allettato dal chimerico piano, spedì messi al Donatello, che si trovava in Basilicata, e mandò in giro per le campagne Otto manipoli di arrolatori, affine di raccogliere gente, armi e cavalli. 

Se non che Carmine Crocco, cui la politica serviva di pretesto ad accumular quattrini, dapprima richiese alcuni giorni di tempo per una definitiva risposta, e poi, adducendo futili motivi, dichiarò senz’altro di non poter assecondare l’iniziativa del temerario collega. Il sergente Romano, intanto, rafforzata con nuove reclute la compagnia, esce dal bosco di Pianella in cerca di nuovi trionfi; ma le milizie italiane, rese ormai vigili ed esperte dalla dura esperienza, lo attendono al varco.

LA DISFATTA DELLA MASSERTA MONACI

Sul cadere del primo dicembre, l’intera compagnia si ferma alla masseria dei Monaci di San Domenico, tra Noci ed Alberobello. 

Erano lì presenti circa centosettanta uomini con tutti i caporioni del brigantaggio salentino e barese: Romano, La Veneziana, Pizzichicchio, Monaco, Valente, Quartulli, Locaso, De Palo ed altri. Il sedicente maggiore ordina alla ciurma di scendere da cavallo e di riposarsi nell’ampio caseggiato, mentre lui, espertissimo dei luoghi, con quaranta seguaci, va in cerca di viveri e foraggi. 

Molti dei banditi si andavano adagiando nei fienili, ed altri si apprestavano a desinare o attendevano al governo dei cavalli, quando, d’improvviso, la sedicesima Compagnia del decimo Reggimento di Fanteria, condotta dal capitano Molgora, sbuca fuori dalle circostanti macchie e piomba sui masnadieri scompigliati e dispersi. 

La Veneziana, Pizzichicchio e Valente, chiamati a raccolta i compagni, affrontano i soldati e si battono coraggiosamente in prima linea. Mentre la mischia infuria e la banda già ripiega, sopravviene il Romano, che era atteso con ansia; ma scorto il disordine dei suoi e il sopravvento della truppa, getta via le insegne del comando e, postosi in capo il berretto di un compagno, volge le terga. 

Alla fuga del condottiero segue una rotta piena ed irreparabile: muore La Veneziana, son feriti Pizzichicchio e Quartulli, cade prigioniero Scipione De Palo con altri nove banditi, e son catturati più di ottanta cavalli con armi e bagagli. 

Trentacinque briganti, che riposavano in un pagliaio e non presero parte alla zuffa, sfuggirono per miracolo alla cattura; dei restanti, molti, col favore delle tenebre sopraggiunte, se ne andarono – ai loro paesi; altri, dopo essersi aggirati per molte ore fra i boschi, tornarono alla grotta Pianella. 

Capi e gregari, superstiti di una grave sconfitta, tennero un’adunanza; e dopo una vivace discussione, durante la quale si coprirono di villanie, accusandosi d’imperizia e di viltà, decisero lo scioglimento della comitiva. 

La sera del 7 dicembre, i vari capi partono per vie diverse: Valente, con sedici o diciassette compagni per Carovigno; Monaco con altrettanti per Ceglie Messapica; il Capraro per Ginosa; e Pizzichicchio, riavutosi dalla ferita, per la Basilicata. 

Quindici fuoriusciti, avendo espressa la risoluta volontà di abbandonare la masnada, sono dichiarati vili, e quindi licenziati. Il Romano, diminuito di autorità e di grado, resta in quei luoghi con una cinquantina dei più antichi e fedeli proseliti. Era completa la dissoluzione, imminente la fine.

 

 

Fonte: srs di  Antonio Lucarelli – da: “AVVENTURE ITALIANE” Vallecchi Editore, Firenze, 1961


Feb 18 2009

IL SERGENTE ROMANO

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 13:52

Pasquale Domenico Romano nacque a Gioia del Colle il 24 Agosto 1833 da Giuseppe e Angela Concetta Lorusso. Ebbe un’educazione semplice, sana ma rigida che ne forgiò il carattere. 

Fin dall’adolescenza aiutò il padre nella pastorizia che gli permise una particolare conoscenza di quei boschi e di quelle contrade che poi lo videro quale dominatore incontrastato. 

