Set 28 2009

IL DUOMO DI VERONA: FONTI

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Il Duomo di Verona visto da Castel San Pietro

 

Non esistono testimoniata di documenti che attestino con certezza le fasi dei lavori. Esistono tuttavia notizie, per lo più riferite da storici locali, a partire dal XVI secolo, che ci permettono di conoscere alcune date utili per la definizione di una cronologia del manufatto.

Il battistero di S. Giovanni in Fonte fu riedificato dal vescovo Bemardo nel 1123; la chiesa di S. Elena fu riconsacrata da Pellegrino patriarca di Aquileia nel 1140, come attesta un’epigrafe. Negli degli stessi anni inoltre fu la ristrutturazione delle case canonicali ed infine la costruzione del chiostro le cui prime notizie si fanno risalire al 1123.

Per quanto riguarda invece la fondazione della cattedrale, una notizia ci viene dallo storico Canobbio secondo cui:

«nel 1139 furono principiati i fondamenti del Domo nel modello, che di presente si vede».

I lavori sarebbero iniziati durante l’episcopato di Teobaldo II (1135-1157).

A tale proposito è opportuno segnalare che, a partire dal periodo in cui Teobaldo fu arciprete del capitolo, furono emessi dei privilegi papali. Nel 1121 questi furono concessi a Teobaldo dal papa Callisto II e poi riconfermati nel 1132 da Inocenzo II .  Gli stessi furono successivamente riconfermati da Innocenzo II nei confronti del nuovo arciprete Gilberto nel 1140), e infine nel 1177 da Alessandro III nei confronti di Riprando, eletto vescovo nel 1185.

La concessione del godimento di benefici si fa collegare in parte alla necessità di reperire fondi per intraprendere l’opera di risistemazione dell’area definita dalla cattedrale e dai complessi adiacenti negli anni immediatamente successivi al terremoto. Inoltre proprio Teobaldo e Riprando furono i maggiori artefici di una vera e propria riforma ecclesiastica della diocesi.

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Set 21 2009

Verona. Castel San Pietro, questo sconosciuto

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Verona: Castel San Pietro, questo sconosciuto

 

L’anno scorso, in autunno 2007, sono iniziati i lavori di sistemazione del Castello di San Pietro, ritengo quindi opportuno, quest’anno, raccontare la storia del monumento più importante di Veronetta perché, su quel colle, si racconta che sia nata la città di Verona. Infatti Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, dice che Verona era stata fondata dai Reti e dagli Euganei.

Oggi, con le ricerche archeologiche, sappiamo che gli Euganei sono vissuti nell’ età del Bronzo da 4000 a 3000 anni fa. In questo periodo di tempo abbiamo le Palafitte attorno al Lago di Garda e lungo il Mincio; le Terreamare: villaggi fortificati da un terrapieno in pianura (il più vicino a noi è il Castel del Leppia vicino all’ Adige, a Sud Est di San Martino Buon Albergo) e i Castellieri, villaggi sorti sulle colline e in montagna, difesi da mura a secco. Perciò Castel San Pietro era un castelliere e la sua fonte d’acqua era la Fontana del Ferro, sorgente famosissima per i Veronesi e ricchissima di leggende. Altro castelliere si trovava dove oggi abbiamo la torricella Austriaca n° 1  e la sorgente per i suoi abitanti è la vicinissima Fontana di Sommavalle. In conclusione: Veronetta è la città più antica della Pianura Padana.

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Set 06 2009

CASTEL SAN PIETRO: IL CASTELLO DI CANGRANDE DA VERONA

L’anno scorso abbiamo scritto la storia di Castel San Pietro partendo dalla preistoria. Su questo argomento alcuni amici mi hanno contestato dicendomi che Can Grande non costruì mai il suo Castello sul colle di San Pietro, infatti tutti gli studiosi antichi e moderni sostengono che sia opera di Giangaleazzo Visconti. Inoltre mi hanno chiesto dove fossero le prove di quanto andavo sostenendo.

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Giu 20 2009

Verona: La muletta di Santa Maria in Organo

Verona: La Muletta lignea con sopra il Cristo benedicente posta presso la chiesa di Santa Maria in Organo

 

 

L’animale degli umili: l’asino, il suo palio, ma anche divinità Mediterranea

 

Da Colle San Pietro passano strade che si dipanano per le dolci colline delle Tortesele. Già nell’epoca romana erano normalmente percorse dalle genti, piccole strade in proporzione ai bisogni odierni, ma al tempo quelli che ora sono viottoli rappresentavano proprio arterie importanti che da Verona portavano in varie direzioni preferendo la via della collina a quella della pianura.

Queste strade, che furono sopratutto vie di trasporto condivise fra animali e uomini, oggi rivivono come percorsi didattici e naturalistici che hanno mantenuto nei secoli il loro fascino inalterato.

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Giu 19 2009

ALLA RICERCA DELL’ ORIGINE DEL NOME DI VERONA

Veduta di Castel San Pietro

La prima dichiarazione “etrusca” del toponimo Verona è di Wilhelm Schulze, prospettata nella sua importante e geniale opera Zur Geschichte Lateinischer Eigennamen (1904) (ristampata Mit einer Berichtigungsliste zur Neuausgabe von Olli Salomies, Zürich-Hildesheim 1991, pag. 574).

Per la sua tesi lo Schulze ha fatto riferimento al suffisso – “ona”-, che ha riscontrato anche nel toponimo Cortona (etr. Curthun) e in altri toponimi di assai probabile origine etrusca, come i toscani Cetona, Faltona, Vescona, Vettona, per i quali ha richiamato rispettivamente i vocaboli etruschi veru, vescu, vetu. Per Faltona io richiamo l’antroponimo etrusco Faltu e per Verona l’antroponimo femm. Verunia, col corrispondente gentilizio lat. Veronius (DETR 442, 162).

In tutti questi toponimi faccio notare da parte mia la trasformazione dell’originario suff. etrusco –ũ-/un- in quello successivo lat. –ōn-.

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Giu 18 2009

Castel San Pietro – L’acropoli di Verona

Ricostruzione dell’acropoli (santuario) di Verona – L’attuale Castel San Pietro

PERCORSI DEL CUORE E DELLA MENTE

Questi percorsi che andremo a scoprire sulle colline alle spalle della città, collegamenti antichi da rivivere fra Avesa, le Toresele e Borgo Venezia, sono luoghi da catturare con i sensi, da  sentire con il corpo. Luoghi non contaminati che mantengono un fascino unico, salvati  dal degrado fisico e spirituale, oggi poco frequentati e poco conosciuti, forse per questo  intensamente vivi e coinvolgenti. Vie di fuga della mente dove il tempo scorre con altra velocità  ed intensità,che risvegliano le nostre energie assopite, i ricordi profondissimi di profumi, suoni, sapori e visioni arcaiche che toccano inevitabilmente il sacro.

Castel San Pietro, è a pieno titolo parte fondamentale di questo riappropriarsi della natura e della storia di Verona. Mantiene ed emana ancora un fascino unico, salvatosi dalla totale distruzione fisica, conserva intatta l’anima del luogo, intensamente  vivo e coinvolgente.

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Giu 10 2009

Verona vista da Marin Sanuto

Di Vittorio Zambaldo

STORIA. RISTAMPATI GLI «ITINERARI» DEL CRONISTA VENEZIANO, RESOCONTO DEL VIAGGIO NEL TERRITORIO DELLA SERENISSIMA COMPIUTO NEL 1483

DA MARIN SANUTO

«Boteghe 12 de pani bianchi infiniti; le altre viene per questi afitade; et è murata atorno con mure alte et si sera; qui s’è molti pani, adeo che tuti qui vieno a comprar si per il bon mercado qual per la bontà. Et oltra le altre cosse bellissime in questa cità, le becharie sono monde, et sopra l’Adexe». Così appare al giovane veneziano Marin Sanuto, nel 1483, il centro di Verona, con «dodici botteghe di pane bianco in infinite forme e gusti ed altre vengono affittate grazie al movimento che queste procurano; la zona è recintata da alte mura e alla notte si chiude; si possono trovare tanti tipi di pane, cosicché tutti vengono qui a comprare sia per il buon prezzo sia per i buoni prodotti. Oltre alle altre cose bellissime, in questa città le macellerie sono pulite e tutte sulla riva dell’Adige».

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Apr 22 2009

IL PATARINISMO A VERONA NEL SECOLO XIII Dagli studi di CARLO CIPOLLA

Castello di Sirmione ultimo baluardo dei Patarini

a cura di Silvio Manzati

Nel secolo XIII numerose e potenti sette d’eretici pullularono nella città e nella provincia di Verona. Erano i Catari o i Patarini, che si dilatarono fra noi venendo dalla Lombardia e dal Piemonte.


La guerra politico-religiosa condotta per tanti anni da Federico I contro il papa Alessandro III favorì l’accrescersi della potenza di queste dottrine, che, in un modo o nell’altro, combattevano la chiesa romana.
Alessandro III le condannò nel concilio lateranense (anno 1179). Il papa Lucio III e Federico I rinnovarono le condanne contro gli eretici nel concilio di Verona (novembre 1184). Nel decreto canonico sono nominatamente anatemizzati i catari, i patarini, gli umiliati, i poveri di Lione, i passagini, gli josepini e gli arnaldisti.



È probabile che in Verona, sin da quel tempo, fossero numerose le presenze delle sette. Le condizioni politiche d’Italia, al tempo di Enrico VI, figlio di Federico I, e successivamente, furono tali da incoraggiare qualsiasi opposizione al pontificato.  Fra’ Tommaso da Lentini, biografo e contemporaneo dell’inquisitore domenicano veronese S. Pietro detto Martire, ci testimonia l’insediamento dei patarini a Verona nei primi anni del sec. XIII.  Fra’ Tommaso, raccontando un episodio dell’infanzia, riferisce che il padre e lo zio di Pietro erano eretici. Siamo nel 1212 o 1213, in un tempo in cui la preponderanza ghibellina era ormai stabilita in Verona.



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Mar 22 2009

IL CASTEGGION (CASTEJON) DI COLOGNOLA AI COLLI: L’ALTARE SOTTO L’ASFALTO

Altare a coppelle del  Castejon, disegno

Verona 1973

In archeologia, come « coppelle» o « cuppelle»  (dal latino « piccole  coppe») vengono definite quelle concavità più o meno numerose e di diametro più o meno minuscolo che – per lo più dalla tarda età del Bronzo in poi – l’uomo ebbe a praticare su lastre di basalto, porfido od altre rocce con strumenti di selce o di metallo.

Purtroppo le voci « coppella » o « cuppella » non esistono ne sull’ Enciclopedia Italiana Treccani e nemmeno nei molti manuali di preistoria, protostoria od archeologia oggi in commercio.

UN INTERROGATIVO ARCHEOLOGICO

Eppure, sin dai primordi della paletnologia, la forma e la disposizione di tali rotonde incisioni rupestri destarono l’interesse degli studiosi anche se – a quel che mi risulta – nessuno ancora vi si dedicò con uno studio che definisca chiaramente tutti i problemi fatti sorgere da questo non unico interrogativo archeologico.

Va ancora tenuto presente – per quel che riguarda le « coppelle » su pietre basaltiche – che il basalto, come roccia formatasi in seguito al raffreddamento ed alla solidificazione di magma fuso (i basalti veneti hanno un’età che va dal Cretacico superiore al Miocene inferiore),  presenta spesso una struttura porosa con bolle formate da scorie vulcaniche. Tale roccia, se spaccata, può dunque presentare talvolta « coppelle » naturali anche se grezze ed irregolari, ma chiaramente differenziabili dalle « coppelle » formate dall’ uomo su di un « liscione » levigato da agenti naturali o artificiali.

L’autore che maggiormente si è diffuso, ai primi del nostro secolo, sul problema delle « coppelle » è stato certamente Emilio Carthailhac  (1) il quale ci assicura che « les pierres à ecuelles » vennero segnalate per la prima volta nella Svizzera, nella seconda metà dello scorso secolo. Seguì la constatazione che analoghe pietre a coppelle esistevano nella Scozia, in Inghilterra, in Irlanda,  Scandinavia, Marocco, Francia, Germania, Portogallo  (2).