Nel 1851 si arruolò nell’Esercito Borbonico dove intraprese una brillante carriera assumendo ben presto il grado di “primo sergente” e dove, per le sue particolari doti militari, ebbe l’onore di diventare “Alfiere” della Prima Compagnia del 5° di Linea. 

Disciolto l’Esercito del Regno delle Due Sicilie non si diede per vinto diventando comandante del Comitato Clandestino Borbonico di Gioia del Colle Tuttavia, avvertendo i tempi stretti, la gravità della situazione e mai sopportando l’inoperosità degli adepti del Comitato, dopo poco tempo abbandonò i “salotti” e passò senza esitare alla lotta armata, dando il via alla sua guerra partigiana contro i piemontesi. 

Nel giro di qualche settimana costituì una prima squadra formata esclusivamente da militari del disciolto Esercito Borbonico. Il 26 luglio 1861 si rifornì di armi e munizioni assaltando e prendendo prigioniera l’intera guarnigione di Alberobello nonché i militari del presidio di Cellino. 

Il 28 luglio del 1861 con i suoi militi attaccò Gioia del Colle dove s’impegnò in una vera e propria battaglia, travolgendo le truppe del maggiore piemontese Francesco Calabrese, costringendole a ripiegare nel Borgo San Vito. Alla vista della fuga dei militi piemontesi si sollevò l’intera cittadina di ventimila abitanti. Nella confusione furono molti i gioiesi che si unirono ai ribelli, tra essi Vito Romano di soli anni 17, fratello minore del Sergente. 

Fu questa la rima vera e propria azione con la quale il Sergente Romano inaugurò la lunga serie di colpi contro le truppe piemontesi, la Guardia Nazionale e i nemici liberali, ma fu anche l’inizio delle vendette trasversali, da parte di questi ultimi, ai suoi amici ed alla sua famiglia che, subito dopo la ritirata da Gioia del Colle, venne colpita duramente. Ciò non fece altro che inasprire ulteriormente il suo risentimento infondendogli maggiore risolutezza e rabbia contro chi considerava senza mezzi termini: “usurpatori, invasori, senza Dio, oppressori del popolo”. 

Le azioni di guerra fulminee ed imprevedibili, la spietatezza e nel contempo la lealtà e l’alto senso dell’onore, la ferrea disciplina militare a cui erano sottoposti i suoi uomini, le motivazioni legittimiste e religiose che lo spingevano a lottare con coraggio e determinazione, l’assoluta fedeltà al suo sovrano Francesco II ed al Papa lo fecero diventare un mito: l’eroe che difendeva gli oppressi, la giusta rivalsa sui conquistatori, il partigiano imprendibile e coraggioso, il guerriero invincibile, la volpe dei monti e dei boschi, il “brigante” degno dell’ammirazione delle popolazioni meridionali. 

Effettivamente fu un grosso problema per carabinieri, esercito e guardia nazionale che a migliaia gli diedero la caccia giorno e notte, d’estate e d’inverno. Mentre con veloci apparizioni distoglieva l’attenzione della truppa nemica colpendo nello stesso momento in località tra loro distanti, nel frattempo reperiva armamenti, munizioni e vettovagliamenti, reclutava uomini, stringeva accordi con altri guerriglieri, contattava sindaci e patrioti, pianificava colpi micidiali in tutta la regione. 

Il 24 Febbraio 1862 insieme a Carmine Donatelli, soprannominato “Crocco”, bloccò le strade di accesso ad Andria e Corato, tese un’imboscata alla guardia nazionale e, dopo averne avuto la meglio, ebbe via libera nell’assalire tutte le masserie di liberali ed ex garibaldini della zona, seminando il panico e facendo strage tra i “traditori del Popolo meridionale”. 

Qualche giorno dopo toccò alla strada fra Altamura e Toritto dove furono intercettati e colpiti il corriere postale e la scorta armata. 

Tra Maggio e Luglio 1862 il sergente Romano entrò più volte in Alberobello con la sua truppa, immobilizzando la guardia nazionale, rifornendosi di armi e munizioni, innalzando i vessilli borbonici e sparendo puntualmente nel nulla. 

Il 9 Agosto 1862, dopo la solita scorribanda per Alberobello, assaltò la fattoria di un certo Vito Angelini accusandolo di essere il delatore che aveva permesso l’assassinio della sua fidanzata Lauretta d’Onghia. Dopo averlo “processato” lo fece fucilare sull’aia. 

Qualche giorno dopo il Romano, dopo essersi unito nel bosco Pianella con i capibanda Laveneziana e Trinchera, si accampò nel cuore della penisola Salentina da dove avrebbe potuto colpire con maggior sicurezza. I primi di Ottobre assaltò nuovamente il presidio di Cellino ma questa volta ne fucilò tutti i militi. 

Il 24 ottobre 1862 verso le ore 12 la compagnia al completo puntò nuovamente sulla masseria Angelini, forse per completare la vendetta, quando gli si pararono davanti due squadre di guardia nazionale accompagnate da carabinieri a cavallo e comandate da due ufficiali anch’essi a cavallo. Lo scontro fu inevitabile e violentissimo.  Accortasi chi aveva davanti, la guardia nazionale si disimpegnò scappando verso Cellino mentre i carabinieri cercarono di proteggerne in qualche modo la ritirata.  Dopo un accanito inseguimento vennero però raggiunti e sopraffatti: dodici di essi caddero prigionieri. Due vennero fucilati immediatamente, mentre gli altri furono liberati dopo aver subito il taglio dei lobi auricolari. Nel frattempo la masseria Angelini venne data alle fiamme. 

Il 21 novembre 1862 il Sergente Romano e la sua truppa entrarono trionfanti in Carovigno dove, dopo una travolgente scorribanda per le vie del paese, si concentrarono nella piazza principale per abbattere i simboli Sabaudi ed innalzare quelli Borbonici. 

Qui il Sergente Romano dall’alto di un balcone tenne un appassionato discorso alla folla in delirio, invitando tutti alla rivolta contro gl’invasori piemontesi ed i traditori liberali loro alleati. 

A questo punto il resto del paese scese tumultuante per le strade inneggiando a Francesco II, le case dei liberali vennero date alle fiamme, fu devastato il comune, distrutto il presidio militare, poi l’intera popolazione si portò in processione al santuario della Madonna del Belvedere per un solenne “Te Deum”. 

Lasciato Carovigno con l’aiuto di Cosimo Mazzei e la sua squadra che, rimasta di guardia nelle campagne circostanti si avventò con incredibile ardimento sui soldati piemontesi accorsi dai dintorni, il Romano ed i suoi uomini si diressero sicuri verso sud marciando tutta la notte per raggiungere la masseria Santoria nei pressi di Santa Susanna.  Il massaro era un certo Giuseppe de Biase, liberale e consigliere comunale di Oria. Senza perder tempo si rifornirono di cibo e foraggio; presero come ostaggio il – de Biase, onde evitare delazioni da parte dei parenti, e ripartirono per raggiungere i vari centri abitati della zona dove contadini festosi li acclamarono quali liberatori. 

I loro spostamenti diventarono rapidissimi onde evitare prima il frontale e poi l’accerchiamento delle truppe piemontesi che con marce forzate, fin dal giorno precedente, cercavano di agganciare la formazione. Intuendo come le volpi il pericolo imminente, i guerriglieri si rifugiarono nel bosco di Avertrana dove uccisero l’ostaggio che aveva tentato di avvertire le truppe sabaude.

 Ormai il sergente Romano era diventato un mito, la sua fama aveva raggiunto ogni angolo della regione tanto che poteva girare sicuro come un trionfatore, ma fu questa sicurezza che poi gli fu fatale. 

Disturbato dall’accresciuto numero di soldati piemontesi nella zona, verso la fine di Novembre decise di rientrare nel bosco Pianella marciando per chilometri attraverso campagne e paesi spavaldamente, in formazione militare, con in testa tanto di bandiera, tamburino e tromba. 

Ovunque lasciava simboli Borbonici, abbatteva linee telegrafiche, bruciava fattorie di liberali, rincorreva e colpiva squadriglie della guardia nazionale, bruciava archivi comunali. 

Il 1 Dicembre presso la fattoria Monaci, poco distante da Alberobello, l’intera armata dei ribelli era intenta a bivaccare tranquilla riposandosi dopo la lunga campagna effettuata nel sud della regione.

Ma il rientro in grande stile, ed il clamore delle gesta avevano fatto spostare in zona anche le truppe piemontesi che da mesi cercavano invano un vero e proprio scontro militare. 