MITI E RELIGIONI SOLARI

Che tali manifestazioni “d’art mobilier”, come dicono i francesi, fossero un tempo legate al culto delle pietre e del Sole, sembra oggi scontato.  Infatti, per il primitivo, la pietra non fu mai qualcosa di morto poiché la durezza, la pesantezza, la compattezza della pietra rappresentavano per lui cariche di forza misteriosa e divina.  Anche il capo degli apostoli, Pietro, non ebbe infatti da Gesù il soprannome di Cefa  (greco Petros, roccia) e cioè « uomo-pietra »?  E nel Vangelo è scritto che Gesù disse a lui: « Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa ».

Nella fantasia poi degli uomini soprattutto dell’età del Bronzo, molti altri fenomeni inspiegabili divennero oggetto di potenza magica, come l’acqua che sprizza dalla roccia, come lo strano potere di tal une pietre di trasformarsi, di divenire un’altra cosa, come la roccia che – sotto l’azione del fuoco  si trasforma in metallo completamente diverso dal minerale, bianco come la luna o giallo come il sole.  Da quelle pietre, per l’azione del sole o del fuoco, emanava un caldo flusso di vita, come al piede del primordiale sacrario di Colognola ai Colli, sprizzava, anche nel pieno dell’inverno, l’acqua tiepida di Caldiero.

Una volta che l’uomo constatò tali forze per lui misteriose cercò di indurle in se stesso propiziandosele ed il rito più corrente consiste nell’aspergere di sangue o di olio la pietra sacra come offerte alla « casa del dio »  (Betel).

L’OFFERTA DELL’OLIO

L’ olio, quale sostanza dotata di forza, aveva nel culto la stessa parte del grasso che si usava bruciare come sacrificio alle divinità superiori; l’ungere d’olio l’oggetto di culto oppure offrirgli dell’olio aveva per fine un immagazzinamento di forza e le coppelle trattenevano più a lungo la liquida sostanza sulla pietra consacrata.

E non era l’olio necessario per avere la luce che illumina?  Possedeva  quindi un potere invocatorio, era indispensabile nella lotta contro le tenebre, cioè contro le potenze del male che privavano gli uomini dei benefici e salutari raggi del Sole.

Nella mitologia del popolo greco l’olivo era l’albero sacro a Minerva poiché si credeva che tale divinità l’avesse introdotto nell’Attica facendolo scaturire dalla roccia quando essa, con la sua lancia, colpì il sacro suolo dell’  Ellade.

Così i Semiti ungevano d’olio la pietra sacra (Genesi, XXVIII, 18), così per i Sardi dell’età del Bronzo si celava nella pietra lo spirito fecondatore e « questo era assunto, magicamente, dalle vergini spose, scivolando, nude, sul pilastro unto per l’occasione (pietra di Ortueri detta « Sa Frissa »,  cioè « l’unta »,  che ricorda la «colonna unta» o « toro del cielo» del mito egizio), o sfregandovi il ventre  e  il sesso o semplicemente arrampicandosi: era il sacrificio venereo al genio della pietra, perchè il grembo femminile non negasse la prole, segno di maledizione e di castigo. (3).

MANIFESTAZIONI MAGICHE

Manifestazioni magiche che ricordano quelle descritteci dal Cartailhac  (4) : « Dans le departement de l’Aain, lorsque les jeunes filles e les veuves allaient en pèlegrinage à l’antique chapelle de Saint-Blaise, elles passaient à Thoys et près d’un petit bloc erratique ovale, couvert d’une soixantaine de cupules; là, elles se livraient à certaines pratiques pour obtenir un epoux dans l’annee ».

E lo stesso autore aggiunge che da tutta la penisola indiana, le femmine portano acqua dal Gange fino alle montagne di Penhjab per irrorare le coppelle esistenti in quei templi implorando la divinità che faccia loro la grazia di divenir madri.

Così fra i Semiti occidentali si usava ungere le « massêbôt », le sacre pietre, con sangue e con olio per indurre in esse o nel nume in esse contenuto, una forza voluta. Pertanto in Oriente anche oggi vengono unte le statue divine, come nel culto di Quirino si ungevano le armi, i re ed i profeti, come ancor oggi si ungono con l’ Unto del Signore i sacerdoti, e si dà l’estrema unzione ai cattolici morenti per dare un certo qual vigore all’anima che se ne va. Il sacro « crisma » infatti non è che una miscela d’olio d’oliva e di balsamo che serve anche nella consacrazione delle chiese e degli altari.

Nell’Annuario Scientifico ed Industriale (a. III, 1866, pag. 224) a cura di Giovanni Canestrini è scritto:  « Morlot fece alcune osservazioni sulle pietre a  scodella, di cui si rinvennero degli esemplari in diversi cantoni della Svizzera: esse si trovano fino nel centro delle Alpi e ad una altezza ragguardevole. Gerlach ne trovò una sulla via del Sempione e Morlot ne vide un’altra presso il villaggio d’Ayer. Quest’ultima è molto singolare; essa è coperta di molte cavità artificiali. Gli abitanti la chiamano Pietra del Selvaggio e dicono di vedervi sovente le fate.  Scavando nel suolo intorno alle pietre e scodella si trovano talvolta dei carboni e dei frammenti di vasi antichi. Il masso a scodella osservato da Gerlach trovasi presso il villaggio di Schalberg all’altezza di più che 1500 metri e chiamasi Sasso delle Streghe. Due altre simili pietre furono osservate dal Morlot presso Thonon; la più interessante si fu quella di Peneux formata da un masso erratico portante alla faccia superiore molte cavità artificiali. La gente del paese diceva che il sabato vi si radunavano gli stregoni e che talvolta nelle cavità si trovava dell’olio, allorché farebbe credere vi si facessero ardere degli stoppini e che il masso a scodelle servisse da altare. Altre pietre a scodelle furono osservate dal dotto Clement a Saint-Aubin, cantone di Neuchatel, dove ne vide di quelle a molte cavità comunicanti per solchetti ».

L’OFFERTA DEL SANGUE E DEL VINO

I veneratori di divinità acquatiche fanno scorrere nell’acqua il sangue delle vittime ad esse offerte; quelli che adorano divinità risiedenti nelle pietre sacre facevano e fanno altrettanto lasciando scorrere  del sangue sul sacro altare.  Avevano incavi per tali liquidi le tavole di pietra (hotep) degli Egiziani, trovate in gran numero nelle tombe; coppelle venivano incise sulla pietra presso le tombe degli antichi Sardi. Hanno incavi per i sacri liquidi gli altari rinvenuti negli strati più bassi e perciò più antichi delle città  Cananee, Megiddo e Taanach,  altari consistenti in una semplice roccia, nella quale sono state scavate delle scodelline per le liquide offerte.

Il sangue è per l’uomo l’eminente veicolo della forza vitale, poiché se esce dal suo corpo, l’uomo muore: ecco perchè, nei rapporti tra l’uomo e il dio, si tingevano e si aspergevano anche di sangue gli altari. Il sangue, con il Cristianesimo, venne sostituito, nel sacro rito, con il vino e infatti è l’espansione del Cristianesimo che ha contribuito alla diffusione della vite, essendo il vino, per i cristiani, l’elemento indispensabile per celebrare la messa.  Erano infatti contrari al vino i Buddisti e gli Ebrei, e così i Metodisti e i Mormoni.  Nabucodonosor a Babilonia versava « fiumi» di vino e d’olio sugli altari per onorare gli dei; a Roma, per purificare un campo che si coltivava per la prima volta, si spruzzava la terra di vino. Ancora oggi, nella Valpolicella, i vecchi, prima di bere il primo bicchiere di vino intingono due dita nel bicchiere e le scuotono verso terra affinché alla « madre» siano restituite alcune gocce propiziatorie. Nel Gabon la più alta espressione del sacrificio consiste nel versare sul terreno vino di palma, idromele e birra di banana (5).

GLI ALTARI ALL’APERTO

Scrisse Grillo Korolevskij, alla voce Altare, nell’Enciclopedia Italiana Treccani, che « nelle età più antiche il culto non era reso nei templi, ma all’aperto, così anche gli altari erano costruiti, senza alcuna relazione a un tempio, qua e là, dovunque il divino si credeva presente: sulle alture, in mezzo ai boschi, alla sorgente dei fiumi, ecc., o anche in cavità sotterranee, quando erano destinati al culto di una divinità ctonia o di qualche personaggio defunto ».

Così i Greci e i Romani non avevano altari nei templi ma nei luoghi aperti, e, in origine, non li avevano che di rozze pietre o di zolle.

Taluni reputano che la stessa voce altare sia derivata da alta e ara che appunto significherebbero luogo rialzato, ma altri da altus, participio passato di alere, nutrire, indicando la mensa dedicata a ricevere il cibo offerto al nume, voce questa che ancor più ci avvicinerebbe alla funzione delle nostre coppelle.

Diego Sant’Ambrogio in una nota di commento nell’opera classica di divulgazione del Du Cleuziou (La creazione dell’uomo e i primi tempi dell’umanità) ricorda: « Di queste pietre con scodelle, o pietre cuppelliformi, parlò per primo Desor nel 1879, e ne furono rinvenute anche in Italia, al Piano delle Noci in Val d’Intelvi per cura del cav. Barelli, e presso Rivoli per opera del dotto Piolti.

Nell’una e nell’altra località le cavità scodelliformi si vedono su massi erratici, ma in vicinanza di Sion nel Vallese si scopersero cavità consimili anche sulla roccia in posto. Si consultino per maggiori notizie, la Rivista Archeologica della provincia di Como del settembre 1880 e gli Atti dell’Accademia di Torino, dell’anno 1883, vol. XVI. ».

COPPELLE E ASTRONOMIA

Da parte sua il Cartailhac (6) assicurò che nella Svizzera sin da allora ci si chiese per la prima volta se i gruppi di coppelle non volessero raffigurare qualche costellazione.

Ma anche nell’appendice al citato volume del Du Cleuziou, tra le “Ultime scoperte fatte nell’antropologia preistorica” vi è pure un’interessante lettera del principe russo Paolo Pontiatinn indirizzata a Camillo Flammarion verso la fine del 1884 e da questi pubblicata in Astronomia, rivista mensile di astronomia popolare, 1 febbraio 1885.

La lettera presenta « il facsimile d’un disegno astronomico fatto sopra un lisciato d’ardesia trovato a Bologoe»  e il Flammarion dichiarò che  « era forse un amuleto dei primi pastori », aggiungendo: « La rappresentazione dei sette astri del settentrione non è rara fra gli antichi. Visitando le solitudini di Bretagna nei dintorni di Guerande e del borgo di Batz, abbiamo osservato sugli scogli un gran numero di disegni fatti col mezzo di fori sulle rocce e fra di essi si riconoscono fra l’altre, la Grande Orsa e Cassiopea ».

E conclude:  «… non si saprebbe ringraziare abbastanza coloro che discoprono simili vestigia delle età scomparse e si danno cura di farle conoscere, affinché, con la pubblicazione, apportino il loro elemento al miglior progresso generale delle conoscenze umane ».

Ma per passare dallo scorso secolo ad oggi – sempre in tema di coppelle e astronomia – ecco quanto ci dicono Carlo Sebesta e Scipio Stenico in un loro ottimo studio (7):  « Per quanto riguarda una eventuale puntualizzazione sui fenomeni celesti si dovrà tener conto della possibilità di una puntualizzazione  celeste, in periodo preistorico, molto più raffinata di quella che non possa eseguire un comune uomo dei nostri giorni e per il quale le situazioni astronomiche non hanno un addentellato ideologico che lo sollecitino.

ASTRONOMIA E PREISTORIA

« Oltre all’avvicendarsi del giorno-notte, oltre alle fasi lunari, si presero certo in considerazione già in tempi molto remoti, i movimenti del cielo stellare e si stabilirono i rapporti sole-luna, sole-stelle raggruppati in costellazioni. L’osservazione celeste è stata evidentemente una delle prime specialità scientifiche con carattere di sacralità ed il lato magico di questa osservazione è confermato dal fatto che l’astronomia diviene precocemente scienza di casta sacerdotale. Certamente non si può generalizzare a tutte le coppellazioni un significato di trasposizione astronomica. Esiste però un gruppo di segnalazioni critiche con dimostrazioni di situazioni solari, solstiziali ed equinoziali molto evidenti; così dicasi per quanto riguarda il campo stellare e zodiacale di cui troviamo relitti di guida a ritroso su sigilli e ornamenti dell’Asia Minore, ancora sigilli e certa decorativa ceramica micenea . . .

« Annotiamo qui per il Trentino, in campo di figurazione stellare, una segnalazione del Calestani (8) su un gruppo di coppelle della Val di Sole in cui si ritenne di ravvisare la Cassiopea (purtroppo il masso è andato distrutto) e, per il confine Trentino – Alto Adige, la segnalazione del prof. Leonardi (9) che ci lasciò una precisa riproduzione figurativa nella quale abbiamo riconosciuto senza equivoco la costellazione dell’Orsa Minore annotata con tale precisione da poter riconoscere nel contesto della costellazione vari gradi di grandezza stellare e da poter presumere di arrivare ad intuire la stagione fissata dall’incisore astronomo. Purtroppo il testo di coppellazione è mutilo; la presenza però a Ovest dell’Orsa Minore di altre coppelle in particolare posizione-rapporto ci  fa sospettare un quadro comprendente anche l’orsa Maggiore. Qui, oltre all’interesse cronologico stagionale ci pare notevole la possibilità di una datazione di epoca di coppellazione che tragga supporto dai reperti archeologici del luogo ».

Per quel che di « astronomico» può riferirsi alla grande « pietra a coppelle» di Colognola ai Colli, lasceremo agli specialisti l’incarico anche perchè – sia la fotografia che il disegno ricavati – non possono avere che un carattere indicativo. A noi comunque rimane sempre il dovere di invitare quanti devono e possono farlo, a rimettere in luce il reperto poiché trattasi di una grande manifestazione d’art mobilier, fino ad oggi unica del suo genere in tutta la Lessinia.

INSEDIAMENTI E COPPELLAZIONI

Ma per riprendere il nostro – chiamiamolo pure così – excursus archeologico, una vera e propria relazione  cronologica tra insediamenti Preistorici e coppellazioni (in rocce o massi sulle sommità di colline in luoghi panoramici, in prati di alta montagna, in castellieri del Trentino) se la proposero – per primi nelle Venezie – il Sebesta e lo Stenico con l’opera citata, ma a conclusioni vere e proprie sembra che anch’essi – per il momento – non siano ancora giunti.

Sappiamo di una serie di coppelle scavate sulla superficie porfirica del Dos Zelòr in Val di Fiemme, scoperta nel 1949 dall’ illustre amico dott. Piero Leonardi il quale scrisse che l’ insediamento, sorse probabilmente alla fine dell’età del Bronzo sulla sommità del dosso, con le caratteristiche di un « castelliere ». Tale insediamento si estese poi, nell’età del Ferro, sui fianchi del colle e sui prati a settentrione, raggiungendo il massimo sviluppo, nei  primi secoli dell’ Impero romano (10).

Della fine dell’età del Bronzo sembrerebbe la coppella di uno dei massi del « Ciaslir » del monte Ozol nella Valle di Non (11) mentre sembrerebbero dell’età del Ferro le coppelle di un masso rinvenuto ai Montesei di Serso presso Pergine in Valsugana durante scavi condotti da Renato Perini, Alberto Broglio ed altri.  Il masso con coppelle era immerso in terriccio con carboni e resti di ceramica tipo Luco  (12).

Del Bronzo-Ferro sembrerebbero pure molte manifestazioni coppelliformi della Valcamonica.

Il Süss  (13) ricorda, a questo proposito, che nei pressi delle Terme di Boario, fissate su una rossa arenaria nota con il nome di « pietra simona », sono state scoperte, nel 1955, molte figurazioni e   su varie rocce è impressionante il numero delle coppelle,  a decine, di tutte le forme e di tutte le dimensioni: la posizione delle rocce e la presenza di tante coppelle ci dice della loro destinazione a luogo sacro, luogo di sacrifici o per lo meno di offerte votive sotto forma di piccole quantità di olio o di frumento o di sangue degli animali immolati in onore delle divinità del posto. Ciò premesso non ci meraviglia trovare sul « Crap di Boario » diverse iscrizioni a caratteri l’retici, almeno una decina, sempre parole o lettere isolate, o parole monche e piuttosto irregolari, come se mani diverse e non sempre abili avessero tracciato le varie scritte. Questa « roccia delle iscrizioni » è situata ad una cinquantina di metri a picco sulla nazionale tra Darfo e Boario.

Anche secondo il Siis, l’accostamento di iscrizioni in caratteri retici alle «coppelle» confermerebbe che i piccoli incavi tondi vanno proprio considerati come recipienti per le offerte alle divinità, comunque anche per la Valcamonicia la relazione cronologica tra insediamenti e coppellazioni non è stata ancora definita.

E così dobbiamo dire delle coppelle di San Vigilio e di altre località della Gardesana montebaldina scoperte dal prof. Mario Pasotti unitamente a infinite altre incisioni rupestri le quali, ormai da anni, attendono di essere valorizzate come meritano ed ulteriormente studiate.

SALVARE IL SALVABILE

Molto ancora dunque si deve ricercare e studiare prima di giungere alla risoluzione del nostro interrogativo fissando in modo particolare l’attenzione sui livelli ligure, celtico, retico, gallo-etrusco e gallo-romano.

Da qui la massima importanza di ricerche approfondite sui tre principali castellieri veronesi sorti a dominio della Via Postumia romana e preromana, situati in San Briccio di Lavagno, Colognola ai Colli,  Monteforte d’Alpone e risalenti tutti quanti meno alla tarda età del Bronzo.

Ma tutto questo se si vorranno salvare da ulteriori gravissime manomissioni poiché i danni peggiori, questi tre complessi archeologici debbono ancora subirli.

A San Briccio di Lavagno, sul colle basaltico che separa la valle di Mezzane, costruendo (1883-84) la fortificazione tutt’ora esistente, assieme ad altri resti archeologici e con scheletri umani  (Notizie degli Scavi – 1884), vennero pure  messi in luce due pezzi di corna di cervo segati e forati alla base con incise iscrizioni venetiche riconosciute da Carlo Cipolla e Stefano de Stefani.  Tali iscrizioni richiamarono alla mente quella incisa su una spada di bronzo rinvenuta nel 1672 a Cà dei Cavri presso Verona.  La spada apparteneva al Museo Moscardo e poi passò al conte Marco Miniscalchi (Segala G. Storia patria).  Sul colle si rinvennero pure vasi a bande orizzontali rosse e nere del terzo periodo e molti altri oggetti atestini.  (F. Zorzi – Preistoria veronese – Insediamenti e stirpi – Verona, 1960).

Ma fin dal 1846 San Briccio aveva già fatto parlare della sua preistoria allorchè venne alla luce « un singolare parallelepipedo di argilla mediocremente fina a spigoli rientranti, ornato in testa di una croce diagonale profondamente incisa, raccolto dall’ingegnere Antonio Mazzotto sulle falde del colle di San Briccio di Lavagno, non meno di tre metri sottoterra, fra grandi pezzi di corna cervine, ed un corno di capriolo» (14).  Il « singolare parallelepipedo » era forse un peso da telaio od una « piramidetta votiva ».

Quali legami possano avere questi rinvenimenti di San Briccio con il non lontano Castejon di Colognola è presto detto ricordando quanto ci (15) raccontò Angelo Tregnaghi del luogo e che nella primavera del 1967 aveva 74 anni.

« Sul Castejon – affermò il Tregnaghi – quando go impiantà le vigne e sarà quaranta ani, go fato un fosso soto el marognon (ad ovest del muro più grosso) verso la Mota (il tumulo (?) a nord del castelliere) e gavemo catà pignate rote e meso saco de corni de cervo con su de le scrite ». Richiesto come si presentassero tali “scrìte” ci spiegò che vi si vedevano incisi dei segni diritti e tra questi di quelli simili alle “K” ». Erano dunque scritte retiche o venetiche?

Nulla di assolutamente improbabile e da qui la necessità di scavi accurati poichè tratterebbesi di ex voto assai caratteristici ed oltremodo tipici delle popolazioni alpine insediatesi anche nella nostra regione prima del dominio romano.

« Tali iscrizioni – come dichiararono il Pellegrini e il Sebesta (16)- forniscono un materiale di estrema utilità per istituire confronti e parallelismi con altre stazioni preromane e soprattutto con Sanzeno in Val di Non e con Magrè presso Schio ».

« . . . Trattandosi con tutta probabilità di ex voto, dovremmo ipotizzare che contengano una formula di ringraziamento. Secondo tale supposizione, oltre ad un eventuale nome di divinità, e forse il nome dell’offerente, i corni potrebbero contenere l’equivalente di formule dedicatorie ben note in iscrizioni latine e presenti anche in una bilingue venetico-latina ».

« . . . Per gli ex voto ottenuti da palchi di cervo, il santuario perginese richiama da vicino la stipe di Magrè Vicentino e altri rinvenimenti occasionali; ad es. il corno iscritto di Tarces in Venosta, quelli di Sanzeno e di Meclo in Val di Non e di San Briccio di Lavagno (Verona) ».

« . . . Un’iscrizione in cui si legge chiaramente “arus’nas” ci offre inoltre notevoli garanzie di sicuri contatti tra il Trentino ed il Veronese, nel quadro delle popolazioni preromane, prevalentemente retiche, etruscoidi, e poi galliche, ma comunque gallo-venete ».

Fondamentali in proposito gli studi di Giulia Fogolari su “Sanzeno nell’ Anaunia, di Giuseppe Pellegrini per Magrè, e di K.M. Mayr su San Briccio di Lavagno.

DALL’ EPOCA ROMANA AL MEDIOEVO

Per quel che riguarda il Castejon durante il periodo romano vero e proprio non va dimenticato che in tutta la zona del comune di Colognola ai Colli si rinvennero monete e ruderi di quel periodo (17),  statuette di bronzo, tombe ed avanzi di acquedotti in piombo e cotto.

È noto agli archeologi ed agli storici (18) che per Colognola ai Colli passava una variante alla  Via Postumia che proseguiva poi per le frazioni Pescaria, Fontana del Castejon e ridiscendeva ad Orgnano, San Vittore e Soave, da cui al Castelliere del Monte Zoppega e continuava quindi verso Montebello ed il territorio vicentino.

Alcuni reperti archeologici parlano chiaramente di un adattamento del Castejon a fortilizio romano e le tradizioni orali accennano ad una “città”  romana sepolta nel Castejon, a segnalazioni con fuochi e fumate tra il Castejon ed i colli di Soave.

Il Castejon ebbe importanza e rimaneggiamenti anche nel Medioevo e infatti, nella Cronica di Verona dello Zagata (pag. 31, Parte Prima) è scritto che nel 1236 « el Castegion da Colognola fò dato al Conte Rizzardo (di Sambonifacio) per Filippo fiolo de Bonaìgo ». Lo Zagàta  precisa altresì in nota: « Cioè un Forte, che serviva come vanguardia al Castello; Ritiene ancora quel Monte sopra del quale era edificato; ed ora (1745) è posseduto dalla Famiglia Felisi ».