Il sergente Romano non immaginando minimamente cosa si stava preparando di li a poco non si preoccupò di attivare spie e vedette, come era solito fare, consentendo così all’avanguardia della 16″ compagnia del 10″ Reggimento di fanteria di scorgere il campo senza essere avvistata. 

Il capo pattuglia intuendo l’importanza della scoperta, senza esitare avverti il grosso della compagnia. Dopo poco l’intero reparto si scagliò sui guerriglieri sorprendendoli disarmati e nel sonno: fu una carneficina. Il Romano ed i suoi uomini cercarono di abbozzare una resistenza ma essendo la situazione estremamente critica l’unica via d’uscita restava il disimpegno veloce. 

Abbandonarono in fretta la zona perdendo il grosso degli uomini, dei cavalli e degli armamenti. 

Aiutati dalle tenebre e dalla perfetta conoscenza dei luoghi il Romano ed i suoi uomini riuscirono a riparare nel bosco Pianelle dove curarono i feriti, recuperarono gli sbandati e soprattutto si contarono. Erano rimasti in 50. 

Ma il Sergente non si scoraggiò per il duro colpo e subito dopo mandò in giro i suoi uomini a reclutare altre forze ed a metà Dicembre riprese nuovamente le ostilità. Più velocità negli spostamenti e soprattutto più spietatezza negli scontri che dovevano essere esclusivamente agguati. 

Ormai li aveva tutti addosso, veniva braccato senza tregua da migliaia di uomini, tra soldati, guardia nazionale e carabinieri. 

Le campagne di Alberobello, Fasano, Castellana, Putignano, Cisternino e Gioia del Colle, venivano percorse solo di notte o nei temporali, con assalti brevi ma incisivi alle masserie e solo a piccole squadriglie di carabinieri e guardia nazionale, evitando con rapidissime ritirate ed audacissimi aggiramenti le grosse formazioni piemontesi. 

La notte di Natali tutta la compagnia la trascorse presso la masseria Antonio Surico, amico di famiglia del Romano, ma i carabinieri avendo sistemato lungo le vie di accesso alle massarie dei non liberali propri uomini con il compito di segnalare ogni spostamento sospetto, localizzarono i guerriglieri. L’area di azione ormai era stata individuata ed il Romano aveva perso un fattore fondamentale della sua guerra: la segretezza negli spostamenti. 

Il 30 Dicembre, mentre i Borbonici erano intenti a mangiare, gli piombò addosso una squadra di guardia nazionale comandata dal dott. Lino Romeo.  La risposta però fu immediata ed addirittura la situazione si ribaltò a favore dei legittimisti quando improvvisamente arrivò un intero reparto di cavalleggeri di Saluzzo che, richiamato dagli spari, era accorso prontamente. 

Per il Romano e la sua squadra fu nuovamente sconfitta e l’unica via di salvezza fu la fuga precipitosa lasciando sul terreno morti, feriti, armi ed attrezzature. 

Per evitare un facile inseguimento, appena fuori la mischia, la truppa legittimista si divise in più squadriglie con la promessa di riunirsi in tempi migliori.  Quindi il grosso della compagnia mosse alla volta delle alture delle Murge, zona più sicura. Ma il Sergente non si fece attendere molto. 

Il 4 Gennaio lungo la strada che porta al Santuario del Melitto, nei pressi di Cassano, tese un’imboscata alla guardia nazionale di Altamura.  Nello scontro furibondo che ne scaturì i militi fatti letteralmente a pezzi dai partigiani che si abbandonarono a violenze indescrivibili dettate da un odio e da un desiderio di rivalsa profondi ed incolmabili. 

Sapendo di avere addosso tutte le truppe della zona il Sergente, a notte fonda si sposto nel bosco di Vallata presso Gioia del Colle nello stesso posto da dove nel 1861 erano partite le sue prime incursioni. Ma anche questo suo spostamento fu intercettato e nel giro di qualche ora il bosco fu circondato da un intero reparto di cavallegeri di Saluzzo, comandato dal capitanp Bolasco, e da un plotone di guardie nazionali accorse in forze da Gioia del Colle. 

Il Sergente Romano ed i suoi uomini sentendo i nemici addentrarsi nella fitta vegetazione da tutte le direzioni intuirono la grave situazione e aspettarono immobili nei loro nascondigli fino all’ultimo momento. Lo scontro a fuoco fu micidiale e, terminate le scariche di fucileria, seguì un furioso corpo a corpo all’arma bianca.