Come si combattesse in periodo medioevale attorno ai « castellieri » riadattati viene raccontato dallo storico Sismondo de’ Sismondi  (Vallardi, Milano, 1860) nella sua Storia della Libertà in Italia:  «… Il più delle volte in tutto il corso d’una guerra non si veniva a battaglia campale, e talvolta non si badaluccava nemmeno: in tal caso tutta la guerra consisteva in una o più cavalcate, chè così chiamavansi le scorrerie ne’paesi nemici.  L’esercito nemico innoltravasi con intenzione di bruciare le case, distruggere le messi, di rubare le mandre; tutti gli abitanti fuggivano al suo appressarsi, e riparavano entro le terre murate. Siccome gli aggressori non potevano trattenersi per assediarle, proseguivano il cammino guastando tutto quello in cui s’abbattevano. Intanto il condottiero cui era affidata la difesa del territorio, provvedeva i castelli di truppe, teneva dietro ai nemici, spiava l’opportunità di sorprenderli, s’avventava contro i predatori sbandati, li forzava a non allontanarsi dal campo ed in pochi giorni obbligava quasi sempre l’aggressore a dare addietro ed a uscire dal territorio per mancanza di vittovaglie . . . non potevasi occupare una valle della lunghezza di sei miglia se non dopo aver superato otto o dieci castella con altrettanti assedj . . . Se il nemico non trovava viveri nel paese in cui guerreggiava, non poteva némeno trarne dal proprio, perchè tutto lo spazio che si lasciava addietro, non essendo sottomesso, gli si potevano togliere ad ogni passo i suoi convogli. Noi siamo usi talmente a tener conto della forza terribile e distruttrice del cannone, che non sappiamo concepire come si potesse sfidare il nemico colla sola difesa d’un muro. . . ».

IL CASTELLIERE DELLO ZOPPEGA

Ho precedentemente accennato al castelliere di San Briccio, più diffusamente al Castejon di Colognola ai Colli e non posso esimermi da un cenno sul castelliere del Monte Zoppega che si eleva ad est di Monteforte d’Alpone poichè anche questo complesso archeologico è ormai seriamente minacciato.

Fu nell’estate del 1953 (19) che mi interessai della zona Monteforte-Castelcerino, sempre per incarico del prof. Francesco Zorzi, e infatti a quell’anno risalgono i miei primi rinvenimenti di materiale archeologico sul colle Sant’Antonio, sullo Zoppega e sul castelliere che si eleva presso l’abitato di Castelcerino.

Ma è la scoperta dello Zoppega che diede al Museo di Storia Naturale di Verona una ricca messe di materiale protostorico e preistorico ancora quasi del tutto inedito, materiale che – come quello del Castejon – documenta la presenza dell’ uomo sul posto dal tardo Bronzo all’età del Ferro  (20).

Anche qui mura di massi basaltici, anche qui frammenti di ceramiche che subito attrassero l’attenzione per varietà e molteplicità di forme, di dimensioni, di decorazioni, di impasti, di tipologia. Anche qui frammenti di colatoi, anse a cilindro, decorazioni a rotellina forse del tardo Bronzo; frammenti di vasi decorati a stampiglie con righe e cerchietti forse del primo periodo Atestino (sec. 9° e 8° a.C.); anse cornute, decorazioni a denti di lupo spesso riempiti di materia bianca forse del secondo periodo dell’età del Ferro (sec. 7° e 6° a.C.); frammenti di vasi a zone rosse e nere e giochi di cordoni plastici probabilmente del terzo periodo (sec. 5° e 4° a.C.); anche qui frammenti di scodelle grigie, senza patina, ne colore, ne ornamenti, di aspetto tipicamente gallico e cioè del 40 periodo (sec. 3° e 2° a.C.); anche qui frammenti di pietra ollare che si richiamano palesemente al periodo dell’impero romano.

Anche qui però è imminente il pericolo per il complesso archeologico di primaria importanza, minacciato dal dilagare delle aree fabbricabili, per cui già è stato fatto un invito alle autorità tutorie da parte dell’Archeoclub di Verona per la salvaguardia anche del Castelliere dello Zoppega (21).

VALORIZZARE IL CASTEJON E I « CASTELLIERI DELLA POSTUMIA»

Ma per tornare al nostro Castejon, perchè non adibirlo a grande parco abbinandolo alla valorizzazione del sottostante complesso romano delle Terme di Caldiero (22)?  In luogo adatto e in modo che non ferisca il paesaggio (come progettati « casoni » vorrebbero), si potrebbe costruirvi un museo che raccogliesse il moltissimo materiale archeologico proveniente anche da San Briccio e dallo Zoppega attualmente un po’ dovunque disperso ed avente un carattere strettamente unitario.

Ed ora mi sia permesso concludere con alcuni passi di un preciso intervento di Romolo Staccioli, segretario generale dell’Archeoclub d’Italia su una nuova dimensione dell’impegno scientifico: « I parchi archeologici » (23).

« La salvaguardia dei monumenti e dei complessi monumentali del passato e la tutela dell’ambiente in cui essi si trovano inseriti sono tra le esigenze più sentite dell’archeologia contemporanea; forse, tra le sue stesse ragioni d’essere. Certamente esse costituiscono una nuova « dimensione» dell’archeologia, la dimensione « conservativa », che si è posta accanto a quella « conoscitiva », ovviamente fondamentale e pur sempre primaria, volta al recupero e allo studio delle testimonianze materiali del passato per la ricostruzione storica delle civiltà cui quelle appartengono.

« Ma questa dimensione conservati va dell’odierna archeologia – che si inserisce a pieno diritto in quel « discorso ecologico» che sembra ormai contraddistinguere il nostro tempo – si caratterizza non tanto come una funzione statica di conservazione passiva, nel senso cioè della salvaguardia delle « cose »  dal deperimento, dalla dispersione e dalla distruzione, quanto come una funzione dinamica di difesa attiva, ossia di valorizzazione, nel senso cioè di un inserimento delle « cose» stesse nel complesso dei beni culturali dei quali sia reso godibile, sotto ogni aspetto, il « valore ».  Il che, in altre parole, equivale ad inserire il passato nell’esperienza culturale e nel patrimonio civile della società attuale.

«Questa concezione attiva e dinamica della conservazione dei monumenti del passato significa, per conseguenza, sul piano pratico, che a una fase, pur necessaria, di constatazione, di deplorazione e di denuncia del progressivo depauperamento del patrimonio archeologico, deve subentrare una fase indispensabile di proposizioni e di azioni costruttive che quel patrimonio possano concretamente salvare. Ebbene, proprio nell’ambito di questa seconda fase, e pur nella perdurante situazione di incertezza, o meglio di inerzia legislativa nel campo dei beni culturali, si è andata facendo strada l’idea delle “ riserve archeologiche”. Ossia di complessi territoriali caratterizzati dalla consistente presenza di monumenti antichi, di avanzi archeologici, di campi di scavo, organizzati in modo da garantire la conservazione, lo studio e il godimento di quello che è stato già scoperto e la preservazione, nel suo insieme, del sottosuolo ai fini di una progressiva e sistematica esplorazione scientifica.

«Tali  “ riserve” ,  poi, in analogia con i grandi parchi nazionali di interesse naturalistico, si è preso a denominare “parchi archeologici”.   Con un significato che trascende i limiti dell’archeologia pura e semplice, cioè di un patrimonio archeologico comunque preso a se stante, e che questo patrimonio considera invece come parte integrante di una più vasta realtà “paesistica” stratificatasi fino a noi attraverso i tempi e quindi intesa nel senso più completo di “ paesaggio storico”. Donde la denominazione più significativa di “parchi archeologici-paesistici”.

«Si è giunti perciò a valutare tale realtà come documento storico nel suo insieme, che si vuole salvare come tale, cioè come risultato di una fusione perfetta di archeologia e paesaggio, che è quanto dire dell’opera della natura e dell’uomo, bloccandolo con un ultimo intervento, oculato, meditato e studiato in ogni particolare, non soltanto nel senso della conservazione ma anche in quello della valorizzazione e del pubblico godimento, estetico e culturale. . .»

«Tutto ciò, mentre più incombente si fa la minaccia dell’aggressione indiscriminata da parte di iniziative, pubbliche e private, dell’espansione edilizia e industriale; mentre dall’estero si continua, e non a torto, ad accusare l’Italia di “suicidio culturale” e si arriva a proporre che il patrimonio archeologico italiano in quanto patrimonio appartenente all’intera comunità umana, presente e futura, venga sottratto alla  “sovranità” dell’Italia e posto sotto la tutela delle Nazioni Unite o, comunque, di qualche organismo internazionale».

NOTE

I) Cartailhac E. – La Fmnce prehistorique – Paris, 1903.

2) Non mancano segnalazioni dai Paesi baltici, dall’Asia, dagli Stati Uniti e dall’America meridionale. In Italia, il maggior numero di massi con coppellazioni venne segnalato in Lombardia sin dallo scorso secolo.

3) Lilliu G. – La civiltà dei Sardi – Torino, 1967.

4) Cartailhac E. – op. cit.

5) Walcher – Plantes aromatiques offertes par les Gabonais aux Miìnes – ‘Revue de Bot~nique appliquee et Agricolture tropicale – febbr. 1934.

6) Cartailhac E. – op. cit.

7) Sebesta C. – Stenico S. – Introduzione ad un catasto della coppellazione e segnatura

nel Trentino. – Studi trentini di scienze storiche. Trento, 1967.

8) Calestani V. – Masso preistorico a coppelle rinvenuto in Val di Sole – Studi trentini

di Scienze Storiche – Trento, 1933.

9) Leonardi P. – Vorgeschichtliche Felszeichnungen im Etschtal bei Castelfeder. «Der

Schlern)) – 1954.

l0) Leonardi P. – Risultati delle campagne di scavo in alcune stazioni dell’età del Ferro dell’Alto Adige e del Trentina. – In « Atti del I° Congresso internazionale di preistoria e protostoria mediterranea» – Firenze, 1950.

Di altre coppelle ancora ci parla Piero Leonardi su “Nuovi contributi alla paletnologia delta Val di Fiemme” (Studi Trentini di Scienze Storiche, 1958 n. 1-2): « Un masso porfirico con due coppelle, gentilmente segnalatomi dall’Ing. Innerebner, esiste sul ripiano del  « Corozzo»  sopra Cavalese poco lungi dal Belvedere detto « Pagoda».  Altre coppelle individuai l’anno scorso poco lungi da Cavalese sui porfidi violetti affioranti a Est e Sud-Est della Parrocchia tra la linea ferroviaria e i Masi Lusanna e Ischie.  Particolarmente interessante è una larga lastra di marne werfeniane con coppelle visibile sul fianco destro della Valle di Stava alle falde del M. Cucal, lungo il sentiero che dall’abitato di Stava conduce al Maso Zanon. Su questa lastra si distinguono una trentina di coppelle nove delle quali associate costituiscono un cerchio centrato.  Ricorderò infine una coppella esistente su un affioramento porfirico in un ripiano del fianco sinistro della Valle di fronte a Ziano, lungo una mulattiera che sale al Dos Castelir.  È opportuno rilevare l’interesse che presenta questo ultimo nome, benchè finora non sia riuscito a individuare sul dosso o nelle sue  vicinanze alcun indizio sicuro di insediamenti preistorici.  Va rilevato anche che in vicinanza della coppella surricordata, sullo stesso ripiano (dove fra l’altro un masso porfirico colpisce per la sua conformazione e posizione che ricorda quella di qualche altare preistorico o protostorico)  son ben visibili varie iscrizioni e date incise su superfici porfiriche in epoca assai recente ».

11 ) Perini R. – Ciaslir del Monte Ozol – « Studi Trentini di Scienze Naturali» _ Trento, 1970.

12) Perini R. – Tipologia  dello ceramica Luco (Laughe) ai Montesei di Serso – « Studi Trentini di Scienze Naturali ». – Trento, 1965.  Anche per il Castejòn di Colognola ai Colli le ricche decorazioni di taluni vasi farebbero ulteriormente azzardare l’ipotesi di una funzione anche rituale del « castelliere ».

13) Süs E. – Le incisioni rupestri della Valcamonica – Milano, 1963.

14) Martinati P.P. – Storia della Paleoetnologia veronese – Acc. Agr. Arti e Comm. di Verona – 1876.