 Uno alla volta i Borbonici caddero sotto i colpi sferzanti della soverchiante truppa nemica. 

Il Romano circondato dai militi piemontesi si battè con forza sovraumana fino a quando, coperto di sangue e ferito al grido di “Evvivorre!”, cadde gloriosamente. 

Alla sua morte gli uomini smisero di combattere e si lasciarono arrestare. 

Il corpo del partigiano fu miseramente spogliato della divisa borbonica e, issato come una preda ad un palo sopra un carretto, fu portato a Gioia del Colle, in via della Candelora, sotto le finestre della sua abitazione dove rimase esposto per una settimana. 

Nonostante ciò la popolazione ne non volle credere alla morte del proprio eroe e continuò a raccontare le sue gesta, ad aspettare il suo ritorno, a sperare in un futuro di giustizia. 

Ma il Sergente Romano era effettivamente morto e con lui era finita la resistenza armata all’invasore piemontese in terra di Puglia.

 

Fonte: da: “BRIGANTI & PARTIGIANI” – a cura di: Barone, Ciano, Pagano, Romano – Edizione Campania Bella


Feb 18 2009

LA MARINA MERCANTILE NAPOLETANA, LA CAUSA DELL’ UNITA’ D’ITALIA

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 09:14

La bella “Fregata Partenope” nel porto di Napoli

 

La vera causa dell’unità d’Italia e della   distruzione del Regno delle due Sicilie

Le industrie del Sud richiedevano continuamente materie prime e quindi richiedevano navi che le trasportassero. Essendo l’Italia meridionale attraversata da una dorsale appenninica formata di aspre montagne, e quindi da vie di comunicazione di difficile attraversamento, fu naturale, sin dai tempi dell’Impero Romano, che uomini e merci viaggiassero per mare.

Tutta la costa era punteggiata di centri i cui cantieri navali erano rinomati in tutto il mondo e che davano lavoro a migliaia d’operai occupai lavoravano nelle industrie collegate.

Nel 1818 il Regno delle Due Sicilie disponeva di 2.387 navi, nel 1833 il numero salì a 3.283, di cui ben 262 superiori alle 200 tonnellate e 42 che oltrepassavano le 300 tonnellate.

Nel 1834 i bastimenti arrivarono a 5.493 per salire a 6.803 nel 1838. 

Nel 1852 il numero di navi e bastimenti arrivò a 8.884.

Nel 1860 la flotta mercantile borbonica, seconda d’Europa dopo quella inglese, contava 9.848 bastimenti per 259.910 tonnellate di stazza, dei quali 17 piroscafi a vapore per 3.748 tonnellate, 23 barks per 10.413 tonnellate 380 brigantini per 106.546 tonnellate, 211 brick schooners per 33.067 tonnellate, 6 navi per 2.432 tonnellate e moltissime imbarcazioni da pesca.

I cantieri navali erano sparsi per tutta la costa tirrenica, ionica e adriatica. Praticamente in ogni città costiera vi erano insediamenti accompagnati da scuole di formazione professionale e scuole marittime e nautiche. 

Tutti pensano che Gaeta, allora, fosse solo una roccaforte militare che dava ospitalità a circa 10.000 soldati. In realtà, attorno alla fortezza ruotava un’ agricoltura ricchissima ed avanzata costellata da circa 300 trappeti che davano lavoro a centinaia di persone, come pure vi erano fabbriche di sapone e di reti. 

Gaeta, come altre città del Regno, era ricchissima e la sua flotta mercantile vantava molte società di navigazione con al servizio duemila marinai sempre in viaggio. 

Essa era composta da 100 brigantini e martegane, da 60 a 220 tonnellate di stazza, 60 paranzelle da 30-40 tonnellate e circa 200 barche a vela da 2 a 20 tonnellate di stazza che, ogni giorno, si recavano a Napoli o a Roma attraverso il Tevere, trasportando merci e passeggeri

I cantieri navali di Gaeta, da sempre attivi, costruivano brigantini, galeoni, saette e velieri che venivano anche esportati.

Tutto questo stava togliendo prestigio e competitività alla più imponente forza navale del tempo: la  Marina Reale Inglese. Non solo,le navi napoletane toglievano fette sempre più ampie al mercato della cantieristica inglese, non solo erano ottime,  ma tecnologicamente avanzate e anche più economiche.