15) Furono con chi scrive, dai 5 marzo al 27 giugno 1967, a più riprese, i soci del Centro studi e ricerche di Verona: Giambenito e Liliana Castagna, Renzo Castellani, Renata Cimorelli, Giancarlo Gresola, Giuseppe De Candia, Giorgio, Anna, Massimo e Stefano Fiorentini, Rosanna Franzini, Raffaele Marogna, Paolo Mosconi, Ennio Peretti, Alberto, Olga, Paolo e Maurizio Solinas, Angelo e Rita Tomelleri, Angela Zanon, Daniela e Roberto Zecchini. Allorchè consegnammo il molto materiale ricuperato in superficie al paletnologo Franco Mezzena del Museo di Storia Naturale di Verona, egli ci mostrò gentilmente alcuni frammenti di oggetti in bronzo e in argento di fattura gallo-romana (?), donati da don Domenico Carcereri nel dicembre 1881. Don Carcereri morì il 6 marzo 1930 ed a Colognola a Colli ci dissero che tali oggetti vennero alla luce allorchè si fecero le fondamenta del rustico chiamato appunto Carcereri a sud di quota 172 del Castejon. Con gli oggetti si videro molti cocci, ceneri e frammenti di ossa combuste. Tra le altre tradizioni raccolte dal Tregnaghi quella di un cunicolo che univa la cima del Castejon con il sottostante abitato di Orgnano « dove gh’era le done e que de’l Castejon i ghe andava parchè lì i fasea le orge (sic!) e da queste è vegnù el nome de Orgnàn. . . Sul Castejon gh’è le pigna te coi marenghi de oro, ma quando se le càta, se no se gà la corona de’l rosario in scarsèla, i schèi i se sfànta come la nebia».  Curioso notare come tale leggenda sia simile a quella raccolta sul Doss Trento da Giacomo Roberti nel 1925: « Narrasi che una ragazzina di Piè di Castello, la quale s’era recata sul Doss Trento a pascolare il gregge, sorpresa dalla notte, abbia pernottato sull’altura, all’aperto. Quando la mattina si svegliò, vide presso di sè un mucchio di carboni lucenti; se ne riempi il grembiule e corse a portarli a casa. La madre tutta contenta nascose i carboni dietro al focolare e ordinò alla figlia di risalire l’erta scosesa del colle a raccoglierne degli altri. Ma, per quanto frugasse, ogni indagine rimase infruttuosa. Frattanto la madre, la quale con stupore aveva constatato che i carboni  s’erano mutati in argento, si portò anch’essa sul dosso e colla figlia si diede alla ricerca del tesoro senza però trovarvi più nulla, se non una medaglietta che la figlia aveva perduto. Il tesoro era ormai introvabile perchè l’incanto era rotto. Quando ancora i carboni torneranno a risplendere, essi potranno essere raccolti da chi vi avrà gettato sopra qualche oggetto sacro».

16) Pellegrini G.B. – Sebesta C. – Nuove iscrizionipreromane a Serso (Pèrgine) – Studi Trentini di Scienze Naturali – Trento, 1964.

17) Sartori G. – Colognola ai Colli – Verona, 1959

18) Solinas G. . Storia di Verona – Verona, 1961-64.

19) Dall’Agnola L. – Monteforte d’Alpone – Verona 1959.

20) La cosi detta « età dei castellieri » ebbe appunto a svilupparsi dalla tarda età del Bronzo all’età del Ferro e cioè dalla preistoria alla protostoria. La ceramica, in questo volger di secoli, abbandona le forme arcaiche dell’età del Bronzo terminale per passare a quelle molto varie dell’età del Ferro le quali denotano influssi non indifferenti di altre civiltà come quella di Hallstatt e quella veneta di Este. Ciò vale anche per il complesso archeologico del non lontano Montebello vicentino come dimostrarono il compianto padre Aurelio Menin e il chiarissimo prof. Ferrante Rittatore Vonwiller nella pubblicazione su “La Valle del chiamo” edita dal Collegio Missionario di Chiampo (Vicenza) nell’agosto del 1972 e alle quali conclusioni si è rifatto anche chi scrive.

21) Il monte Zoppega è famoso fin dallo scorso secolo anche perchè vi si rinvennero alcune brecce ossifere non ancora del tutto sfruttate con resti di animali di età Riss-Wurmiana. Ne scrissero lo Scortegagna (1844), il Menegazzi (1847), il Molon (1875) ed Angelo Pasa il quale qui scopri nuove brecce nel 1932. Dello Zoppega sono, tra il resto, i materiali riferentisi al leone delle caverne, all’ippopotamo ed al rinoceronte, abbastanza comuni anche in Italia nel periodo Musteriano.  (A. Pasa – I mammiferi di alcune antiche brecce veronesi. Mem. Museo di St. Nat. di Verona. Vol. 1°, 1947-48).

22) Una decina d’anni fa, sul monte La Rocca di Caldiero, con alcuni soci del C.S.R. di Verona rinvenni cocci ed altro materiale risalenti all’età del ferro ed all’epoca romana, consegnati al Museo di Verona. Il monte La Rocca domina le sottostanti terme che non risalgono dunque al periodo medioevalc come taluno vorrebbe asserire. Bisogna infatti tener presente altresì che non lontano dalle terme si sviluppava la torbiera di Loffia od Offia di Sotto della quale così parlò il Martinati (1874):  « È dessa un bacino di perimetro irregolare, che giace al di là di Caldiero sulla destra della ferrovia nel comune di Colognola, del quale qualche anno fa furono portati al cav. De Stefanì cocci di vasi, schegge di selce, parte di un lisciatoio di arenaria, ed altri segni di una stazione preistorica, ch’egli seguendo il suo costume, regalò al nostro museo. Il prof. Pellegrini che lo visito’ nel marzo 1876 ne riportò un’ accetta di bronzo (paalstab) molto alterata fino alla metà da un singolare processo di ossidazione, ossa e denti di bue, di majale, di cervo e di pecora, pezzi di corna di cervo e di capriolo, pochi cocci, stiappe di grossi pali e cimelii manifestamente romani, ivi pure scavati. Vi tornammo insieme poco dopo, e ci vennero alle mani altri esemplari consimili, ed una perfetta sega di selce grigia che fu poi seguita da altre non meno belle. Notammo la presenza di parecchi pali profondamente piantati, e di travi orizzontali o con forte inclinazione giacenti, e le notizie che ci furono date sul luogo di altri legni eguali trasportati altrove o sepolti ancora nella torba, ci fece argomentare che ivi sorgesse una grande abitazione palustre, e forse un gruppo di più che una».  Così il Martinati nella sua Storia della paleoetnologia Veronese, ma anche chi scrive ebbe a recuperare, da Offia di Sotto, un cranio di Canis familiaris, altre ossa, selci lavorate e cocci che donò al Museo di storia naturale di Verona nel lontano 1933.  Inoltre sull’antichità delle terme in genere può esser utile la lettura dello studio di Luigi Pigorini sull’ ”Uso delle acque salutari nell’età del bronzo” pubblicato dall’Acc. dei Licei (vol. XVII, fasc. 11, 1908) e nel Bollettino di Paletnologia Italiana (XXXIV, pag. 69, 1908).

23) Staccioli R.A. – “I parchi archeologici” – Bollettino dell’Archeoclub d’Italia, nov.- dic. 1972.

Fonte:  srs di Alberto Solinas


Mar 15 2009

Verona: La terra di Batiorco e il suo monastero

 

Anno Accademico 1924.1925  –  Tomo LXXXIV – Parte seconda

 

RAFFAELLO BRENZONI

(presentata: dal dott. A. Forti, m. e., nell’ad. ord. 14 dicembre 1924)

 

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Batiorco! Nomè storico veronese, che servì a precisare fino da remota  età un breve  tratto di terra, situato  in pianura in vicinanza  di S. Michele in Campagna. Nessun dato, nessuna notizia circa l’origine ed il significato di questo nome, trovato persino in  carte del X secolo. La sua origine perciò, collegata al più oscuro  Mediò Evo e la conseguente sua derivazione da una forma linguistica latina o barbarica, (si noti persino la desinenza in o, ch’ esso mantiene nei documenti più antichi), tolgono, a mio  avviso, oggi serietà alla nota leggenda dell’ orco, che il popolo nostro  fece sorgere intorno a  questa denominazione, in cui si volle vedere la  fusione di un verbo e di un sostantivo italiano

(Si pensi, fra l’atro, che, se qualche rara volta s’incontra in carte della remota antichità il verbo battere, esso ha il significato di  percuotere; non mai, di percorrere; mentre per orco s’ intese, anche nella bassa latinità;  l’inferno; o il Dio dell’ inferno e nulla piu’)

Allo stato delle cose, mancando ogni elemento sicuro, per una deduzione etimologica,  credo sia meglio affidare questo nome  all’oscurita’  del tempo in cui sorge,  anzichè costruire ipotesi campate in aria  in aria,   cercando invece con dati e notizie precise di seguire le vicende e determinare  quei fatti  fatti, che su essa terra si svolsero, ricavandoli  da inconfutabili documenti, che cerchero’  ora di esporre cronologicamente.

La prima notizia  di questa terra si trova nel testamento  di  Davide “ presbiter Sancte Veronensis Ecclesie”  dell’anno 

 

pag. 222 R.BRENZONI (2)

 

987:  “ Idest terra cum vineis super se habitis in loco uno iuris  proprietatis nostre predictis germanis, quam nos habere et possidere visi sumus, que  posita est in finibus veronensibus intransmonte (sic) locus ubi dicitur Batiorco”. . . ecc. (1).

A questo secolo X appartiene pure una  “carta da batiorco”, che trovasi in originale  nella Biblioteca Capitolare di Verona. Questa pergamena, in parte logora, non permette la lettura completa della data; lo stesso Canobbio, che la lesse nel secolo XVI, non riuscì a decifrarla e si limitò a datarla solamente col giorno e mese (…14 febbraio) (2). I dati paleografici ci persuadono a porla nel X secolo; inoltre la firma del notaio rogante l’atto  “Liutefredus” (chierico e notaio) perfettamente identica alle firme contenute in documenti  esistenti negli antichi Archivi Veronesi, con date del X sec., ov’egli si firmò quasi sempre chierico e notaio, ci persuade ancor più della verità della nostra asserzione (3).

Per l’etimologia del nome si tenga presente, che nelle carte appartenenti ai secoli posteriori al mille il nome  Batiorco assumeva  forma e declinazioni latine, e gli esempi non mancano specie nella Biblioteca Capitolare (4).

Da altri due documenti posteriori, dell’ undicesimo e dodicesimo secolo, veniamo a conoscere che eletta località Batiorco, in cui esisteva una contrada che portava lo stesso nome

 

Note di pagina 422

 

  (I) Docum. apparten. All’Arch. della Comp: del SS., in S. Libera e Siro (pubblic. dal Dionisi: “De duobus episc. Ald. et Not”, pag. 171) (tolto dalla Capitolare) oggi non figura negli elenchi (neppure in quello del Canobbio).

(2) Bibliot. Capito di Verona, rotulo N. 7, mazzo 2 AC. 38.

(3) Confr. perg. esist. negli Ant,  Arch. Ver.;  Osped. Civo (Anno 930)

rot. N. 15. S. M. in Org: (anno 938) rot. N. 24, app. S. M. in Org. (940) N. 9, S. M. in Org. (958), rot. N. 11, S. M. in O,  g. N. 35 (971) ecc. 

(4) Bibl. Cap. di Verona, BC. 39, M 5, N. 15 (22 genn. 1290), altro AC. 72, M. 3,  N. 7 (23 maggio 1258),  altro AC. 9, M. 2, N. 9 (17 luglio. 1380), altro: AC. 49, M. 5, N. 3 (23 nov. 1338), altro: A C. 48, M. 4, N. 15 (23 nov. 1338), altro: AC. 49, M. 5, N. 3 (19 genn. 1366, altro: BC. 32-3-13 (26 maggio l338), altro: BC. 38-14 (4 maggio 1332), altro: BC. 39, M. 4, N. 7 (22 genn. 1330), altro: AC. 36, M. 5, N. 11 (28 nov. 1343),

sono quasi tutte carte di locazioni, nelle quali vi è scritto quasi sempre: “in pertinenti a Verone in ora Batiorchii ”,  “ in sorte Batiorchi”.

 

(3) LA TERRA DI “BATIORCO”  ECC pag. 223

 

fuori di Porta Vescovo: “ 24 settembre 1023 – Sentenza tra Paulo e Florasino q. Drogo da una e Bonifacio da Cellore dall’ altra sopra una pezza di terra in Verona, fuori di Porta del Vescovo in Contrà di Batiorco” . (1),  “4 Ottobre 1153 – Uberto figlio  quondam Waldo de Capite pontis, diacono e canonico, professante legge romana riceve da Giovanni q. Uberto Fatiga il prezzo di una  pezza di terra arativa posta foris Porta Episcopi nel luogo uhi  dicitur  Butiorco” (2).

Sappiamo inoltre, che su parte di questa terra aveva un antico diritto di decima la Pieve di S. Giovanni in Valle, come risulta da una pergamena del 1219 (21 dicembre) ove è detto, che Augustino Arciprete della Chiesa di S. Giovanni in Valle, consenzienti gli altri fratelli di essa chiesa, dà in locazione perpetua a Fautino prete ed a Fautino chierico di S. Faustino per la loro chiesa la decima sopra alcune pezze di terra più sotto designate:  per una pezza di terra con viti che giace in monte di S. Giovanni in valle; per altra pezza di terra che giace in luogo uhi dicitur…. gella;  per altra pezza di terra in loco ubi dicitur batiorco; altra pezza di terra que iacet apud sortern que fuit illoorum de Moscardis; altra in loco ubi dicitur Paltena et loco qui dicitur Ronco; altra in Valpantena (3).

Ma una determinazione  ben più precisa abbiamo in una carta d’investitura del 18 gennaio 1243, da parte dell’ arciprete e chierici di S. Giovanni in Valle fatta a frate Adobello dell’ordine degli Agostiniani Eremitani allo scopo: “ edificandi Ecclesiam et locum ad  honorem Dei et Beati Angustini in fundo  sito extra Portam Episcopi  in loco  ubi  Battyorchus apud flumicellum, quì olim fuit presbiteri Viti;  de uno latere fluit idem flumicellum,  de alio lattere Via…. ecc.”; il Biancolini, che lo riporta, scrive nel testo: “Battiorco non lungi  dalla terra di Montorio (4).

 

Note di pagina  223

 

(1) A. A. Ver. Clero intrinseco (Repertorio Franc. Melegatti notaio (copia) ).

(2) A. A. Ver.,  S, Maria in Org., rotulo N. 87.

(3) A. A, Ver., S. Giov. in Valle, rotulo N. 13. 

(4) Biancolini, Le Chiese di Verona, Tomo II, pag. 502. La pergamena originale esiste tuttora presso l’Archivio parrocchiale di S. Giov. in Valle (Archivio Busta IX, fascicolo X).

 

Pag.  224 BRENZONI (4)

 

Da quanto abbiamo finora esposto, possiamo affermare, che questa località era fuori di Porta del Vescovo, fra il fiumicello e la strada (e non sappiamo ancora quale), e probabilmente ad una certa distanza dalla città, essendo riposta negli scritti in vicinanza della terra di Montorio; sappiamo inoltre dall’ ultimo documento in parte riportato, che su questa si dovette erigere un Monastero  ed una Chiesa pei frati Agostiniani.  E tali fabbriche sorsero veramente, come vedremo dai registri amministrativi della Pieve di S. Giovanni in Valle, nei quali si fa parola spesso di diritti di livelto “sopra una pezza di terra ove si dice batiorco, presso il fiumicello, sopra la quale sta; il Monisterio  degli, Agostiniani (1).

A maggiore determinazione riporterò alcuni tratti di  scritti raccolti in un volume appartenenti all’archivio del Monastero di  S. Salvar  Corte Regia, del 1725, in cui sono elencati documenti del XlII-XlV-XV sec.;  da questi si potrà sempre più persuadersi della verità dei dati sopra riferiti circa la località in parola:

  “Una pezza di terra in pertinenza di Verona in Contrà di S. Nazar extra (nella spianata), in sorte di  Battiorco ”  (da un doc. del 1475)  (2). 

“ Una pezza di terra arativa con viti… in pertinenza di Verona, in Contrà di Battiorco  (confini: da una la via comune, via Lavagnesca)”  (da doc. del 1432) (3).

“Una pezza di terra arativa in pertinenza di Verona, in Contrà di Battiorco, vicino alla Chiesa di S. Agostino” (da doc. del 1327) (4). .

“ Una pezza di terra arativa e casaliva,  fuori di Porta de Vescovo, vicino alla Chiesa  di S. Agostino (confini: da una la

 

Note di pag. 224

 

(1) Vedi ad es. il volume  appartenente all’ Arch. di S. Giov. in Valle, del 1764 – (Instruzione dei livelli, affitti ecc.) (copia del vol. citato in esso dell’ anno 1475).

(2) A. A. Vero Arch. di S. Salvar, Corte Regia (Monastero), vol. 1725, carta 448t.

(3) A. A. Ver. Arch. di S. Salvar, Corte Regia (Monastero), vol. 1725, carta 443.

(4) A. A. Ver. Arch. di S. Salvar, Corte Regia (Monastero), vol. 1725, carta 436.

 

5 LA TERRA DI  “BATIORCO”,    ECC pag. 225

 

via lavagnesca, dall’ altra il fiumicello ecc.)  (da doc. del 25 agosto 1297) (1).

“ Una pezza di terra  arativa fuori di Porta del Vescovo, vicino al Monastero e Chiesa di S.- Agostino, in Contrà di Battiorco (confini; da una la strada di Montorio, dall’ altra a mattina le dette monache, dall’ altra a mezzogiorno  la via di Battiorco)”  (da doc. dell’  11 nov. 1354) (2).

Faccio notare subito, che la via lavagnesca, della quale si fa parola in questi documenti,  corrisponde, secondo una vecchia descrizione stradale del XVI sec., alla odierna via  delle Banchette, che da Porta Vescovo, attraverso il borgo, conduce fino a Lavagno (3).

Da quanto siamo venuti fin qui dicendo, mi pare di poter senz’altro affermare, che la terra di Batiorco si trovava fuori di Porta Vescovo, in contrada di S. Nazar extra (si pensi che, questa parrocchia s’estendeva allora fino a S. Michele), nella spianata fra il fiumicello e la via lavagnesca, e che su di essa vi era il Monastero e la Chiesa degli Agostiniani, nonchè un gruppo di case, che prendevano il nome dalla località, stessa, separate le une dalle altre, forse, da una strada, che aveva pure quel nome.

Il nostro storico Veronese del sec. XVII, Lodovico Moscardo, ch’ebbe modo di vedere ai suoi tempi ancora, com’egli afferma, gli ultimi avanzi del vecchio Convento e della Chiesa, così si esprime:  “Quest’ anno (1262) li frati eremitani vennero, ad habitar in Verona a S. Eufemia li quali solevano star a Montorio dove havevano l’antica Chiesa e Monastero, dei quali ancora si vedono i fondamenti” (4).

 

Note della pagina 225

 

(I) A. A. Ver. Arch. di S. Salvar, Corte Regia (Monastero), vol. 1725, carta 435.

(2) A. A. Ver. Arch. di S. Salvar, Corte Regia (Monastero), vol. 1725, carta 437.

(3) A. A. Ver. Volume “Legitimatio campioni facta 1589”, carta 1, (Arch. del Com.). La via lavagnesca è descritta così: “ via che, partendo dalle ferrazze, viene, attraversando la spianata, fino alla città ove finisce “. È detto poi che era attraversata da tre ponti.

(4) L. Moscardo, Historia di Verona, pag. 195.

 

Pag. 226 R. BRENZONI (6)

 

“Le  monache hora dimoranti nel Monastero di S. Salvar Corte Reggia havevano il loro monastero e Chiesa chiamata di S. Agostino poco fuori dalla porta del Vescovo, tra la riva  del  fiumicello vicino al ponte, che lo travesa e fra la strada prossima al detto fiume, per la quale si va a Lavagno”. 

“Vedesi tutt’ hora in questo sito molte vestigia dei fondamenti con assaissime ruine di fabriche non solamente del detto Monastero, ma di  molte habitazioni contigue che ivi si trovavano” (1).

L’ esistenza tutt’ora di quel ponte in cotto, benché in parte rifatto, mi servì alla sicura identificazione della terra di Batiorco;  nome tramandato a noi non soltanto attraverso la storia, ma, per tradizione, nella viva voce di chi coltiva oggidì quel terreno.  E l’ubicazione d’oggi è perfettamente corrispondente ai confini dei secoli andati!   Così infatti viene determinato ora quel tratto di campagna compreso, ad un miglio dalla attuale porta del Ve scovo, fra la via delle Banchette, il fiumicello ed il piccolo ponte in cotto (2). .

Trovandosi questo luogo distante circa un miglio dalle mura di Verona e non  esistendo fino all’epoca Napoleonica il paese  di S. Michele, ed essendo d’altra parte vicino alla strada, che metteva in quel di Montorio, gli storici nostri, dal Moscardo al Dalla Corte, dal Perini al Sommacampagna, non esitarono a chiamare alle volte il Convento, di cui stiamo trattando, “Monastero di S. Agostino di Montorio”.

 

Storia del Monastero

 

Su questa terra di Batiorco la Pieve di S. Giovanni in Valle, come risulta dai suoi antichi registri, che ne fanno parola, esercitò un jus fino da remoti tempi.

Il  14 gennaio  1243 il  suo arciprete Guido ne investì Fra Donello, della Congregazione di Fra Canebono di Cesena, priore

 

 Note di pag. 226

 

(1) L. Moscardo.  Historia di Verona, pag. 387.

(2) Questo tratto di terra posto a poca distanza dalla Chiesa parrocchiale di S. Michele, piantato a gelsi, è segnato al foglio N. 14 (mappe catastali).

 

 

(7) LA TERRA DI  “BATIORCO”,    ECC pag. 227

 

degli Eremitani di S. Agostino, venuto con i suoi monaci in  quel dì nelle nostre contrade.

Scopo di questa investitura fu ch’essi potessero erigere sopra quel terreno una Chiesa ed un Convento, dedicati al loro Santo.

Venne loro pertanto accordata  “ l’ esenzione dalla decima e l’immunità  da qualunque canonica e civile esazione, salvochè dall’annua recognizione d’una libra d’ incenso, che pagar dovevano  in segno di soggezione alla Chiesa di S. Giovanni”  nella festa del loro Santo Titolare.

Così nello stesso anno 1243 si eseguirono le fabbriche e  “ quindi con ogni onorevolezza i Padri vi si annidarono ed ivi stettero con grand’ esempio” (1).

Ma tale dimora non doveva durare a lungo, poiché una Bolla di Alessandro stabiliva, nel 1256, che le  molte Congregazioni  degli Eremitani di S. Agostino si unissero formando unici monasteri: così avvenne anche in Verona e il Monastero di Batiorco divenne troppo ristretto per ospitar tanti monaci, sicché essi dovettero nel 1262  passar in quello di S. Eufemia, entro la Città.

Partiti dal luogo gli Eremitani e rimasto pertanto disabitato il Convento, di questo venne fatto acquisito  da una nobil Donna  “Duchessa di Bagnolo” che nel 1275 ne fece propria dimora ritirandosi a vivere claustralmente insieme a tre monache di nome Margherita, Catterina ed Antonia.

Subentrate così le monache agli eremitani, esse tentarono subito di liberarsi dagli oneri finanziari, che  gravavano sul  Convento e ne fa prova il carteggio svoltosi fra questo  e la  Pieve di S. Giovanni in Valle, che le suore non volevano più  riconoscere come donataria del fondo  “ sive terra di Battiorco” .  Troviamo così in atti del notaio Ottobon de Bonomo  un “ atto di prottestatione contro le dette suore ” per la rivendicazione del

 

Note di pagina  227

 

(1) Atti Bonaventura di Isnardo e  di Ultramarin Nodaro (trovasi copia in un Registro del Monastero di S. Salvar Corte Regia),  (Arch. 1725),  c. 481 (A. A. Ver.). Trovasi riportato  il docum. anche nel manoscr. del Perini (Bibl. Com. di Ver.). (Busta V, incarto Monast. S. Salvar  C. Regia). 

 

Pag.  228 R. BRENZONl (8)

 

diritto in base al documento di concessione del 1243 ai frati Agostiniani con la unita condizione del livello perpetuo.

Il Monastero divenne negli anni sempre più importante e numeroso e nel 1297  (all’ ultimo di ottobre) si unì a questo il Convento di S. Catterina in S. Maria delle Stelle (unione approvata con decreto di Bonincontro Vescovo di Verona in data 10 luglio 1297).