Il varo della prima nave a vapore del mediterraneo, l’attuazione di rotte che giungevano in America del Nord, del Sud e nel Pacifico, ponevano le basi per intaccare  i mercati commerciali Imperiali.

Soprattutto, da lì a pochi anni, si sarebbe aperto il canale di Suez, e tal cosa avrebbe rischiato di fare diventare il porto Napoli, non solo uno dei porti cardine dell’Europa, ma innanzitutto la porta dell’Europa verso il cuore dell’impero inglese: LE INDIE

Questo non doveva accadere, non poteva essere tollerato.

Il resto lo conosciamo…

All’indomani dell’invasione piemontese, l’industria e la cantieristica del Regno delle Due Sicilie venne quasi praticamente tutta smontata e smantellata:  si doveva estirpare alla radice quel temibile concorrente economico.

Non solo, lo Stato Sabaudo, con una politica protezionistica a favore del Nord, con anticipi di capitale e generosi sussidi a favore delle compagnie liguri e della nascente industria padana, affossò patriotticamente la rimanente economia meridionale costringendo alla fame intere popolazioni.

Con l’avvento dei Savoia, il Sud importò solo fame e miseria per sconfiggere le quali erano possibili due soluzioni: la rivoluzione o l’emigrazione.

Il popolo tutto, verso la fine del 1860, insorse contro i piemontesi. 

Ma dieci anni di guerra civile, e una politica da terra bruciata da parte dei Savoia, finirono per distruggere l’intero assetto economico del Regno e la nazione precipitò nel baratro.

Dopo la sconfitta i Meridionali furono costretti ad abbandonare in massa la loro terra.

 

Fonte: liberamente tratto da srs di  Antonio Ciano

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Feb 18 2009

Il massacro di Napoli e del Regno delle Due Sicilie, appunti su un genocidio.

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 00:13

 

 

Nel 1815, quando i Borboni ritornarono a Napoli, la popolazione era di 5.060.000, nel 1836 di 6.081.993; nel 1846 la popolazione arrivò a 8.423.316 e dieci anni dopo a 9.117.050.

Questo vorticoso aumento della popolazione ha nome e cognome: benessere e progresso civile e sociale. Durante 127 anni di governo i Borboni diedero prosperità a tutto il popolo e da 3 milioni di anime, del 1734, si arrivò ai 9 milioni del 1856.

Cos’ era successo? Come fu possibile?

Nel Meridione non si costruivano strade fin dal tempo dei Romani e i vicerè spagnoli impoverirono la popolazione esigendo tasse e balzelli, i baroni inselvatichirono la vita civile, le campagne erano abbandonate, i boschi avevano invaso le terre fertili di buona parte del Regno, i pirati razziavano le coste, il commercio non esisteva quasi più e, non essendoci polizia, nessuno rispettava le leggi e solo gli  innominati di manzoniana memoria erano i veri padroni della società.

I Borboni  riuscirono dove gli altri fallirono, imbrigliarono e resero quasi innocui i baroni, costruirono strade, ricostituirono l’esercito e le amministrazioni locali cui diedero l’antica autonomia, diedero impulso all’industria, all’agricoltura, alla pesca, al turismo.

Da ultimo, tra gli Stati, divenne il primo d’Italia e tra i primi del mondo. Le ferrovie, inventate nel 1820,  fecero la loro prima apparizione a Napoli (1839) con il tratto che congiungeva la capitale a Portici e poi fu concessa al Bayard di continuarla fino a Castellammare. A spese del tesoro nel 1842 cominciò quella per Capua e poi l’altra per Nola, Sarno e Sansevero. Nel 1837 arrivò il gas e nel 1852 il telegrafo elettrico.

Col benessere aumentava la popolazione in tutto il regno e per questa stessa ragione anche le entrate pubbliche che, di fatto, quintuplicarono.

Continua a leggere”Il massacro di Napoli e del Regno delle Due Sicilie, appunti su un genocidio.”