Il numero delle monache benedettine, che vennero in questa occasione ospitate nel nostro Convento, determinarono per così dire una prevalenza di quest’ordine sull’ altro;  e dalla fusione di questi elementi s’ebbe una vera e propria congregazione femminile d’ordine ed abito benedettino,  pur rimanendo al Monastero l’antico nome di S. Agostino.

Intanto Donna Duchesia da Bagnolo era divenuta mal ferma di salute anche per l’età avanzata e il 22 dicembre 1280 fece dono delle costruzioni tutte alle sue compagne, riservando a se l’usufrutto,  sua vita durante, di un orto con alcune stanze vicine alla Chiesa (1).

Questo  Monastero di S. Agostino in Batiorco fu regolato fino allora in forma di Abbadessato e chi volesse potrebbe costruire attraverso le carte, che ci sono giunte, la serie delle priore che si sono man mano succedute.

S’erano intanto maturati per Verona tempi gravidi di tristi avvenimenti e i disagi si ripercuotevano su tutto e su tutti: così  “ essendo gli affari di questo Monastero in gravissimo disordine, e quasi desolato, anche per i contagi, guerra, calamità sofferte dalla nostra Italia, il Vescovo Ermolao Barbaro pensò d’ intraprendere la  riforma di alcuni conventi;  furono pertanto in quell’ occasione levate dal Monastero di S. Spirito cinque monache con la loro stessa Abbadessa, suor Eufrosina, e passate in quello di Batiorco  (2).

 

Note di pagina 228

 

(1) A. A. Ver. Mon. di S. Salvar C. R. (Vol. Arch. 1725) c. 481, Perini (Manoscr. Bibl. Com.). Busta V,   (Mon. S. Salvar).  (Atti di Antonio Castagnaro, Nodaro (copia) ).

(2) A. A. Ver. Val. Monast. S. Salvar C. Regia. C. 482,  e A. A. Ver. Compendio della fondaz. ed esistenza del Monastero di S. Agost., poi S. Salvar C. R., c. 2.

 

(D) LA TERRA DI “BATIORCO”  ECC Pag. 229

 

Ma questo, per il luogo in cui sorgeva, era continuamente posto sotto sopra dalle soldatesche e milizie, che, nelle guerre e negli assedi alla città nostra, di esso facevano rifugio e meta preziosi: sicché le monache, stanche ormai dei lunghi disagi sofferti, chiedevano nel 1486 di poter riparare entro la città  (1).

La legittima loro domanda veniva accolta e approvata con bolla del Papa Innocenzo VIII,  che concedeva l’occupazione del Monastero di  “S. Salvar di Corte del Re “ (2).   Con lettera ducale del 17 febbraio 1487 tale unione dei due conventi veniva confermata e sanzionata dal Doge Augustino Barbadico (3).  Ottenuta così l’autorizzazione ad entrare in città, nel Monastero di S. Salvar, si diede subito opera alla ricostruzione, al restauro, all’ampliamento del fabbricato, che doveva servire per la nuova dimora.

Passate le suore di S. Agostino nella nuova sede, l’antico Convento di Batiorco rimase disabitato e la Chiesa abbandonata.

Se però i tempi antecedenti a questo passaggio non erano stati certamente lieti e tranquilli, avvicinandosi al principio del secolo XVI si preparavano per Verona tempi veramente nefasti; doveva essere questa avvolta ben presto in guerre ininterrotte ed in terribili epidemie.

Dopo la peste degli anni 1511-1512 ricominciò, più violenta che mai la guerra: s’ebbe nel 1516 l’assedio della città da parte dei Veneziani uniti ai Francesi; ma finalmente, in forza del trattato di Bruxelles, la Seren. Repubblica poté riavere Verona, dietro corrispettivo di molte migliaia di ducati.

Così fra indescrivibile entusiasmo la città nostra si diede ancora una volta al dominio della gloriosissima Repubblica Veneta!

Cessata pertanto la guerra, nel timore e per l’eventualità, che altre ne succedessero, il Seren. Dominio  s’accingeva poco dopo a crear nuovi  mezzi di difesa e nuove fortificazioni. Considerando che i borghi potevano servire come punti d’appoggio

 

Note di pagina 229

 

(l) Bibl. Com.  (Manoscr. del Perini),  (S. Salvar, C. R.,  alla data 1486).  Vedi anche docum. nel suaccenn. volume di S. Salvar (arch. 1725)  (A. A. Ver.).

(2) A. A. Ver. Compendio della fondazione ed esist. del Mon. Di S. Ag. (c. 3t e seg.).

(3) A. A. Ver. Com. Fiscale  (Ducali) c. 129 (ANNO 1487).

 

Pag. 230 R. BRENZONI (10)

 

per un esercito nemico, si deliberò, per le esigenze strategiche, l’ abbattimento dei borghi  stessi riccamente adorni, come scrive  lo storico contemporaneo Canobbio  “di divotisime Chiese, ornatissimi  palazzi, honoratissime case, et amenissimi giardini” (1).

In seguito a tale ordine  furono rase al suolo  in varie riprese tutte le case, Chiese, Monasteri, alberi od altro intorno alla Città per un raggio di un miglio, come ci consta dagli atti pubblici e dalle cronache contemporanee (2).

Il decreto fu emanato dal Serenissimo Principe nel 1517 e l’opera di demolizione per la “spianata” ebbe principio nel borgo di S. Giorgio, come afferma il continuatore delle cronache dello Zagata (3).  Nell’ anno successivo, 1518, venivano così demoliti il Monastero, la Chiesa di S. Agostino e le case adiacenti in parte possedute da quelle monache, non rimanendo a queste che il nudo fondo di Batiorco, su cui la Pieve di S. Giovanni conservava ancora il suo antico jus, come vedremo.

Ma se il Convento disabitato nulla più rendeva alle suore, le case adiacenti procuravano alla Congregazione un frutto annuo, pei fitti, di ducati ventotto; tale doveva quindi considerarsi il danno da questa subito per l’abbattimento di quei fabbricati;  e l’abbadessa rivolgeva perciò al Serenissimo Doge una domanda in proposito per ottenere una riparazione, un risarcimento, pel danno subito (4).

La bontà delle ragioni era tale, che il Serenissimo Principe Leonardo Loredano il 27 novembre 1518 in una lettera “ pro monialibus Sancti Augustini ” accordava loro “per l’abbattimento del Monastero con case (e terre) dalle quali le monache ricevevano a titolo di livello ducati 28 annui”, l’esenzione dalle tasse fino a ducati dieci e per sei anni l’esenzione dalla tassa delle  “ lanze” (5).  Rimase pertanto ad esse il solo terreno ingombro dei resti dei fabbricati distrutti, rovine ancor numerose ai tempi in cui scriveva lo storico  Moscardo, come dicemmo (fine XVII sec.).

 

Note di pagina  230

 

(l) Canobbio, Historia della gloriosa imagine della Madonna posta

in campagna di S. Michele, pag. 6.

(2) Il miglio veronese corrispondeva a circa 1800 metri.

(3) Zagata, Cron. di Ver. tomo II, pag. 196.

(4) Perini, Busta V (26), S. Salvar C. R., alla data 1518.

(5) A. A. Vero Camera Fiscale.  Ducali (1517-1530). C. 29-29 t.

 

(11)   LA TERRA DI  “DATIORCO”  ECC. Pag. 231

 

Una domanda, alle quale è doveroso rispondere, è questa: Il fondo di Batiorco rimase sempre proprietà del Monastero di S. Salvar di Corte Regia?  O fu in seguito venduto o ceduto?

A questa domanda rispondono nella forma più chiara e precisa i vari registri amministrativi della  Pieve di  S. Giovanni in Valle, dai quali si ricavano le annualità del livello  della libbra d’incenso ininterrottamente pagate a quella dal Monastero di S. Salvar di Corte Regia fino all’ epoca Napoleonica  (1).  Il diritto di livello, considerato sempre come un “jus in re”,  non poteva essere esercitato che verso il possessore del fondo;  così il possesso di quella terra dovette rimaner sempre del Monastero di S. Salvar.

A comprova di quanto si è detto e a maggiore schiarimento riporto parte del testo di una lettera del 30 ottobre 1846 diretta dall’ I. R. Intendenza Provinciale delle Finanze di Verona alla Fabbriceria di S. Giovanni in Valle, che vantava il diritto del livello della libbra d’incenso verso il Demanio subentrato nella proprietà del monastero di S. Salvar di Corte Regia, dopo l’espropriazione Napoleonica: “onde ottenere la contribuzione del canone di una libbra d’incenso ad essa in origine dovuta dal Conv. di S. Salvar…. sopra una pezza di terra detta Batiorco presso il fiumicello sulla quale fu eretto il  Monastero di S. Agostino….; la pezza di terra sopra indicata  non  appartiene  all’Intendenza”,   essendo passata a privati già da  lungo  tempo (2).

Così sembrami di aver esposto nelle sue linee generali la storia di quest’ eremo, ch’ebbe una vita di duecento e settantacinque anni, e che ospitò figlie di nobilissime ed importanti famiglie, delle quali sarebbe qui inutile far parola; basti dire, che

 

Note di pagina  231

 

(I) Annualità del livello si trovano nei seguenti registri esistenti  nell’Archivio parrocch. di S. Giov. in Valle:  vol. “Nomina antiqua et moderna affictualium ecc.”  Reg. B. (anno 1523), c. 139 t.  “Libro d’entrata di S. Zuane in Valle” (1554), c. 13 t. “Libro della Pieve di S. Giov. in Valle, cominc. l’anno 1583”,    carta 75 t. (vol. F.) (annualità dal 1584 al 1606).   “ Liber S. Johannis in Valle, 1535 e seg.”    C. c. 70 t, (annual. dal 1535 al 1545).  Reg. B, c. 81 (1575). Vol. T (1764), C. 91 ecc.  (Talvolta il livello è corrisposto in denaro: 1 libra incenso è valutata 20 soldi; altro volte vengono accumulate varie annualità).

(2) Arch. parrocchiale di S. Giov. in Valle. (Arch. Busta IX, fasc. X).

 

Pag. 232 R. BRENZONI (12)

 

oltre alla suaccennata Duchessa di Bagnolo anche una Scaligera  vi ebbe dimora “Donna Albuina figlia di Alberto della Scala, Signor di Verona”, creata abbadessa del Monastero nel 1385 (1).

 

Prima di abbandonare questo  studio, piacemi togliere un  errore, spesso ripetuto anche da valorosi nostri storici contemporanei, quale il Prof. Luigi Simeoni.

Parlando della trecentesca “immagine della Madonna di Campagna” così egli si esprime:

“…. Questa pittura che porta dei grafiti  del XV secolo si trovava su una Muraglia del Monastero di Batiorco”. (2). Vediamo ora come stiano le cose: Da tutte le cronache di Verona sappiamo, che effettivamente questo pezzo di muro su cui stava dipinta la Vergine col bambino e due Santi fu trasportata dove ove si trova da una località non bene determinata, in mezzo alla Campagna, e ciò  nel 1559.

Questo frammento di muraglia apparteneva a ruderi  di fabbricato abbattuto nella spianata del 1518, come risulta dagli scritti dell’ epoca.

Costantemente si rilevano da queste pagine  press’a poco le seguenti parole circa quella notizia: “pezzo di muro posseduto insieme con il terreno da Messer Cosimo e fratelli da Perarolo” (3).  TaIe modo di esprimersi comincia già di per sé  a creare dei dubbi circa l’appartenenza di quella muraglia all’Antico Monastero di S. Agostino;  sembrerebbe infatti logico, che i compilatori di quei documenti e di quelle storie avessero dovuto rammentare le origine di quel muro piuttosto che indicare il nome del possessore del fondo in quei giorni.

 

Note di pagina  232

 

(1) A. A. Ver. Comp. della fondaz. ed esist. ecc., c. 2.

(2) L. Simeoni, Guida di Verona. pag. 358.

(3) A. A. Vero Arch. del Com. Vol. N. 49 (Madonna Campagna): (Jura et instrumenta Ecclesie Beat. Virg. Marie ecc.), c. 1. (Parlando del muro dipinto lo si dice: “Illorum a Perarolo”).