Feb 17 2009

I Primati culturali ed economici dei regni di Napoli e delle due Sicilie:

Category: Regno delle Due Siciliegiorgio @ 14:37

 

 

1735: Prima Cattedra di Astronomia, in Italia, affidata a Napoli a Pietro De Martino

1751: Il più grande palazzo d’Europa a pianta orizzontale, il Real Albergo dei Poveri

1754: Prima Cattedra di Economia, nel mondo, affidata a Napoli ad Antonio Genovesi

1762: Accademia di Architettura, una delle prime e più prestigiose in Europa

1763: Primo Cimitero italiano per poveri (il “Cimitero delle 366 fosse”, nei pressi di Poggioreale a Napoli, su disegno di Ferdinando Fuga)

1781: Primo Codice Marittimo nel mondo (opera di Michele Jorio)

1782: Primo intervento in Italia di Profilassi Anti-tubercolare

1783: Primo Cimitero in Europa ad uso di tutte le classi sociali (Palermo)

1789: Prima assegnazione di “Case Popolari” in Italia (San Leucio presso Caserta).

 Prima istituzione di assistenza sanitaria gratuita (San Leucio)

1792: Primo Atlante Marittimo nel mondo (Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, Atlante Marittimo delle Due Sicilie. (vol. I) elaborato dalla prestigiosa Scuola di Cartografia napoletana)

1801: Primo Museo Mineralogico del mondo

1807: Primo “Orto botanico” in Italia a Napoli di concezione moderna,

(Per approfondire, vedi la voce Orto botanico di Napoli.)

1812: Prima Scuola di Ballo in Italia, annessa al San Carlo

1813: Primo Ospedale Psichiatrico italiano (Reale Morotrofio di Aversa)

Dopo la restaurazione (Regno delle Due Sicilie) 

1818: Prima nave a vapore nel mediterraneo “Ferdinando I”

1819: Primo Osservatorio Astronomico in Europa a Capodimonte

1832: Primo Ponte sospeso (il Ponte “Real Ferdinando” sul Garigliano), in ferro, in Europa continentale

1833: Prima Nave da crociera in Europa “Francesco I”

1835: Primo istituto italiano per sordomuti

1836: Prima Compagnia di Navigazione a vapore nel Mediterraneo

1837: Prima Città d’Italia ad avere l’illuminazione a gas

1839: Prima Ferrovia italiana, tratto Napoli-Portici, poi prolungata sino a Salerno e a Caserta e Capua.

1839: Prima galleria ferroviaria del mondo

1839:Prima Illuminazione a Gas di una città italiana (terza in Europa dopo Londra e Parigi) con 350 lampade

1840: Prima Fabbrica Metalmeccanica d’Italia per numero di operai (1050) a Pietrarsa presso Napoli

1841: Primo Centro Vulcanologico nel mondo presso il Vesuvio.

1841: Primo sistema a fari lenticolari a luce costante in Italia

1843: Prima Nave da guerra a vapore d’Italia (pirofregata “Ercole”), varata a Castellammare.

1843: Primo Periodico Psichiatrico italiano pubblicato presso il Reale Morotrofio di Aversa da Biagio Miraglia

1845: Prima Locomotiva a Vapore costruita in Italia a Pietrarsa.

1845: Primo Osservatorio Meteorologico italiano (alle falde del Vesuvio)

1848: Primo esperimento di illuminazione a luce elettrica d’Italia a Lecce, per opera di mons. Giuseppe Candido. Illuminazione dell’intera piazza in occasione della festa patronale.

1852: Primo Telegrafo Elettrico in Italia (inaugurato il 31 Luglio).

1852: Primo Bacino di Carenaggio in muratura in Italia (nel porto di Napoli).

1853: Primo Piroscafo nel Mediterraneo per l’America (Il “Sicilia” della Società Sicula Transatlantica di Salvatore De Pace: 26 i giorni impiegati).

1853: Prima applicazione dei principi Scuola Positiva Penale per il recupero dei malviventi

1856: Primo Premio Internazionale per la Produzione di Pasta (Esposizione Internazionale di Parigi

 premio per il terzo Paese del mondo come sviluppo industriale).

1856: Primo Premio Internazionale per la Lavorazione di Coralli (Mostra Industriale di Parigi)

1856: Primo Sismografo Elettromagnetico nel mondo costruito da Luigi Calmieri

1859: Primo Stato Italiano in Europa produzione di Guanti (700.000 dozzine di paia ogni anno)

1860: Prima Flotta Mercantile d’Italia (seconda flotta mercantile d’Europa) e prima Flotta Militare (terza flotta militare d’Europa).

1860: Prima nave ad elica (Monarca) in Italia varata a Castellammare.

INOLTRE

-Più grande Industria Navale d’Italia per operai (Castellammare di Stabia 2000 operai)

-Primo tra gli Stati italiani per numero di Orfanotrofi, Ospizi, Collegi, Conservatori e strutture di Assistenza e Formazione.

– Istituzione di Collegi Militari (La Scuola Militare Nunziatella il più antico Istituto di Formazione Militare d’Italia, ed uno dei più antichi del mondo

– Prime agenzie turistiche italiane

– La più bassa percentuale di mortalità infantile d’Italia.

– La più alta percentuale di medici per abitanti in Italia.

– Prima città d’Italia per numero di Teatri (Napoli), il Teatro San Carlo il più antico

  teatro operante in Europa, costruito nel 1737

– Prima città d’Italia per numero di Conservatori Musicali (Napoli).

– Primo “Piano Regolatore” in Italia, per la Città di Napoli.

– Prima città d’Italia per numero di Tipografie (113, in Napoli).

–  Prima città d’Italia per numero di pubblicazioni di Giornali e Riviste.

– Primi Assegni Bancari della storia economica (polizzini sulle Fedi di Credito)

– La più alta quotazione di rendita dei titoli di Stato (120% alla Borsa di Parigi).

–  Il Minore carico Tributario Erariale in Europa.

–  Maggior quantità di Lire-oro nei Banchi Nazionali (dei 668 milioni di Lire-oro, patrimonio di tutti gli Stati italiani messi insieme, 443 milioni erano del regno delle Due Sicilie).

 – Monopolio mondiale dello zolfo, avendo oltre 400 miniere di zolfo, copriva circa il 90% della produzione mondiale di zolfo e affini

Poi arrivarono i BARBARI


Feb 09 2009

Padri della Patria: Liborio Romano

Category: Italia storia e dintorni,Regno delle Due Siciliegiorgio @ 11:14

 

Se c’è un liberale del Risorgimento che meriterebbe di stare in un Pantheon, insieme ai vari padri della patria  (li conoscete  tutti, Cavour,  Garibaldi,  Mazzini, Vittorio Emanule Il) è certamente Liborio Romano, il grande liquidatore del Regno delle Due Sicilie. 

L’uomo che mise la camorra a presidiare Napoli, ma non lo si può scrivere  sui libri di  storia!  Altrimenti ai giovani meridionali potrebbero girare le scatole e, quando terminano le scuole,  invece  di andarsene a lavorare,  metterebbero tutto a soqquadro.

Figlio più illustre di Patù. Primogenito di una nobile e antica famiglia dalle tradizioni liberali, completò gli studi a Lecce, si laureò in Giurisprudenza a Napoli nella cui Università fu anche professore. 

Sin da giovane visse intensamente l’impegno politico frequentando gli ambienti legati alla Carboneria e diventando interprete appassionato delle più alte idealità del Risorgimento italiano, e per questo fu sospeso dall’insegnamento universitario. 

Nel 1860, quando ormai con Francesco II stavano per consumarsi gli ultimi atti del Regno dei Borboni, a Napoli Liborio Romano detto “Don Libò”, era  ormai conosciuto in tutti gli ambienti come il più brillante principe del Foro partenopeo.


Venne nominato prima Prefetto di Polizia e subito dopo Ministro dell’Interno e della Polizia, e si trovò nella necessità  di traghettare tramite Garibaldi, il Regno di Napoli dai Borboni ai Savoia,  la situazione era esplosiva, a Napoli poteva succedere di tutto.


In quel frangente il nostro Don Libò, scese a patti con la camorra locale,  rimasta fino allora relegata ai margini del sistema civile,  coinvolgendone gli esponenti di spicco nel lavoro di mantenimento della quiete pubblica. 

E così avvenne: la calma e l’ordine regnarono sovrani.

Garibaldi poté giungere solo e senza armi alla Stazione ferroviaria di Napoli, accolto da Liborio Romano in persona circondato da un popolo in festa.

Nelle Elezioni politiche del gennaio 1861, le prime del Regno d’Italia unita don Liborio fu il Deputato più votato in Italia, eletto in ben otto collegi elettorali: il 20 luglio 1865 si chiudeva la sua esperienza parlamentare.

Le premesse per il futuro disastro istituzionale  vi erano  tutte; la calma era solo apparente.

 

Come al solito ai naviganti l’ardua risposta.


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