Aless. Canobbio nella sua “Historia della Glor. lmag. della Madonna posta in Campagna di S. Miehele (1587) dice: pezzo di muro posseduto insieme il terreno da Messer Cosimo e frat. da Perarolo, quivi restato dalle ruine”.   Il Dalla Corte nello stesso secolo XVI scrive a pag. 747  del II tomo: “ pezzo di muro fuori di Porta Vescovo posto al quanto fuori dalla strada maestra”.

 

(13)   LA TERRA Di  “DATIORCO”  ECC. Pag. 233

 

Vari argomenti poi, mi dissuasero subito della verità dell’ asserzione del Simeoni e di altri;  come spiegare l’appartenenza del fondo di Batiorco, su cui stava il monastero, a certi “Da  Perarolo” se in quegli anni (sec. XVI) e dopo, fino all’ epoca Napoleonica il Monastero di  S. Salvar pagò sempre il canone di livello alla Pieve di  S. Giovanni, quale possessore della terra suddetta?   Ma non basta: si tenga presente, che nell’ archivio di S. Salvar (A. A. Ver.) esistono molti registri anche del sec. XVI, dai quali si conoscono tutti i contratti, locazioni ecc. fatte dal Convento; e mai s’incontra il nome dei “Perarolo”.   La carta ultima da me trovata (della I. R. Intendenza), di cui ho già fatto parola; decide la questione, facendoci noto che solo nel 1813 il fondo era venduto a privati.  La mia tesi avrebbe trovato sostegno anche nel brano dello storico nostro L. Moscardo, che così chiaramente e dettagliatamente segna questa notizia:

“Nella spianata dei borghi, che fu fatta intorno alla  Città era rimasta un  pezzo di muraglia fuori della Porta del Vescovo, sopra di una strada vicinale, poco discosta dal fiumicello e dal sito ove la Chiesa e Convento di S. Agostino…., situata in un terreno all’ hora posseduto da Cosimo dal Perarollo”- (I).   Possiamo pertanto affermare, che il pezzo di muro affrescato, pur essendo nelle vicinanze del Monastero, non vi appartenne.

Così sembrami dimostrato sufficientemente l’errore, in cui sono incorsi vari nostri  scrittori di storia veronese.

 

Note di pagina  233

 

(1) Moscardo, Ristoria di Verona. Tomo II, pag. 419.

 

 

Licenziate  le bozze per la  stampa il giorno 14 febbraio  1925)


Mar 06 2009

Verona: Il Palio del drappo verde, la più antica corsa del mondo

 

“Poi si rivolse e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna. E parve di costoro
quelli che vince non colui che perde”

L’idea che la “Divina Commedia” potesse essere letta ed interpretata scherzosamente come la descrizione di una delle prime corse podistiche medievali a tappe è sorta spontanea leggendo e rileggendo i versi riportati in foniferiti do al capitolo quindicesimo dell’Inferno (Inferno, canto XV, vv. 121-124): riferiti all’incontro di Dante con il maestro Brunetto Latini. In questi quattro versi Dante documenta infatti proprio l’esistenza di una corsa podistica che si disputava a Verona la prima domenica di quaresima, detta “corsa del palio” o “del drappo verde”.

La città di Verona ha sempre avuto una grande importanza nella vita del poeta, essendo stato il primo rifugio sicuro nel quale Dante, esiliato da Firenze, ha trovato accoglienza. Nel trascorrere parte del suo esilio nella città veneta, e precisamente nel sobborgo di Santa Lucia, Dante ha avuto modo di venire a conoscenza degli usi e dei costumi locali che ha poi voluto citare nella sua opera.

Per quanto riguarda questa chiamiamola “corsa podistica” veronese, a scanso di equivoci va detto subito che non si trattava di una manifestazione sportiva nel senso in cui siamo soliti intenderla ai nostri giorni, ma – come d’altronde le altre competizioni, tutte disputate nell’ambito di una qualche ricorrenza cittadina o religiosa – interessava comunque tutta la popolazione. Un po’ come succede oggi per il palio di Siena.

Ebbene, anche in questo caso si parla di palio, e due erano le gare di velocità con questo nome a cui i veronesi del tempo di Dante potevano assistere, e per la precisione il palio dei cavalli e quello dei corridori. Il drappo verde, che dà il nome alla corsa nei versi danteschi, era appunto il premio riservato al vincitore di questi ultimi, che dovevano correre nudi, mentre un simile palio ma di colore diverso, rosso scarlatto, era l’ambito trofeo per il miglior cavaliere.

Andando a ricercare maggiori dettagli su questa corsa a piedi – secondo alcuni studiosi istituita nel 1207 per festeggiare una vittoria riportata dalla repubblica contro i conti di San Bonifazio ed i Montecchi – ne troviamo indicato con una certa precisione anche il percorso, che comunque poteva variare a seconda dell’umore del podestà cittadino, che aveva, fra gli altri, il diritto di scegliere il luogo della competizione.

Il tracciato prendeva il via dal sobborgo di Tomba (ma più tardi da quello di Santa Lucia) e si snodava lungo le mura a sud di Verona, quelle di Porta al Palio (conosciuta già come Porta Stuppa o Stupa, opera dell’architetto Sammicheli) ed attraverso la pianura “a mezzogiorno della città”. Qualcuno degli studiosi è propenso a spiegare “campagna” identificandola con un’omonima località veronese, ma a parte il fatto che non è sicuro che la zona avesse già il nome proprio di Campagna all’epoca di Dante, non si può essere neanche certi che Dante abbia voluto menzionare proprio questa località, il cui nome oggi è ancora possibile comunque ritrovare in Madonna di Campagna, in Sommacampagna, in Mezzacampagna ed in Campagnola.

Il tracciato rientrava poi in città sotto l’Arco dei Gavi, percorrendo il Corso Vecchio fino ad arrivare al palazzo della Torre a San Fermo, mentre più tardi avrebbe attraversato il Corso attuale fino a giungere alla piazza di Sant’Anastasia, dove c’era la scritta “Corso la meta” ed un gran pilastro detto appunto “La meta” che rappresentava il punto di arrivo della competizione. Il percorso del palio a cavallo si snodava sullo stesso tracciato ed era della medesima lunghezza di quello a piedi.

Se il percorso è suscettibile di variazioni, non si può dire altrettanto però del regolamento di gara, che nonostante le modifiche agli statuti cittadini ai quali era vincolato ha sempre previsto non solo un premio per il vincitore ma – precorrendo i nostri tempi – anche un premio di consolazione (chiamiamolo così, ma sarebbe meglio dire “di umiliazione”), per l’ultimo arrivato. E questo spiega perché Dante ci tenga a sottolineare che Brunetto “parve di […] / quelli che vince non colui che perde”.

Lo svolgersi delle competizioni quaresimali infatti, codificato a partire dallo Statuto Albertino (così chiamato perché venne compilato sotto Alberto della Scala anche se reca disposizioni di molti anni anteriori al 1271) prevedeva due corse da disputarsi nella prima domenica di quaresima, una equestre e l’altra podistica: al cavaliere vincitore si dava un palio, di colore inizialmente non specificato, mentre al perdente andava una coscia di maiale. 

Lo stesso succedeva nella corsa podistica: al primo corridore un palio sempre di colore non specificato, all’ultimo un gallo. Lo Statuto Albertino venne poi compilato nuovamente da Cangrande I nel 1328 e sempre nella prima domenica di quaresima, erano previste le solite due competizioni. Per il palio a cavallo i premi erano un drappo scarlatto ed una coscia di maiale, per quello a piedi un drappo verde (il “drappo verde” dantesco) ed un gallo.

È interessante notare però che già con lo Statuto di Giangaleazzo Visconti, approvato nel 1393, le corse divennero tre: il solito palio a cavallo (un drappo di velluto al vincitore, una coscia di maiale all’ultimo) e due invece le corse a piedi, la prima riservata agli uomini (palio rosso al primo, gallo all’ultimo) e l’altra invece aperta alle sole donne, alla vincitrice delle quali era destinato il “drappo verde”, senza dimenticarsi anche qui del gallo per la meno veloce. 

Il palio verde insomma che al tempo di Dante era destinato agli uomini, fu da Giangaleazzo Visconti assegnato alle donne, ma – attenzione! – con la postilla che per la conquista del drappo, recita lo statuto, “correranno donne oneste, anche se ce ne fosse una sola, se invece non ci sarà alcuna donna onesta che corra, allora in sostituzione verranno accettate anche le prostitute”. Lo spettacolo, insomma, deve continuare!

Non molto tempo dopo il 1450, dopo cioè che Verona passò sotto la dominazione veneziana, lo statuto cittadino fu infine nuovamente riformato e modificato in una forma che si mantenne inalterata fino alla caduta della repubblica. In questa versione del regolamento di gara, il giorno delle competizioni venne spostato dalla prima domenica di quaresima al giovedì grasso, ed alle tre corse ne venne aggiunta un’altra, il palio degli asini, con un drappo bianco per il vincitore.

La cerimonia delle premiazioni infine rivestiva un’importanza particolare anche per gli stessi spettatori, non solo per tributare i dovuti onori a chi aveva primeggiato nelle due/tre/quattro gare, ma anche e soprattutto per divertirsi a spese degli ultimi, costretti da regolamento a girare per la città facendo bella mostra del “premio di consolazione”. 

Nel caso del cavaliere perdente, questi doveva attraversare Verona con la coscia di maiale appesa al collo del cavallo, coscia che, sempre da regolamento, “è lecito che chiunque la possa tagliare e portar via”. E i podisti di oggi che si lamentano per niente!

 

 

Fonte: srs di Indro Neri/Dante era un podista/run.com


Gen 27 2009

Verona. Chiesa Santi Apostoli, è una delle pievi battesimali del primo romanico

Il sacello delle Sante Teuteria e Tosca è stato consacrato nell’ anno 751., Si puo’  notare il fonte battesimale

La chiesa dei Santi Apostoli, fra corso Cavour e via Oberdan, in testa alla piazzetta omonima, è una delle quattro pievi battesimali veronesi, già ricordata nel Ritmo Pipiniano alla fine del secolo VIII, disposta su una pianta a tre navate che si concludono in tre absidi, due dei quali, più piccoli, ricavati nello spessore del muro, secondo la tipologia caratteristica normanna.

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Dic 12 2008

Verona-La Pieve di San Martino di Negrar e il suo campanile

Category: Chiesa veronese,Verona storia e artegiorgio @ 13:58

Chiesa di Negrar

E’ nominata per la prima volta in un documento del 1067.  Di quell’antica chiesa, non si è conservato nulla, forse distrutta dal terremoto del 1117. Della successiva chiesa romanica,  rimane invece il bel campanile in tufo, finemente lavorato e la Carta Lapidaria.

La chiesa antica.

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Dic 12 2008

Verona-La Carta Lapidaria della Chiesa di Negrar

Category: Chiesa veronese,Libri e fonti,Verona storia e artegiorgio @ 11:48

La  Carta lapidaria

 

La Carta lapidaria di Negrar  è definita la lunga iscrizione  di ben 64 righe, una delle più lunghe d’Italia,  scolpita in caratteri maiuscoli romani nel 1166  o poco dopo, sulla parete sud del campanile della Chiesa di Negrar. Vi è riportata una serie di contratti,  tutti del 1166, mediante i quali la pieve di Negrar riscatta un vecchio censo annuale dovuto al cittadino veronese Ribaldino.
Praticamente essa non è altro che un atto notarile autentico,  un contratto stipulato nel 1166 fra Wizardo arciprete della chiesa di S. Martino di Negrar e gli eredi di Odelrico Saketo

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Dic 11 2008

Verona e il suo ponte romamano chiamato Ponte Pietra o Ponte Piera

Category: Verona storia e artegiorgio @ 20:55

Dipinto di fine ottocento del Ponte Piera

Con l’Arena e il Teatro  Romano non c’è veronese che non ne conosca l’ubicazione;  è uno dei simboli ddella Verona romana.   Pochissimi però ne hanno la traccia storica della sua lunga e travagliata esistenza.

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